Ciao Louder,
come stai? Spero bene, è da un po’ che non ci sentiamo: la fine del 2022 è stata complicata, ma l’anno nuovo è arrivato e le newsletter ripartono. Ovviamente, dobbiamo recuperare un po’ di tempo perso, quindi senz’altro indugio ti propongo due considerazioni (non troppo rosee) sull’anno passato e sull’anno nuovo. Tu intanto, se vuoi, puoi mettere su la prima nuova playlist dell’anno nuovo (o l’ultima dell’anno vecchio), così non ci deprimiamo del tutto - qui la versione per Apple Music.
Se uno volesse giudicare lo stato degli ascoltatori di musica italiani, prima ancora che dell’industria che li alimenta con l’imbuto, riscontrerebbe un problema abbastanza grave: al pubblico tricolore non piacciono le donne. Nella classifica dei 100 album più ascoltati del 2022, solo 10 sono firmati da artiste: uno di questi album, il secondo meglio classificato (#39) risale all’anno precedente, Madame di Madame (che nel 2021 era in top 10), e non dico che non ne valga la pena, ma... La più alta in classifica è Elisa, al #33, ed è difficile pensare che senza la partecipazione a Sanremo sarebbe andata altrettanto “bene”. Nei singoli la situazione è un filo migliore (13 donne su 100 singoli, senza contare i featuring), ma è comunque deprimente, a maggior ragione se si aggiunge che metà dei 10 album a firma femminile in top 100 viene dall’estero: abbiamo sentito parlare tanto della ricchezza dell’offerta musicale italiana, di un periodo mai così prospero e fertile, eppure a quanto pare solo cinque donne meritano una (sottile) fetta di questa torta.
Questo è l’ombelico del mondo
A proposito di stranieri, c’è un altro problema, di cui abbiamo già parlato altre volte: agli italiani non piace la musica che viene fuori dai nostri confini. Harry’s House di Harry Styles è l’album internazionale più ascoltato in Italia nel 2022, e oltre il tredicesimo posto non va - comunque meglio del #24 di Future Nostalgia nella chart annuale del 2021 (si vede che in quanto donna non meritava di più…). Bad Bunny, uno che ha letteralmente unito le Americhe del Nord-Centro-Sud, si ferma al #22 con Un verano sin ti. Uno spazietto nei primi cinquanta album più ascoltati se lo ricavano anche Ed Sheeran (#35), gli Imagine Dragons (#42) e The Weeknd (#49) con After Hours (forse le sperimentazioni sonore e narrative del più recente Dawn FM non valgono più del #61, forse il primo era effettivamente un mega-disco). Sotto la 50 seguono Dua Lipa (con l’album dell’anno scorso), Taylor Swift, Adele (anche lei di ritorno dal 2021), Arctic Monkeys e Pink Floyd: gli inaffondabili delle nostre classifiche piazzano in top 100 un disco che tra un paio di mesi compie 50 anni, quindi preparati a una rievocazione di The Dark Side Of The Moon da far impallidire il funerale della regina Elisabetta. Quindi, segue di nuovo Harry Styles con il disco di tre anni prima; Bruce Springsteen con canzoni soul di decenni fa (ma in un disco nuovo, deo gratias); Olivia Rodrigo con un disco di un anno fa; ancora Ed Sheeran con un disco di 5 anni fa; Rosalia con uno dei migliori lavori dell’anno (#86, e vedi di ringraziare); infine un disco di Natale di Michael Bublé. Sono diciassette dischi internazionali su 100. L’anno scorso erano 23.
Se da questo numero togliamo gli otto album che già risultavano in top 100 nel 2021 (i due di Sheeran, uno di Harry Styles e uno di The Weeknd, quelli di Olivia Rodrigo, Dua Lipa e Adele, e ovviamente The Dark Side Of The Moon), vuol dire che solo 9 album stranieri del 2022 hanno meritato di essere ascoltati dalle nostre italiche orecchie almeno quanto - che so - Space Cowboy di Tommaso Paradiso (#85), o Bella vita di Niko Pandetta (#47). Diciassette dischi internazionali su cento è un po’ meno della metà della percentuale di 20 anni fa - allora erano 20 dischi stranieri nella top 50 (FIMI).
