Ciao Louder, oggi parleremo di sincerità nelle canzoni. Tu intanto comincia a mettere su la nostra playlist del venerdì (su Spotify e su Apple Music), che arrivo subito.
Cominciamo dicendo che concentrarsi su cosa sia “sincero” nella musica è un’impresa titanica, anzi un supplizio di Sisifo: perché una volta che hai risolto un problema, il significato rotola giù dall’altra parte della montagna. Quindi, perché ho deciso di parlarne? Perché oggi, leggendo un po’ di recensioni del nuovo disco dei The 1975, ho incontrato molte volte questo termine: Matty Healy mai così sincero; il disco più sincero della band inglese; e così via.
Ora, anche se la domanda di fondo forse è sbagliata, io penso che in una certa misura le canzoni possano essere un luogo di sincerità, tanto nella scrittura (di parole o di musica) quanto nell’interpretazione. Certo, ci sono vie più larghe e vie più strette: non è vero che una canzone firmata da cinque autori non possa essere a suo modo sincera di fronte alla popstar che la canta e a noi che ascoltiamo, togliamoci di dosso certi pregiudizi, però qui lo spiraglio è sicuramente meno largo rispetto a chi fa tutto da sé. Ma a prescindere dal processo di creazione, di cosa dovrebbe mai parlare un artista sincero? La sua vita? L’amore? La situazione politica? Sarai d’accordo con me che sia facile infarcire di balle anche i testi che parlano di questi argomenti. Allora forse è una questione di “metodo”: chi assume pose; chi parla solo per citazioni (di altri artisti, di brand, di cultura pop); chi usa continuamente il filtro della satira; chi si atteggia; chi si autocommisera; gli artisti che scrivono (testi) in questo modo hanno un deficit di sincerità? Io non credo, necessariamente. Dipende, insomma: e secondo me dipende dalla coerenza interna dei singoli testi, dalla capacità che hanno o meno di giustificare internamente una certa figura retorica, un certo trucchetto; cioè se lo usano non solo perché sanno che venderanno più dischi, scrivendo così. E stiamo parlando solo di parole, meglio non cominciare con la musica.
Comunque, penso che questo sia il caso di Healy, che si tiene strette le sue cifre da rockstar, poeta maledetto, paladino del clima, meta-narratore delle proprie (dis)avventure, eppure oggi suona più sincero che mai (tra poco ti dirò perché, secondo me). Tutto questo per dire che, alla fine dei conti, sono l’esperienza e il gusto ad aiutarci a separare qualcosa di più o meno autentico da una pagliacciata pura e semplice. Se pure uno decidesse di passeggiare nel campo minato della “sincerità”, dovrebbe prepararsi ascoltando tanta musica, possibilmente tanta musica diversa, per non poggiare il piede nelle false verità del mito musicale: la “strada”; le “piccole cose”; il “mettersi a nudo”; lo “sporco”. Ognuna di queste cose fa riferimento a un’estetica ben precisa, che vuole trasmettere autenticità, sì: ma sei tu, poi, a dover scegliere se sta trasmettendo una cazzata, oppure no.
News
Prima di passare ai dischi abbastanza sinceri di questa settimana, un paio di notizie. Gli Strokes stanno registrando un nuovo album, sempre con Rick Rubin che aveva prodotto anche The New Abnormal, e lo stanno facendo in una casa in cima a una montagna in Costa Rica. I Gazebo Penguins hanno annunciato che pubblicheranno un album a dicembre, intitolato Quanto, presentandolo in anteprima con quattro date dal vivo: ci saremo. Non c’entra con i dischi, ma molto probabilmente gli altri Pinguini, quelli Tattici e Nucleari, annunceranno una data a San Siro.
Ultima notizia, questa settimana ci ha lasciato Christina Moser, voce e metà dei Krisma. Ascoltiamoci una loro canzone e rimpiangiamo i tempi in cui la stranezza era un valore, e l’originalità veniva incentivata.
