Pioveranno venerdì S02E14: qualcuno pagherà per noi
22 - 28 aprile: Jessie Ware, The National, Giovanni Truppi e un mondo da cambiare *non* a picconate
Ciao Louder,
Forse lo sapevi già, ma Ed Sheeran è stato fino a pochi minuti fa sotto processo con l’accusa di aver copiato Let’s Get It On di Marvin Gaye per scrivere la sua Thinking Out Loud: sul gruppo Telegram di Louder ho scritto uno spieghino per dire che no, quella canzone non era un plagio, cioè il furto di una melodia. Quello che Sheeran ha copiato, al massimo, è la vibe (non usciamo eh) del doo-wop che a loro volta Marvin Gaye ed Ed Townsend (l’autore di Let’s Get It On) avevano copiato.
Al momento né lo stile di una produzione, né il giro di accordi di una canzone sono protetti da diritto d’autore. Forse è sbagliato, forse la musica oggi si ascolta per mood e non per cantare la melodia, ma sicuramente Ed Sheeran non doveva pagare per una legge che, al limite, è da modificare. Ora che il processo è chiuso possiamo tornare a parlare di intelligenza artificiale e di come l’industria musicale si sta comportando di fronte all’esplosione di deepfake ed AI musicali: in modo molto sospetto. La solita preziosa insider Cherie Hu ne ha parlato in questo thread su Twitter. La mia idea è che chi guadagnerà poco da queste picconate saranno gli stessi che già stanno soffrendo nell’economia dello streaming: artisti, autori e produttori normali. E forse anche qualche stella, visto che perfino Snoop Dogg su Variety si è chiesto “dove ***** sono i soldi?” e ha messo in dubbio il modello economico dello streaming. Che poi è lo stesso modello fallato che ha convinto gli autori televisivi americani a scioperare: non è che forse è arrivato il momento anche di uno sciopero della musica?
Vedremo. Intanto, il tempo stringe e il nuovo venerdì è già dietro l’angolo. Quindi, ecco la playlist della scorsa settimana.
La trovi su Spotify e su AppleMusic, e ora parliamo di cosa c’è dentro, in un episodio che più che mai sarà pieno di refusi e che il tuo client mail troncherà senz’altro prima della fine. Nel qual caso, vieni a leggere qui.
Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 38 album, 13 EP e 112 singoli
The National, First Two Pages of Frankenstein
Cosa porta dentro il mainstream una band che morde la polvere ai margini dell’industria? Un tempo, negli anni di contrazione dell’industria discografica, uno spot o il passaggio in una serie tv sembrava una garanzia per sopravvivere un altro semestre, per galleggiare sopra le preci dei blog che davano l’impressione di essere generalisti solo alla piccola parte di popolazione che abitava la rete. Poi le cose sono “migliorate” (enfasi sulle virgolette), Spotify ha cominciato a mettere soldi nelle tasche dell’industria, e molti artisti sono tornati a vivere fuori dalla cornice. Qualcuno, come i National, si è guadagnato una posizione solida nella dimensione del “culto” grazie a due qualità: una discreta costanza nelle pubblicazioni (due album a distanza di due anni è meglio di tanti altri esulti dell’indie rock); un’ostinata e costante presenza dal vivo (248 date negli ultimi 7 anni, tenendo conto della pandemia di mezzo, è un ruolino di marcia importante). Ma un altro accidente della sorte ha fatto girare il loro nome molto più di quanto non potessero fare passaggi televisivi, interviste, copertine e tour: il 23 luglio 2020 Taylor Swift comunica che nel mezzo del lockdown ha scritto un bordello di canzoni, e che ad aiutarla nella scrittura e nella produzione è stato in particolar modo Aaron Dessner. Per uno dei due gemelli della band di Cincinnati si trattava di un “salto di carriera” - chiamiamolo così - abbastanza impressionante: nel suo lavoro dietro le quinte, al massimo Aaron aveva toccato la celebrità lavorando con Mumford & Sons. Quasi non facciamo in tempo a decidere se l’impatto di Dessner sia stato decisivo o meno per il successo (inevitabile) di folklore, che a dicembre Swift annuncia a sorpresa un altro album creato a partire dalle stesse sessioni, evermore. Di lì a poco - l’avremmo scoperto solo poco tempo fa - anche Ed Sheeran avrebbe deciso di farsi dare una mano da Aaron Dessner. Nella primavera 2023, così, ci troviamo di fronte a titoli come quello del Telegraph che proclama i National “la band più influente al mondo”.