Dirai, “e chi se ne frega delle classifiche”: e sono d’accordo, ma prossimamente avrò modo di parlare di come questa carenza nel mainstream sia a mio avviso una minaccia di impoverimento per la generazione di ascoltatori che sta crescendo, o quantomeno per la generazione che viene dipinta da questi numeri: si può discutere se delle classifiche che (per ragioni legittime) escludono YouTube possano davvero rivelare qualcosa sugli ascoltatori che in maggioranza ascoltano musica da YouTube, ma certamente la fotografia scattata da FIMI resta. Per ora mi limito a constatare con sconforto questa autarchia sempre più profonda e convinta, che insieme con la permanenza per anni di certi album mi lascia presagire altri dubbi. Tipo quello che forse, in generale, gli italiani non stiano ascoltando musica affatto, come insinua nella sua “analisona” l’irreprensibile Paolo Madeddu. O che la curiosità sia diventata un disvalore.
Va tutto bene, sì, tutto normale
Non penso che la musica oggi sia peggiorata rispetto a 10-20-30 anni fa, l’ho detto tante volte: penso, invece, che ci troviamo a essere consumatori di un mercato nel quale alle aziende coinvolte - bastonate da un inizio di millennio disastroso che nessuno vuole ripetere - conviene di gran lunga farci acquistare prodotti locali. Ma non sono sicuro al 100% che ci vengano servite delle primizie. Si parlava di musica fast food negli anni della crisi della discografia, ma oggi mi pare che siamo passati alla musica delivery: sembra cibo fatto in casa, ma non lo è; sembra un ristorante, ma siamo nel nostro salotto; abbiamo un’offerta che soddisfa il nostro appetito, ma anche la nostra pigrizia, e peraltro ne emergiamo con la convinzione e l’arroganza di avere dei gusti, mentre scegliamo la prima offerta in homepage. O almeno, questa è l’immagine degli ascoltatori che ci viene offerta dall’industria stessa.
Inoltre, la classifica di “vendite” dimostra che in Italia esistono soltanto tre forme di musica: quella di Sanremo; quella urban; quella che scopriamo nei talent. O per riassumere: quella che scopriamo sui social e quella che scopriamo in TV. Il resto non esiste. O quantomeno, non viene registrato dalle statistiche, e resta affidato al ricordo personale, o alla mitologia: forse fra 20 anni ci troveremo al bar a raccontarci che il disco simbolo del 2022 fu Volevo Magia dei Verdena. Così come facciamo tutt’ora noi 30-40enni dipingendo come “cruciale” certa roba anni ‘90 che ascoltavamo in quindici scappati di casa. La questione della frammentazione del pubblico e della fine delle esperienze (musicali) condivise è pesante: ne riparleremo, ma adesso basta considerazioni, e tiriamo fuori un po’ di nomi.
Il listone del 2022
Passiamo appunto ai dischi che “hanno segnato il 2022”, anche se l’hanno fatto per pochi di noi. Non stilerò una classifica, ma li elencherò alla rinfusa: abbiamo capito che il ranking in musica sta facendo dei danni.
Parto da un disco che per un pelo nella top 100 italiana ci è finito, ed è Motomami di Rosalia. Si trattava di un album difficile, perché fotografava la trasformazione di un fenomeno di nicchia in un fenomeno pop, dopo un paio di anni passati dalla musicista spagnola a testare le acque del latin pop sudamericano (non sempre con risultati eccellenti): è il disco di una crisi, nostalgico della spontaneità ma pronto ad abbracciare il caos, tuffandocisi di testa. Eppure, anziché essere un disco ombelicale, Motomami ci chiede di mettere in discussione il concetto di popstar negli anni ‘20: o semplicemente, contiene una sfilza di banger. Un altro disco di una faccia familiare in Italia, ma che non ha sfondato nella top 100 annuale, è Multitude di Stromae, anch’esso conseguenza di una crisi personale e di ispirazione: il musicista belga ci mette dentro la sua solita mostruosa intelligenza creativa e una sensibilità umana di cui avremmo tutti bisogno.