The 1975, Being Funny In A Foreign Language
Non so se ti sia mai capitato di conversare con una persona straniera (immagino di sì!), parlando nella sua lingua anziché in italiano. Se la conversazione è andata per le lunghe, ti magari avrai tentato di fare una battuta, cercando di tradurre l’umorismo italiano, magari un’espressione formulare o un gioco di parole, e sicuramente fallendo. Parlare in una lingua che non è la propria è un’esperienza molto vulnerabile. Ho pensato a questo, leggendo il titolo del nuovo album dei The 1975, Being Funny In A Foreign Language. Molto probabilmente, il significato è altro: “funny” significa anche bizzarro, e bizzarro potrebbe essere il fatto che nessuno si sarebbe aspettato un disco così profondamente d’amore da parte di Matty Healy. Forse è questa, la canzone d’amore senza dodici sottotesti, la lingua straniera che a cui si fa riferimento? Forse è la musica mai così coerente, stilisticamente, che la band inglese porta a spasso tra il rock cotonato anni ‘80, qualche svirgolata lennoniana (All I Need To Hear) e gli LCD Soundsystem (nell’intro) con rara pacatezza? Se la coerenza può essere merito anche della produzione di Jack Antonoff (uno che se non stai attento ti produce anche il trillo del citofono), la questione lirica è soprattutto merito del frontman che - si direbbe in questi casi - mette tutto sul piatto e abbandona alcune pose. Sottolineare “alcune”, perché tra messaggi sul destino dell’umanità persa tra porno e doom scrolling, battaglie per il clima, e battutacce ci sono ancora tanti filtri da tenere in considerazione. Secondo me, però, è proprio qui che si trova la sincerità di cui tante recensioni hanno parlato. Prendi Wintering, una canzone sul tornare a casa per le feste di Natale: a un certo punto Healy parla della mamma, descritta in una strofa con i dolori alla schiena; nella strofa successiva, la mamma stessa prende voce (attraverso il cantante) e protesta per questa descrizione. Healy vuole rompere la quarta parete, farci capire che è tutta una messa in scena, eppure il sentimento autentico di voler tornare a casa per le feste è vero, ed è quello che ha chiunque si ritrovi una mamma con un po’ di senso dell’umorismo. Faccio questo esempio, ma poi in playlist includo Oh Caroline, che ha il groove di The Way It Is e una melodia appiccicosa, ma senza mollare un attimo sul sentimento. Perché anch’io devo essere sincero, quando compilo la playlist.
Red Hot Chili Peppers, Return of the Dream Canteen
Non so se Return of the Dream Canteen rappresenti una versione più sincera dei RHCP rispetto alla versione commerciale del disco uscito tre mesi fa, Unlimited Love. Sicuramente le sessioni in cui si sono riuniti con John Frusciante sono state produttive, perché pubblicare due album doppi in un anno non è poco. E se anche questa non fosse la versione più onesta, sicuramente è quella più bizzarra, perché contiene brani che sembrano unici nella loro discografia, come My Cigarette e In the Snow dove il battito è tenuto da una drum machine anziché da Chad Smith (me li sono dimenticati io i pezzi fatti così, nella loro discografia?); o The Drummer e La La La La La La La La dove l’accompagnamento è guidato da organetti, synth pad, sassofoni morbidosi. Ci sono tanti spunti hendrixiani, che mi fanno pensare che qui a guidare il tutto sia soprattutto Frusciante (in generale, la chitarra suona in modo eccellente). Ci sono ovviamente i doppi sensi e le battutacce di Anthony Kiedis, tipo una citazione di Layne Staley a casissimo in Peace and Love. Quindi, se il senso dell’umorismo è sempre così, a suo modo in questo disco c’è grande sincerità.
Coez, From the Rooftop 2
C’è tutta una corrente di pensiero secondo la quale una canzone arrangiata in acustico o unplugged sia più onesta o sincera di una orchestrata in modo più ricco. Questa corrente di pensiero - va detto in modo chiaro - sbaglia clamorosamente: c’è tanta verità in un bordone di bassi sintetici o in un wall of sound, quanta può essercene in qualsiasi canzone voce-e-chitarra. Tuttavia, il fascino delle versioni “spogliate” è forte, e per questo credo che Coez sia stato bombardato dalle richieste dei fan che volevano una nuova edizione del suo disco/format/progetto From The Rooftop, che nel 2016 contribuì decisamente a rilanciarlo, facendo innestare il suo modo di rapper melodico e preso male nella nascente wave it-pop. Bene, Coez lo rifà, stavolta invitando Frah Quintale e Ariete, rifacendo pezzi del suo ultimo disco Volare ma anche di Faccio un casino. Oltre alla già segnalata cover di Guè, che per me resta la cosa più bella dell’album. Segnalo una cover anche oggi, quella di Nei treni la notte con il già citato Quintale, mentre non segnalo le ultime due tracce dove l’arrangiamento mi risulta un po’ troppo caramelloso. Ma ci sta, figuriamoci.