Ma è così? C’è qualcosa dei National nella musica pop intimista in circolazione? Io non credo, e non perché il lavoro di Dessner con Taylor Swift sia solo di facciata, anzi. Penso che il modo sottile con cui i National usano la dinamica e il crescendo, senza facili stacchi e altre tecniche efficaci ma populiste, li ha resi unici (e noiosi, a detta di alcuni), e nessuna popstar rinuncerebbe a far scoppiare i ritornelli come i National hanno sempre fatto, anche nelle loro hit: il refrain di Terrible Love arrivava senza preamboli, come un’epifania. Non parliamo poi del livello di sofisticazione con cui, impilando strumentale su strumentale senza cadere nella cacofonia, i Dessner fanno sembrare grande anche una ninna nanna: in questo album un esempio ottimo è Send For Me; ma se ti fai un giro nel pop minimalista di oggi, tranne quello di Billie Eilish, troverai trame strumentali molto più povere. Ma poi non mi importa contraddire un titolo del Telegraph: perché la verità è che secondo me i National non influenzano più nemmeno i National. Che è un altro modo per dire che hanno perso qualcosa di importante, specie in questo album. Per prima cosa, l’irruenza: quel concitato alzarsi da per terra con la giacca sdrucita di certe canzoni che puzzavano di vino e sigarette. Dove sono le Mistaken For Strangers, I Should Live In Salt, The System Only Dreams In Total Darkness che zoppicano zoppicano ma sempre spingendo. Questo manca spesso, oggi, e le canzoni si sgonfiano: le eccezioni sono Grease Your Hair e l’ottimo singolo Eucalyptus, in cui la batteria pesta. Anche la scrittura di Berninger ha perso una cosa: la concisione - detto da me! - e la precisione che permettono di puntare tutto su pochi dettagli. Oggi la sua penna, invece, è carica di inchiostro e di autoreferenzialità: che parli delle sue crisi prima di salire sul palco (Once Upon A Poolside), o faccia l’elenco diaristico delle cose che ama della moglie (New Order T-Shirt) mi sento alla finestra. Ascoltare e spolpare una canzone dei National era un palliativo per millennial impreparati a fare i conti con i propri traumi: trovare un senso negli sciami api dell’Ohio era un modo per capirsi. Ma se arrivo alla conclusione sdolcinata di The Alcott (feat. Taylor Swift) mi sembra solo di aver consumato la storia (ipercalorica) di qualcun altro. Confrontalo con la parsimonia di dettagli di una I Need My Girl, che pure ha la stessa dolcezza.
Aaron Dessner ha detto che questo è il suo album preferito dei National, e non posso dire che non abbia i suoi momenti, oltre a quelli già citati: Tropic Morning News, con il suo vestito un po’ Big Red Machine, era stato un bel singolo, come Eucalyptus. Ma alla fine di un paio di ascolti voglio tornare a visitare il decennio d’oro della band, sperando di non essermi perso pure io, che ce l’ho sempre avuta con la nostalgia.
Jessie Ware, That! Feels Good!
La regola sarebbe questa: ogni cinque anni circa, il pop fa un giro su sé stesso e si innamora di nuovo delle canzoni da ballare; a quel punto, le sviolinate e i lenti vanno in soffitta (per la gran parte) e la cassa ricomincia a battere in quattro. Tutto ok, se non fosse che da una decina d’anni a questa parte la musica da ballare è diventata la lingua franca di artisti e produttori appartenenti a scuole e scene parecchio diverse, ma spesso promiscue, dal pop crasso all’avanguardia, passando per quel che rimane del rock. Potrei ipotizzare che quanto più la nostra vita si fa impalpabile, tanto più subiamo il fascino del nostro corpo e dei corpi altrui, come strumento di affermazione individuale e collettiva. O forse è un puro caso, e ha a che fare con il nostro consumo sempre più frenetico di contenuti. Comunque, bisogna farsi trovare preparati all’appuntamento con la cassa dritta, come di recente Annalisa. Un’artista preparata alla grande è Jessie Ware, che nel mezzo della pandemia ci ha donato forse il disco migliore per quel periodo oscuro: What’s Your Pleasure? era ombroso, marmoreo, e molto molto danzereccio; tutto sembrava fermo, ma Jessie ci diceva che, se fai attenzione, noterai sempre un moto, una pulsione. L’agio con cui l’artista inglese indossava vesti di seta e faceva roteare la mirror-ball è glorioso, imperiale: e sulla scia di quel risultato, nei mesi a seguire Jessie ha regalato qualche altro pezzo da aggiungere al suo set synth-pop e dark-disco. Uno di questi, Hot N Heavy, è il collegamento ideale tra That! Feels Good! e What’s Your Pleasure?: sudato, pieno, funk, luminoso, laddove quello era più tetro e vibrante. Vediamo cosa c’è dentro.