Ok, un disco in francese e uno in spagnolo - a proposito, fammi citare anche quel capolavoro di ¡Ay! di Lucrecia Dalt. Mettiamoci un po’ di inglese: A Light For Attracting Attention dei The Smile di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner, Gemini Rights di Steve Lacy con una delle hit indiscusse dell’anno (Bad Habit), e poi scendendo in campi meno popolari (e prendendo un grosso respiro perché sono tanti nomi) cito Big Time di Angel Olsen, I Love You Jennifer B dei Jockstrap, Pompeii di Cate Le Bon, Protector di Aoife Nessa Frances, Blue Rev delle Alvvays, Stumpwork dei Dry Cleaning, Dragon New Warm Mountain I Believe In You dei Big Thief, I Love To Lie dei Lowertown, Anywhere But Here dei Sorry, i quattro dischi dei King Gizzard and The Lizard Wizard e i cinque dei Sault, Hellfire dei Black Midi, In These Times di Makaya McCraven e l’EP Her Love Still Haunts Me Like a Ghost di Montell Fish. Di quasi ognuno di essi ho parlato negli episodi precedenti, non mi ripeto: dico solo che - se li avessi persi - meritano un ascolto.
Finora ho citato quasi solo roba di matrice rock, quindi ecco qualche disco rap: ovviamente Mr. Morale & The Big Steppers di Kendrick Lamar, un artista che riesce a superarsi e crescere a ogni progetto; Luv 4 Rent di Smino, The Forever Story di JID e This Is What I Mean di Stormzy, tutti progetti molto diversi (i primi due più weird, il terzo quasi pop) ma con un tratto in comune della crisi di identità. E infine a sorpresa, alla fine dell’anno, No Thank You di Little Simz, un disco splendido. Tutto questo paragrafo è composto da opere personali, che tuttavia non si guardano l’ombelico. Cosa significa “non guardarsi l’ombelico”? Che non mi stai solo esponendo i tuoi problemi, l’unico tema che pare sia rimasto nella canzone popolare, ma stai cercando di comprenderli, di comunicare perché le cose non vanno e perché hai voglia di confessarlo a milioni di sconosciuti. C’è una differenza enorme: se non ti interessano queste domande, stai facendo qualcosa di profondamente ingenuo, o narcisista.
Alla fine dell’anno è uscito anche SOS di SZA, dal quale si potevano tranquillamente tagliare cinque tracce, come F2F e Nobody Gets Me, ballate pop vecchie impolverate: un po’ una trappola dell’hype, per quanto sia un disco buono, mentre l’hype per Renaissance di Beyoncé era giustificato, e in ogni caso non è bastato nell’autosufficiente penisola dello Stivale. Menzione d’onore per Sudan Archives che ha pubblicato con Natural Brown Prom Queen un disco complesso ma che non ti tiene a distanza.
Approfittando del DNA profondamente dance o elettronico degli ultimi due titoli finisco citando anche: Fossora di Björk, Reset di Panda Bear e Sonic Boom e The Work di Gold Panda (questa sovrabbondanza di panda nella musica dovrebbe dirmi qualcosa sullo stato di salute generale…). Per ultimo ti ricordo Not Tight di DOMi & JD Beck: quest’estate vengono in Italia, al festival La Prima Estate, e sarebbe meglio non perderseli.
Ok, ma gli italiani? I Verdena li ho già citati sopra: aggiungo Vesuvia di Meg; Un meraviglioso modo di salvarsi dei Coma_Cose; Xxybrid di Nziria; Nelle parole degli altri di Gregorio Sanchez; Diamanti di Ginevra; Dormi di Emma Nolde; Olodramma di Barriera; Napoli Undercore degli specchiopaura; e, per finire in assoluta bellezza, Bar Mediterraneo dei Nu Genea. Secondo me è stato un anno pieno di cose interessanti, soprattutto se si cerca lontano dai maschi milanesi, che invece controllano con mano ferma le classifiche. Ma abbiamo detto che non ci interessano le classifiche, giusto?