Ginevra, Diamanti
Il disco pop italiano più bello della settimana (e tra i più belli usciti in questi 10 mesi e spicci) è Diamanti di Ginevra. La cantautrice torinese, che seguiamo tipo da sempre, ha pubblicato il suo primo LP, ed è molto più interessante di quanto il titolo un po’ generico possa lasciar intendere. Lo hanno anticipato una manciata di singoli, Club, Briciole, Anarchici e Torino, che sono regolarmente finiti dentro le nostre playlist. Ciononostante il disco sa sorprendere perché rispetta una delle espressioni chiave, “restare se stessi”: Ginevra lo canta in Oceano (“provo a restare fedele a me stessa”), lo ribadisce in Anarchici (“meglio esser noi stessi che fingerci nulla”), e il tema è portante anche quando le canzoni sembrano parlare d’altro. Come si resta fedeli a sé stessi in un mondo nel quale per “funzionare” bisogna farsi assimilare finché non si somiglia a qualcosa di successo? Bisogna fare la fatica di trovare sé stessi, trovare quel nucleo di verità che resiste alle intemperie: il diamante è, in effetti, il simbolo di qualcosa di solido e immutabile. Resta una metafora non completamente a fuoco, secondo me, specie nella title-track, ma esprime questa necessità di non farsi strattonare qui e là. E ci riesce: nei suoni, che non sembrano usciti dalla cassetta degli attrezzi, merito ancora delle contaminazioni ambient, trance e nu soul delle produzioni di Fugazza e Suorcristona; nelle progressioni e nelle armonie che usano soluzioni originali, e non vanno dove te l’aspetti; nei testi, che tengono bene l’equilibrio tra parlare di qualcosa di generico e vago (grande trucco del vecchio pop italiano) e qualcosa di terribilmente specifico (grande trucco del nuovo pop italiano). La voce è eterea e trasparente, ma intaccata all’interno come certi quarzi, come se ci fosse un’imperfezione che stando nel centro del cristallo diventa ancora più visibile. Ho scelto Calamite, anche se la collaborazione con Arashi in Amuleto è altrettanto valida, per le svolte improvvise che fa. Spero non si offenda nessuno se dico che la canzone scritta con Mahmood, Asteroidi, è invece una delle cose più deboli.
Calibro 35, Scacco al maestro - vol.2
Non abbassare l’asticella della qualità musicale è un modo per essere sinceri? Sinceri con sé stessi? Credo di sì, e in questo caso i Calibro 35 sono sincerissimi, perché la seconda parte del loro omaggio a Ennio Morricone è sempre di alta qualità. Ci sono hit, se così possiamo definire Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che stazionava perennemente nelle mie playlist (cioè CD) di epoca universitaria. In playlist ho messo Ancora qui con Elisa, la canzone che l’artista friulana aveva realizzato con Morricone per la colonna sonora di Django Unchained e che gira ancora benissimo. Elisa, peraltro, “hardest working woman in show business” (prendendo in prestito l’espressione di James Brown) perché ogni paio di settimane esce qualcosa di suo. Vai così.
Altri album
Questa settimana ci sono diverse cose italiane interessanti. Parto da Fiesta dei Leatherette, quintetto di base a Bologna: è un disco post-punk, di base, ma con belle aperture da hardcore melodico o da rock anni ‘90, arricchito da un sassofono che non fa sempre quello che ci si aspetta in questi contesti da un sax, cioè pestare come un pazzo. Anzi, nonostante l’impeto sia aggressivo, ci sono molte tonalità e sfumature diverse che rendono l’ascolto molto meno difficile di quello che la mia descrizione possa averti lasciato intendere.
Nun te ne fa’ di Gnut è stato presentato come un disco dove Elliott Smith e Nick Drake incontrano Roberto Murolo, e in effetti è una descrizione appropriata. Incredibile, sapessi cosa devo leggere ogni giorno nei comunicati stampa… Non capisco una parola di napoletano, ma mi sono commosso. Alla fine ho messo in playlist una traccia in italiano, Anche per te, ma la title track, la prima traccia I’, e l’ultima traccia Nuvola molto blueseggiante sono tutte validissime.