Lo spettro di Chaka Khan aleggia su tutto l’album: mi sembra che l’acuto di Pearls (“Oooofff let it goooo”) sia un omaggio esplicito all’hook di I’m every woman. L’incastro ritmico melodico del basso e del canto nel refrain di Free Yourself ha la spinta trascinante di una Donna Summer (o di quel che le orecchie cubiste di uno Zdar o un Bangalter ci sentiva dentro), e mentre Jessie predica la fine delle complicazioni, ritrattazioni, esitazioni per plasmare un’umanità di ossessioni, motivazioni, investigazioni, sentiamo di aver (ri)acquisito una parte vorace di noi stessi. Non è che manchino le fitte di dolore, che però si accompagnano sempre a una delizia, come nel caso di Hello Love, tributo dichiarato ai Gap Band. E nemmeno manca una lotta: “perché la realtà deve sempre avere la meglio sul sogno?”, si chiede Jessie. La voce è elastica come un muscolo in perfetto stato di salute: una canzone come Beautiful People potrebbe sembrare poca roba, ma quando in fila arrivano recitativo, acuti, fraseggi iper-ritmati e note basse, ti senti come dopo un’ora di ginnastica. A proposito, apprezziamo per un minuto l’eccellente sequenza delle tracce: dopo lo stretching arriva un pezzo “da palestra” (nel miglior senso possibile, cioè nel senso “french house”) come Freak Me Now. Troppo bello per essere vero
Se definissimo banalmente discomusic questo progetto, faremmo un torto alla sua ricchezza di riferimenti: Begin Again unisce il boogie brasiliano alla Sandra Sá e le fanfare spiegate alla Earth Wind and Fire, i Talking Heads e Stevie Wonder; Shake The Bottle, che troverai in playlist, contiene B-52’s e Grace Jones ma ti spiattella in faccia anche le sue radici funk e blues con un motivo di ottoni discendente sulla scala pentatonica minore.
Si sarà capito che That! Feels Good! non è un lavoro edonista per il piacere (ops) di esserlo: è un inno alla liberazione del corpo, quindi il seguito perfetto di un disco che avevamo consumato al chiuso.
Giovanni Truppi, Infinite possibilità per esseri finiti
Nella musica devi partire dal presupposto che le scelte di parole e suoni siano consapevoli e coerenti tra loro: che rispondano cioè a un’estetica grazie alla quale tutto si tiene insieme in un discorso. In questo senso un artista è come un regista, che obbliga le parti a stare insieme, perché dicano quello che ha in testa. Poi, però, non sempre le cose girano per il verso giusto, magari non c’è tempo o non si riesce, magari bisogna chiudere una canzone. Giovanni Truppi a me dà l’impressione di essere l’unico cantautore in Italia che è veramente autore in questo senso registico appena definito: e infatti, esattamente come i registi, non è un puro solista. In questo nuovo disco, Infinite possibilità per esseri finiti, suona con Niccolò Contessa e Marco Buccelli, che scrivono e producono con Truppi 16 delle 18 tracce. Il progetto abbraccia la pluralità già nella copertina, opera partecipativa di Aldo Giannotti. E nonostante tutto, alla fine di ogni canzone, Truppi potrebbe firmarla dieci volte: perché si prende la responsabilità di quello che dice, da sempre; la parte poetica e quella grottesca (come Lucio Dalla); ma anche di quello che non dice.