Su Spotify e AppleMusic trovi tutto quello che ho citato, e qualcosa di più. Se sei una persona particolarmente pignola, abbiamo ancora le playlist-monstre ARCHIVIO 2022 con tutti i brani selezionati l’anno scorso (Spotify - AppleMusic).
Due parole sul 2023
Parliamo di cosa dobbiamo aspettarci nel 2023 appena iniziato. Alla fine dell’anno scorso abbiamo conosciuto i concorrenti del prossimo Festival di Sanremo: non avendo ancora ascoltato nessun brano, ti posso dire soltanto che mi sembra un gran casino, e che solitamente quando si cerca di accontentare tutti (tutti i gusti, tutte le fasce d’età, tutte le case discografiche) il risultato è un pasticcio. Peccato che ormai Sanremo sia la profezia nazionalpopolare autoavverante: “comunque vada, sarà un successo”, per citare il più grande poeta italiano. Mi riservo di fare più avanti un’analisi del cast, ma in generale mi sembra che il bisogno di tanti artisti - giovani e vecchi - di presentarsi alle porte dell’Ariston con il cappello in mano sia il segnale di qualcosa che nel profondo non sta funzionando, o sta funzionando troppo bene.
Ma dischi interessanti? Per ora ne sappiamo un po’ poco, in ambiente italiano: domani esce un disco di Guè a mio parere molto più bello dei precedenti, ed è importante iniziare bene. Poi aspetteremo tutti i sanremesi, almeno quelli che non avranno solo la “deluxe” da promuovere (e non saranno pochi, a meno di sorprese), che senz’altro si papperanno metà classifica di fine anno: nella categoria del pop spero nell’album di Elodie. E poi sarà l’anno in cui finalmente torna Calcutta? Vedremo, intanto è tra gli autori del brano di Ariete al Festival - sempre lì si va a finire. Insomma, anche quest’anno uscirà bellissima musica, dovremo soltanto essere abbastanza attenti.
Se parliamo di dischi internazionali, ci sono diversi nomi che dovrebbero essere pronti a pubblicare: per citarne tre abbastanza popolari, Frank Ocean; Tyler, The Creator; Dua Lipa. Ma non ci sono ancora certezze, quindi ti elenco in ordine di uscita alcuni degli album confermati, e che a giudicare dai singoli promettono bene: Heavy Heavy degli Young Fathers (3 febbraio); Desire I Want To Turn Into You di Caroline Polachek (14 febbraio); Cracker Island dei Gorillaz (24 febbraio); Shook degli Algiers (24 febbraio); Radical Romantics di Fever Ray (10 marzo). E poi due nomi per noi vecchiacci: Peter Gabriel e gli Everything But The Girl, che non pubblicano da tantissimo e sono tornati da poco. Avremo modo di parlarne ancora. Tipo domani, o dopodomani.
Infatti, Pioveranno venerdì tornerà: come l’anno scorso, la newsletter (e il podcast) usciranno non appena avrò ascoltato TUTTA la musica del New Music Friday, quindi tra la sera del venerdì e la mattina del sabato. Sei content*? Allora dillo in giro, magari condividendo qualcuno degli 8 episodi dell’anno scorso!
Intanto, fammi sapere cosa hai ascoltato nel 2022, perché probabilmente avrò dimenticato qualcosa: scrivimelo nei commenti qui sotto, o in giro sui social, e magari aggiorniamo anche le playlist. Ciao Louder.
Da amante della musica straniera, questa nostra recente autarchia estremizzata mi lascia sempre più sconfortato. E nel mio piccolo, anche nella nicchia alternative rock, emo, punk underground vedo sempre più band che passano dal cantare in inglese al farlo in italiano, proprio perché evidentemente si accorgono che altrimenti le possibilità di essere ascoltati sono prossime allo 0. È un segnale negativo secondo me, perché significa che siamo sempre meno aperti a cose nuove e diverse e sempre meno curiosi. Poi magari ho torto, eh.