Apocalissi tascabili di Volpe è un bel disco di cui ti abbiamo segnalato qualche traccia nelle scorse settimane, tipo Notturno. Queste sono le tracce che posano sul versante più hyperpop di questo artista, che altrove scivola invece nell’indie più canonico, con una passione per gli arpeggi elettronici e le immagini apocalittiche (da cui il titolo del disco). Ma anche nei pezzi meno squinternati c’è spesso qualcosa di sincero e non scontato, tipo la finale Ulisse.
Alan Sorrenti ha pubblicato un album prodotto da Ceri di cui abbiamo già incluso una traccia nelle scorse playlist. Si intitola Oltre la zona sicura, che è un modo per dimostrare chi si è davvero, e quindi essere sinceri: se noi tutti invecchiassimo così, ci andrebbe alla grande. Ho messo in playlist Naufraghi in fiamme dove la chitarra è suonata dalla nostra vecchia conoscenza Colombre.
Passiamo a due dischi americani. Reality (o forse Ytilaer) di Bill Callahan non è bello come hanno lasciato intendere i singoli Coyotes e Natural Information, che ti abbiamo messo in playlist nelle scorse settimane. Ma è comunque un disco di Bill Callahan, uno che anche quando è distratto ti prende alla gola con quel suo timbro cavernoso e la semplicità disarmante delle sue descrizioni, dei suoi accompagnamenti di chitarra, del suo immaginario. E poi la canzone che ho incluso, First Bird, mi ha fatto tornare in mente Too Many Birds e ora siamo tutti più contenti.
L’americana Helen Ballentine, nota come Skullcrusher (che nonostante il nome non è un gruppo metal), Quiet the Room, una serie di riflessioni sull’infanzia non come qualcosa di innocente, ma come qualcosa di inquietante, enigmatico e terribile, dove una chitarra folk a un certo punto si confonde in maree di feedback, distorsioni e campi di rumore elettronici per nulla pacificanti. Anche questo modo di raccontare una fase della vita in modo tutt’altro che prevedibile è sincero, a mio parere.
¡Ay! di Lucrecia Dalt è il disco della settimana secondo Pitchfork, e non mi metterò certo a litigare con loro. Anche perché effettivamente questo nuovo lavoro della prolificissima artista colombiana di base a Berlino è incredibilmente intrigante: incorpora pop sperimentale elettronico e arrangiamenti jazz in una maniera che mi ricorda un tardo Tom Waits, solo che lui lo faceva con il rock sperimentale e il jazz. Magnetico.
Infine, 10 dei Say Sue Me è la celebrazione del decennale della band indie rock coreana che è probabilmente una delle migliori in questo genere. Sono cover di brani di band come Pavement, Yo La Tengo, Grandaddy, Guided By Voices (noi alla fine abbiamo messo True Love Will Find You In The End di Daniel Johnston, perché più persone dovrebbero ascoltarla, sempre, in qualsiasi versione). Ci sono anche rivisitazioni di alcuni loro brani, e alcune cover fanno parte del loro repertorio (come A.M. 180) ed è proprio inteso come un regalo di quelli così, sinceri.
Questa segnalazione mi spinge per forza di cose ad anticipare il segmento sulle cover, normalmente relegate ai singoli, perché tra questo disco e quello di Coez è una settimana di cover: c’è un altro singolo del disco di cover di Bruce Springsteen, e stavolta è un pezzo dei Commodores post uscita di Lionel Richie, quindi soul sì ma non solo quello che la gente si aspettava; poi, le MUNA hanno pubblicato una cover di August di Taylor Swift, che però si ascolta solo su Spotify e fa parte di una sessione live che la band indie pop americana ha suonato nello storico studio Electric Lady di New York; è una cover anche il primo singolo in un sacco di anni di Nina Hagen. Come sempre, in questi casi, te le trovi tutte attaccate nella playlist, così sai dove ascoltare.
Singoli
Anche questa settimana ho parlato tanto dei dischi, quindi volerò rapido sui singoli. Prima di tutto, sono usciti i nuovi singoli dai progetti in uscita di Weyes Blood e Christine And The Queens, che arriveranno rispettivamente il 18 e l’11 novembre. Avremo modo di riparlarne, perché stiamo parlando di due stelle. C’è anche una nuova canzone di girl in red (l’artista di cui Ariete è la risposta italiana, si può dire?): l’ha prodotta Aaron Dessner dei National, che anche lui ormai produce tutto, e nel titolo c’è la parola october (se sai, hai capito).