E nonostante il controllo sovrumano, quasi atletico, dei suoni e delle parole, le cose sfuggono da tutte le parti. Perché la vita lo fa, sfugge, accadere mentre siamo distratti. Vertono un po’ su questo le Alcune considerazioni, questa specie di rock Dire Straits a gasolio sulla crisi personale; ma è anche il tema portante dell’album intero. “Ci dimentichiamo di vivere”, recita la voce di Camminando per via Indipendenza, la rivisitazione di Blonde di Brian e Roger Eno che quasi-conclude l’album. Allora, tanto vale abbracciare un certo caos: ad esempio, con i field recording (in italiano, le registrazioni ambientali) disseminati nel disco, e ripresi da Truppi e Contessa a Roma e Bologna; con le dissonanze e i disturbi e i feedback che sporcano il segnale; con le imperfezioni e le esitazioni vocali, udibili soprattutto nei recitativi. Le scelte (e le non scelte) sono il modo in cui ci definiamo: anche se nel grande disegno delle cose rimaniamo una variabile impercettibile, dal nostro punto di vista tutto cambia. Truppi compie scelte decisive sullo stile della sua musica, in questo album: l’approccio contemplativo/viscerale alla Geoff Farina dei precedenti lavori si contamina con il Frank Ocean euristico di Blond(e), ad esempio. Nel grande disegno della sua discografia, forse cambia poco: ma se ti metti nelle sue scarpe (probabilmente un paio di Tricker’s), la differenza è gigantesca.
Per il terrore delle infinite possibilità, per il costante ritorno tematico della morte e dell’amicizia, ho sentito tante consonanze tra Esseri finiti e Multitudes di Feist: entrambi i lavori sono frutti di grandi cambiamenti personali; entrambi girano intorno alle domande essenziali e non danno risposta. E poi c’è un senso di urgenza, letterale. Quando rifletti sulla finitezza delle Persone e le cose, quando vivi la scomparsa di qualcuno, il tempo ti sembra destinato a scadere: puoi sentirlo protestare mentre viene schiaffeggiato dal beat di Amico.
Ma dopo la filosofia, Truppi introduce qualcosa che Feist tocca molto meno: la comunità, la società, la politica, in pratica la prassi dopo la teoria. L’intro e la fine riflettono in particolare sul privilegio di essere maschi occidentali: si può prescindere dalla necessità di giustizia e dignità, quando si ricercano felicità e serenità? Le due cose non sembrano slegabili: Infinite possibilità e Alcune considerazioni, il politico e il personale, dialogano per forza, perché una questione porta subito all’altra in una testa consapevole. Come un cerchio, il donut (sarà questa l’etimologia degli intermezzi del disco?), il solco che scaviamo noi esseri umani, di generazione in generazione, e dal quale sogniamo di fuggire ma al quale poi ci rassegniamo. Non senza terrore e ansia, due termini con i quali descriverei molti passaggi musicali di questo disco (in senso buono, ovviamente). E come in un cerchio non c’è inizio e fine, come una deduzione porta continuamente dal problema all’antefatto, così l’enigma dell’individuo non si scioglie: perché, nonostante sia un disco molto parlato (il modello di Kae Tempest è chiaro), nonostante sia un disco molto programmato (nel senso di elettronica) e molto consapevole, Infinite possibilità per esseri finiti non sale in cattedra. Semmai, come un regista (con i suoi aiuti), Truppi ci offre una visione: fa tremare le ginocchia, ma ogni tanto ci serve.
Gli altri album, in breve
Venerdì scorso sono usciti molti dischi belli, quindi non sforare le 50mila battute solo in questa sezione sarà impossibile - nel caso, vieni a leggere qui il resto.