Lato italiano, abbiamo il nuovo singolo di Tananai che con Abissale torna a fare il serio, dopo la sbornia sanremese: molto smielato, ma avendo conosciuto l’artista come una persona molto malinconica, posso dire che questa versione è più sincera di quanto non sembri. Poi è tornato Deda, il rapper, dj e produttore che con Neffa e Gruff nei Sangue Misto ha creato il primo capolavoro del rap italiano: la traccia si chiama Universo, a cantare ci sono Neffa e Fabri Fibra, debitore assoluto delle esperienze di Deda e Neffa ai tempi del suo primo album Turbe giovanili, per non parlare degli Uomini di mare. Il pezzo è più che decente: stilisticamente old school, ha una gestione massimalista dei registri bassi che invece è molto moderna.
A proposito di ritorni, son tornati i Numero6, storica band genovese di quando l’indie non era da hit parade. Sempre in quota tricolore segnalo Techno Pastorale di Miglio, di cui abbiamo parlato benissimo in passato e continueremo a farlo anche per le vibrazioni dark wave, “ghost of Bela Lugosi”, di questa canzone. Tutt’altro mood, danzereccio e caldo, è quello di Giocare con me di Dutch Nazari che si aggiunge come appendice al suo ultimo album Cori da sdraio. Interessanti anche alcune uscite in ambito “weird”: PABLO SUZUKI (side project di Pablo America) con Boyrebecca, che fanno un bagno nei doppi sensi e nella cassa dritta; e Coccinelle nere di Tripolare, che nonostante canti con il birignao strascinato che oggi usa tanto, ha qualcosa di affascinante nel modo in cui scivola su una base vagamente acida e big beat.
Concludo con la sottorubrica “paura dell’hype aura”, nella quale liquiderò in cinque parole qualcosa per cui c’era hype, e invece ci ha deluso. Dato che c’era hype, vuol dire che comunque molte persone lo ascolteranno, quindi saranno (chi più chi meno) dei successi. E allora non importerà a nessuno delle mie opinioni brusche:
il singolo di reunion con Tom dei Blink-182 è fiacco;
il singolo di rap-pacificazione di Fedez e Salmo è MILLE in versione pop-punk (lo sapevamo già, infatti, per questo su Instagram abbiamo usato il meme “dirò ai miei figli che” nel modo in cui questo meme andrebbe usato, come spero tu abbia capito);
i brani inediti dei Green Day e dei Queen usciti questa settimana, rispettivamente dalle sessioni di Nimrod e di The Miracle, sono poca roba e potevano restare nel cassetto.
Nota di metodo: ho incluso sia il singolaccio di Salmez, sia quello dei Blink, facendoli volutamente seguire da una serie di canzoni che hanno una potenza e un’urgenza che entrambi si sognano. Prendilo come un momento didattico: ascolta prima loro e poi qualcuno che lo sa fare meglio, oggi.
Come sempre, alla fine della playlist si balla. Ma non solo, perché ci sono anche i brani un po’ più lunghi dal momento che è uscita la seconda parte del progetto dei King Gizzard and The Lizard Wizard di cui ti parlavo la scorsa settimana; ed è uscita una nuova tracciona di 10 minuti ispirata al reggae degli inglesi SAULT, dei quali prima o poi dovremo parlare meglio.
Una lettura
Credo abbia a che fare con il tema portante della settimana, la sincerità, anche la bellissima conversazione che Vulture ha avuto da poco con Jon Brion. Se il nome di Jon Brion ti suona familiare, è perché si tratta di un produttore e musicista americano che ha lavorato ad alcuni dei lavori considerati più “autentici” degli ultimi 25 anni di musica, da Elliott Smith a Fiona Apple, fino agli ultimi due dischi di Mac Miller, compreso il postumo Circles. Ma ha lavorato anche con Kanye, Beyoncé e Frank Ocean, per dire. La trovo una lettura illuminante proprio per comprendere come la linea tra popolare e impopolare sia sottile e per sfatare alcuni miti sugli artisti disperati e depressi. Entrambi argomenti che troppo spesso sono trattati male e contribuiscono alla confusione che si fa tra musica “sincera” e musica “non sincera”.
Alla prossima settimana, ciao Louder.