Cominciamo con Indigo De Souza, che ha pubblicato All Of This Will End, terzo eccellente album. Il grunge pop dell’artista di origine brasiliana colpisce ancora: trovo abbastanza unico il suo modo di trasportare nel presente l’indie rock americano, mescolando elementi disparati (tipo chitarre strimpellate e autotune, bedroom pop e Dinosaur Jr) e indossando lo stesso ethos sonoro ed emotivo dei suoi predecessori. Non sembra mai di stare davanti a una bella voce che fa la turista del rock alternativo e, anzi, dalla fantasmatica Time Back in giù, sembra che Indigo abbia intenzione di continuare a raffinare la sua scrittura e gli arrangiamenti: lo senti in un maggiore uso di elementi come fiati o slide-guitar country (ci arriviamo), cioè dalla cura con cui la musica rispecchia il messaggio. La cacofonica Wasting Your Time instilla il dubbio ossessivo in sé stessi che riecheggia nel resto dell’album più dei flanger stracciati di queste chitarre. La sbrindellata The Water (la traccia che inserisco in playlist) è la celebrazione perfetta dei momenti imperfetti che compongono una vita, quando tra fiati e ottoni stortignaccoli e ironici ti rendi conto che meglio soli che male accompagnati non è un detto stupido. Always caccia fuori (nel senso di sputarla per non rimanerne avvelanata) una rabbia generazionale e filiale divenuta insostenibile. Younger & Dumber, primo singolo di questo nuovo progetto e appropriato finale del disco, è la promessa di un’artista che si mette a nudo di fronte a sé stessa e al suo pubblico: Indigo vuole convincerti che, se incarna così bene i sentimenti dell’adolescenza, non è perché intrappolata nostalgicamente nel suo passato, ma perché sta inseguendo le ragioni profonde della sua alienazione, la vera costante della sua vita. Indigo si sente straniera nella propria città (da cui i vari accenni al country, specie in Y&D), ma anche nella propria casa, o in una relazione: la consapevolezza della fine è la sola magra consolazione, la garanzia che non c’è nulla di intrinsecamente romantico nel rivivere le proprie memorie. E, per via di questa lucidità nel leggere il proprio passato e presente, non posso non accostare All Of This Will End a Rat Saw God dei Wednesday. Guarda caso, stiamo parlando sempre di artisti della North Carolina, questo luogo di confine, di campi di tabacco e parcheggi di cemento, di strade sterrate e autostrade desolate. Un luogo degli Stati Uniti che musicalmente ha sempre saputo leggere con acume (o incarnare direttamente) le contraddizioni tra passato e presente, come hanno fatto Nina Simone, James Taylor, J.Cole, Rhiannon Giddens, perfino Ashnikko. E oggi sicuramente Wednesday e Indigo De Souza.
Sono passati più di dieci anni dal suo debutto, e nel frattempo da promessa di un R&B elettronico ancora immaturo e troppo legato al passato Labrinth è cresciuto incredibilmente. Ha lavorato con Sia e Diplo, ha pubblicato altra musica e ha fatto la colonna sonora di Euphoria, e sempre più è riuscito ad abbracciare il lato inquietante ed esistenzialista non solo dell’R&B in generale, ma della sua voce, in particolare. Labrinth è dotato di un tremolo pazzesco: il tremolo è quella tecnica per cui una nota (suonata o cantata) cambia velocemente di volume, in modo oscillatorio: esteticamente parlando, è come dire che una cosa esiste e non esiste. E questa è una specie di filone tematico e sonoro di Ends & Begins, un disco giocato negli spazi vuoti che d’improvviso e per un istante si riempiono. Fai caso, ad esempio, all’attacco netto e al riverbero delle batterie di The Feels, il brano cantato con Zendaya che apre l’album: ogni colpo sbatte sulle pareti immaginarie dell’hangar in cui le due voci si incontrano. A questo proposito, già il singolo con Billie Eilish Never Felt So Alone mi aveva fatto sperare bene per questo disco, e speravo giusto: senza reinventare la ruota, Labrinth scrive, canta e produce un synth-soul magnetico (Covering), scheletrico (Only Way Is Up) che sa toccare follie pseudo-chiptune (A Turn Of Events) o giocare con le terzine trap e le melodie afrobeats senza cascarci (100 Miles An Hour). Il tutto senza cercare disperatamente di imitare il maledettismo R&B elettronico di The Weeknd. Anzi, dentro questa messinscena notturna, mi sembra che il messaggio di fondo sia che l’amore può illuminare la strada. Ottimo album.
A proposito di canzoni sintetiche ma piene di calore, Euphoric Recall dei Braids è un disco che arriva di soppiatto e ti piglia allo stomaco. La voce gentile di Raphaelle Standell-Preston passeggia tra loop ipnotici, ma le canzoni non se ne stanno a girarsi i pollici: anzi, hanno quasi sempre un crescendo che sommerge il canto ma anche noi, che si tratti degli archi della commovente (e già segnalata) Apple, o della moltiplicazione di percussioni e motivi melodici in Millennia. E questo contribuisce alla sensazione di un lavoro spettrale ma pieno di tinte e di calore.
Passiamo a un disco spettrale ma freddo e in scala di grigi, cioè Futuro splendido di Miglio: l’artista bresciana è stata già segnalata nelle nostre playlist, per il senso di unicità in quello che suona e che canta: se dai un’occhiata all’Archivio 2022 troverai ad esempio, Techno Pastorale, che apre ottimamente questo lavoro. Il disco (prodotto da Miglio con Marco Bertoni) propone la visione di un cantautorato italiano che si avventura tra dark wave e post-punk per scandagliare la distopia della città e della provincia, uno scenario apocalittico nel quale il contatto umano è una speranza flebile ma esistente (My Future Is You; la devastante Sui cassonetti hai scritto). E questo modo di aggrapparsi con le unghie a una prospettiva migliore, anche tra i Paesaggi in disordine e le Sexy solitudini in cui siamo calati, è ciò che rende irresistibile questo album: è come se l’entropia dell’universo fosse condensato in pochi minuti di musica e di poesia. In playlist metto Pestaggio, per la sua progressione armonica eroica, per la ribellione esistenziale come metafora politica (compresa una citazione di Gramsci, “istruitevi agitatevi organizzatevi”), per il montaggio frenetico di immagini e - lo ammetto, sono un pop-boy - per il gran bel ritornello. Ma tu arriva fino alla fine, e sentilo un’altra volta.
Se invece vai sull’Archivio 2023 troverai un paio di canzoni degli Washer dal loro ultimo album Improved Means To Deteriorated Ends: anche la qualità di questo progetto si vedeva bene da lontano. King Insignificant è una delle migliori tracce opener dell’anno, e apparecchia bene la tavola per un pasto di miseria e voglia di stare meglio, di batterie dondolanti e chitarroni nonchalanti. L’approccio del duo formato da Mike Quigley e Kieran McShane è sempre quello di canzoni che crescono un passo alla volta, e il contrasto con i testi abbastanza incazzati con l’umanità in questo senso è evidente. Ma forse anche per questo i brani più stiracchiati, come Answer To Hell, soffrono di fronte alla concisione di The Itch, Chowderhead, False Prize, dove si sente un Lou Reed catatonico che si ripiglia e comincia a urlare alla fine. Detto questo, Cheap Therapy, la traccia che chiude l’album, è perfetta nel suo girare metodicamente intorno alla questione, e poi azzannarla in un ritornello caotico e urlato. Musica ideale per incazzarsi con il mondo, e il mondo sa che se lo merita.
Anche dell’islandese JFDR (all’anagrafe Jofridur Akadottir) ritroverai qualche traccia nell’Archivio 2023, ma l’album che anticipavano, Museum, non è sempre all’altezza. Ma il disco ha un’interessante evoluzione (o involuzione) traccia dopo traccia, per cui dall’elettronica si arriva all’acustica (chitarra) dell’ultima canzone, Underneath The Sun, e non ti senti nemmeno spaesato per l’abilità con cui sono stati gestiti i timbri in tutto il lavoro. Però alla fine, oltre a questo trick, resta poco: i singoli di cui sopra, e Sideways Moon, pezzo che ci mette del tempo a ingranare, ma lo fa con un bel climax.
Restiamo nell’Europa del Nord con la norvegese Susanne Sundfør: Blómi è il suo sesto album in studio, ed è un esempio piuttosto coraggioso di cantautorato, perché esplora tutte le ispirazioni possibili senza perdere fiducia nella scrittura: in pratica, i pezzi funzionano sempre e stanno insieme, che siano vestiti di ambient inquietante come Ashera’s Song, di un folk-jazz vellutato nella title-track, di jamestaylorismi e dilanismi in Rūnā o di gospel e soul in Fare Thee Well e Náttsongr. Questo perché, anche se magari i filoni tematici di Blómi possono sfuggire - la parola in antico norreno significa “fiorire”, dentro ci sono mitologia scandinava e citazioni di Dostoevskij, in copertina c’è una foto dell’artista da piccola con il padre… boh - cionondimeno la cantautrice scrive ottimi giri e ottime melodie. Un album che, a differenza degli altri, mi ha sorpreso perché era fuori dai miei radar. Ma che vale non solo un ascolto, ma una retrospettiva sul resto della discografia di Sundfør.
Ceremony dei neozelandesi Tiny Ruins è un altro disco delizioso, da godersi una chitarra alla volta, con la compagnia di Hollie Fullbrook e della sua voce di yogurt, e solo quando arrivi al finale The Crab/Waterbaby (che invoca la necessità di un rituale, o di una “ceremony”) ti accorgi di aver ascoltato un percorso di elevazione dalla sfera materiale. Uau. E parlando di musica inattuale, Jump On It di Bill Orcutt è il disco con il quale vorrai testare il tuo impianto audio questa settimana, e ti farà riscoprire la magia della musica suonata con una chitarra e basta. Non è molto pop consigliare dischi strumentali, ma quando si parla di lavori come questo, bisogna fare un’eccezione. Ultima segnalazione in ambito di “fuori dal tempo”, è Miramar di Júlia Colom, artista di Mallorca che canta (divinamente) un folk con alcuni elementi di elettronica che spiazzano.
Cruisin' dei canadesi Bernice è un disco art-pop fatto di minuscoli suoni e parole sospirate all’orecchio che suona come quello che è: una collezione di fantasmi. E parlando di fantasmi e canadesi, i Great Lake Swimmers sono lo spirito delle band folk rock passate: per loro non è mai arrivata la gloria di colleghi oltreconfine come i Fleet Foxes, per esempio, ma il loro ultimo album Uncertain Country è un bel lavoro che combina leggerezza e gravitas e fa di tutto per farsi percepire come uno sforzo collettivo in sala prove e in studio, aprendo l’audio sui dialoghi della band ma anche prendendosi il tempo che serve a far girare le canzoni, senza promettere cose che non può mantenere: come un adulto. Ecco, forse questo è il disco più adulto, a questo giro.
Torniamo al pop con Avalon Emerson & The Charm, lo dico tutto di fila perché così ha più senso: si tratta di fatto del primo vero e proprio album della dj e producer di San Francisco, Avalon Emerson, che per fare il suo disco pop ha chiesto l’aiuto del produttore e musicista inglese Bullion (all’opera con Nilüfer Yanya e Carly Rae Jepsen, per citare i suoi ultimi lavori). Insieme hanno creato un piccolo gioiello, che combina estetiche contemporanee e nostalgie synth-wave con una sensibilità davvero peculiare. Mi ha ricordato il disco di Kate NV per come riesce a giocare con la fantasia ma senza perdere un appiglio alla realtà. In passato ti ho consigliato Karaoke Song, che confermo essere ottima. Ora in playlist trovi Astrology Poisoning che, oltre a essere un bell’arazzo di basso slappato, tastierine e flauti campionati, espone lo smarrimento di Avalon - ma anche un po’ nostro - quando ci affidiamo a soluzioni e amicizie consolatorie (come l’astrologia) per risolvere i nostri casini. Con più basso e più pop, questa sarebbe una hit totale. A proposito di pop, elettronica e futuro, fatti un giro in BABYLON IX di yunè pinku, che è glaciale ma palpitante, e un po’ terrificante.
Abbiamo anche altri dischi italiani? Certo che sì. Partiamo da FUORISTRADA dei bnkr44, per molti di noi collettivo che è una mezza promessa del pop a venire. Il disco è tutt’altro che perfetto, ma ha un bel concept ottimo per il target di riferimento, cioè i giovani: e il concept è ribadire, un pezzo dopo l’altro, che uscire dal seminato, essere diversi, non omologarsi e cambiare sono tutti valori. Sembra banale, ma non credo che sia così ovvio, specie nel panorama musicale, a maggior ragione in quello italiano. Non c’è solo l’idea, però: FRETTA combina elettronica schizzata e ritmiche punk con un vitalità; MEZZANOTTE non te la consigliai, ma è cresciuta dopo un po’ di ascolti; GUIDA SPERICOLATA è urban-pop-punk che sa il fatto suo. Magari pezzi come SPECCHIO tradiscono ancora una certa ingenuità - e quindi sarà la hit. Però, poco dopo (TRA I ROTTAMI) osa di nuovo, e - come posso dirlo senza sembrare un vecchio trombone… - la giovinezza torna un valore e non uno svantaggio. E secondo me è quando combinano la loro freschezza con la capacità di fare pezzi storti, che veramente colpiscono il centro: ESCO per me è un esempio perfetto di questa attitudine, e quindi te la ritrovi in playlist.
SALA BLU è il primo disco vero e proprio di Ilaria, già concorrente di X Factor una vita fa, nel 2016: oggi che non ha più 16 anni e ha studiato, ascoltato, sperimentato, viene fuori un cantautorato sensibile e intelligente. Perché a volte ci vuole tempo, e i risultati si vedono. MARE te l’avevo già indicata, ma il resto dell’album è anche più interessante: pizzicate sulla chitarra, sospese in spazi dilatati, queste canzoni sembrano costruite “a togliere”, come se fossero state scolpite nella pietra anziché messe in piedi come un mappazzone. E così ti stupiscono sottilmente, come nel break ritmato della title-track, perché non vogliono strafare: “fare” è già abbastanza di questi tempi.
Un disco davvero speciale e - a suo modo - italiano è Scuru Cauru dei francesi Crimi, un lavoro che mette a contatto lingue parlate (italiano, siciliano, arabo) e lingue suonate (raï algerino, elettronica cosmica, soul-rock, funk psichedelico) con la medesima disinvoltura, senza paura. Stiddi! è una hit assoluta e la traccia che ufficialmente scava il groove dal quale non uscirai finché non smetterai di ascoltare il disco, anche se la tracklist sa riprendere il fiato in grande stile, come in Lu Mumentu, che sembra Stand By Me calata dentro un ritmo misterico siculo-antico. E visto che siamo in un mood mistico, cito anche Grotte di Francesco Morrone, un disco folk che sa di umido e di buio come le grotte nelle quali effettivamente diverse tracce sono state incise, ma che da questi spazi ancestrali parla una lingua attuale: come se venisse da un futuro prossimo nel quale abbiamo dovuto abbandonare le città e tornare a concentrarci sulle cose che contano davvero.
MILLE la seguo da anni, e quindi posso dire con certezza che il suo nuovo EP Quanti me ne dai la vede in grande forma: ad esempio, nella prima canzone, Musica Jazz, mette sul tavolo tutto quello che sa di rock elettronico e tutto quello che la natura le ha dato (una voce agile ma potente e con un timbro ruvido inconfondibile), per riportare tra di noi un lampo di Giuni Russo. In generale credo che giocando con il non-sense e la sincerità abbia trovato una sua chiave che le auguro di sviluppare ulteriormente, perché il tempo del cantautorato cinico è finito. Questa settimana ho ascoltato anche Fantapunk di Lamo, che in ambito indie-italo-pop mi sembra mostrare un simile tocco hopepunk: una rivoluzione fatta con gentilezza. Forse davvero le cose miglioreranno!
Questo concetto, cioè la possibilità di riconquistare una forma di innocenza, mi permette di chiudere in bellezza con Paolo Benvegnù che ha sparso l’interrogativo nell’EP Solo fiori: le canzoni (tra cui un già segnalato duetto con Malika Ayane, che da solo varrebbe l’ascolto) lottano con questo dubbio, se non si debba schiacciare reset ogni tanto, accettando anche la parte istintiva di sé. Quella cosa che un’intelligenza artificiale non potrà avere. Per ora.
E a proposito di speranza, hopefulness è la traccia che ho selezionato dell’album omonimo del progetto ethio-jazz-elettronico dragonchild - è un disco difficile, ma dagli una chance perché ti ci perderai. A fargli compagnia, in fondo alla playlist, altra elettronica, compresa quella italiana di Florilegio.
I singoli
Ti pare che ci sia tempo di parlare approfonditamente dei singoli? Hai visto l’orologio? Cito solo le tracce che mi hanno convinto di più, e ci salutiamo.
A Child's Question, August di PJ Harvey - perché è tornata Polly Jean, cosa vogliamo fare, finta di niente?
Three Drums di Four Tet - che ha annunciato che pubblicherà domani con la sua etichetta un disco di Fred Again e Brian Eno, così, per gradire.
No More Lies di Thundercat e Tame Impala - che nella copertina hanno fatto i simpaticoni con un impala che insegue un ghepardo (cioè un felino veloce come un tuono).
Notevoli anche i pezzi di: Crumb; Julie Byrne; M. Ward; Grian Chatten dei Fontaines DC; Kari Faux; Chromeo + La Roux.
Tra gli italiano cito solo Intro X di Daniele Silvestri con Fulminacci, Wrongonyou, Frankie hi-nrg mc, Franco126, Giorgia, Davide Shorty, Eva, Emanuela Fanelli (dimentico qualcuno?) - che sia arrivata l’epoca delle posse track indie e pop, dopo quella ottima di Dente nel suo ultimo album?
E prima di chiudere cito altri connazionali: Margherita Vicario; la rediviva Officina della Camomilla; il duetto gIANMARIA + Francesca Michielin; Sally Cruz.
Ciao Louder.