Ciao Louder,
te lo dico subito: oggi è lunga, quindi tu metti subito la nostra playlist del venerdì (su Spotify e su Apple Music), e io mi sbrigo l’intro in poche parole.
Crescere, maturare, invecchiare è consentito nella musica? Sembra una domanda stupida: certo che si può invecchiare. Eppure sembra che il pubblico abbia detto a gran voce che no, se possibile i cantanti noi li vogliamo sempre più giovani.
La musica pop è sempre stata affare di giovani, specie in momenti di espansione del mercato come quello che stiamo vivendo, come negli anni ‘60 o negli anni ‘90: all’industria serve carne fresca per cambiare continuamente i prodotti in vetrina. Eppure alcune grandi stelle riescono ancora a crescere e invecchiare davanti alle orecchie del pubblico: è il caso di Midnights di Taylor Swift e The Car degli Arctic Monkeys, i due grossi dischi usciti oggi. Fare i conti con l’invecchiamento è una tappa dalla quale tutti dobbiamo passare, ma niente obbliga un artista a farlo nelle sue canzoni: anche perché poi capite che siamo noi stessi ascoltatori a dire “uh com’è invecchiato male questo o quell’altro”. Talvolta il giudizio è giustificato, ma spesso dietro c’è qualcosa di cui non ci accorgiamo, un bias che facciamo fatica a vedere.
Secondo me la logica che ci fa mollare per strada certi artisti è molto vicina a quella favoletta che ripetiamo da millenni, il mito dell’età dell’oro: prima era tutto fantastico, da giovani saltavamo i fossi per il lungo, erano meglio i demo. Quando questa convinzione diventa senso comune, per l’industria musicale diventa facilissimo persuaderci che la musica “funziona così”: prima sei una giovane promessa, poi una grande star, e tempo pochi mesi arrivi alla fase “solito stronzo” senza nemmeno passare dal “venerato maestro”. Tanto vale fare una scelta di campo: o di qua, coi vecchi (tanto ci sono sempre le ristampe); o di là, con i giovani.
Ma l’arte - in generale - non ha mai funzionato così, è una stupidaggine nuovista che fa danni quasi quanto la nostalgia, che ne è l’altra faccia. Un professore di Letteratura Greca me lo fece notare, una volta: solo nella musica e nel cinema di oggi invecchiare è un peccato; noi studiamo il Platone maturo, il Michelangelo maturo, il Beethoven maturo, dando per scontato che si tratti dei punti sommi della loro produzione, ma nessuno oggi si azzarda a toccare un cantautore maturo con la stessa sensibilità, manco stessimo parlando di un frutto marcio. Invece crescere può dare molto, anche al pop - non lo dico solo perché ho 37 anni e vedo la mia giovinezza con il telescopio proiettato all’indietro. Lo dico perché abbiamo assistito tutti quanti a storie di successo come quella di Marracash, che - non più virgulto - ha venduto due dischi che parlano di crescita e maturazione a milioni di persone, e ci ha girato tutta Italia. Sono vicende che esistono, accanto ai Blanco e sangiovanni. E questa settimana ne abbiamo almeno due esempi.
E oggi saltiamo le notizie, e andiamo dritti ai dischi.
Arctic Monkeys, The Car
I discorsi più profondi e interessanti sulla nuova identità dandy degli Arctic Monkeys andavano fatti tre anni fa, quando uscì Tranquility Base: purtroppo, tre anni fa noi non c’eravamo, quindi possiamo solo dirti di andare a rileggere le migliori recensioni di quell’album. O di tenerti l’opinione che avevi al tempo, perché The Car non cambia di una virgola la direzione stilistica della band. Anche a livello lirico ci sono molti punti di contatto, con i due album: un tema prevalente qui mi pare che sia l’aspettativa, cosa ci si aspetta dalle altre persone e cosa le altre persone si aspettano da te. In un verso dopo l’altro Alex Turner contrappone immagini che escono direttamente dalla sua immaginazione, tipo “la scritta del film Lego su Napoleone composta con tubi pieni di gas nobile e sottolineata con scintille” (qualunque diamine di cosa voglia dire) accanto a espressioni che hanno volutamente un sottotesto polemico, tipo “quel Business che viene chiamato Show”, cioè lo show business (citazioni da Hello You), come a voler esaltare una tensione di significati, come a voler dire: “Perché le mie minestre di parole non vogliono dire nulla e le minestre di parole altrui invece sì?”. O ancora, in Big Ideas, Turner fa un resoconto di alcune grandi idee che gli sono passate di mente, e come queste trovate vadano a sommarsi all’elenco delle occasioni mancate della vita, andando a comporre la più gloriosa delle canzoni, “The Ballad of What Could Have Been”, (“la ballata di quel che sarebbe potuto essere”). Sarà il contesto meta-narrativo, cioè il fatto che stia parlando - realmente o meno - della creazione di musica dentro la musica, ma non si riesce a non pensare alle varie teorie che sono circolate da subito nei sub-reddit dedicati agli Arctic Monkeys a proposito del significato del disco, da noi sintetizzate con questo memino.
Quindi, The Car è davvero una metafora del fatto che a Turner non bisogna rompere le palle se ora non vuole più fare AM, tantomeno tornare indietro nel tempo fino al 2006? Vuole dirci insomma che non è colpa sua se ci mancano i vent’anni? (Perché lo sai che è di quello che hai nostalgia, non dei dischi). Io non ho capito se questa teoria sia vera o attendibile, ma sicuramente esiste nell’album una riflessione su cosa significhi fare musica dopo il mega-successo, come si faccia insomma a invecchiare nei panni della rockstar. Una soluzione, ad esempio potrebbe essere quella di fare pace (noi ascoltatori, prima di tutto) con l’idea che la musica non sia una gara dove vince il più fresco: lo dice il testo di Perfect Sense, che forse non a caso si apre con le parole “Richard of York”, a mio parere una citazione non tanto di Riccardo duca di York, quanto del suo nipote Riccardo III, quello del Riccardo Terzo. E cosa simboleggia Riccardo III, in Shakespeare? Tra le altre cose, il personaggio talmente identificato come malvagio dai suoi avversari da finire per incarnare davvero quella malvagità: un antieroe che - in questa metafora - sceglie di incarnare la versione peggiore di sé pur di concludere qualcosa (“if that’s what it takes to say goodnight, then that’s what it takes”). Insomma, Turner dice che se lo vuoi considerare un traditore per Tranquility BAse, va bene, così sia: lui continua sulla sua strada. Mi scuso peraltro per la lezioncina di letteratura inglese, ma vedrai che ci servirà per parlare del prossimo disco. Io intanto per la playlist scelgo non l’ultimissimo singolo uscito questa settimana, ma Sculptures of Anything Goes: statue di Anything Goes (immagino intendano la canzone di Cole Porter e non quella dei Monty Python), giusto per sottolineare quello che dicevamo un attimo fa sulle minestre di parole. Alla fine, date queste riflessioni, molto bene: il disco è personale, e non solo una scusa per vestirsi eleganti.
Taylor Swift, Midnights
Non esiste nessun artista al mondo che oggi possa cantare una canzone sul proprio antieroismo meglio e più credibilmente di Taylor Swift. Per questo oggi che è uscito il suo decimo album, Midnights, ho scelto di inserire in playlist Anti-Hero, perché quando assisti a momenti così perfetti devi farci caso. Anti-Hero è una canzone nella quale Taylor Swift si descrive come anti-eroina, e fin qui ci siamo. L’anti-eroe, per la cronaca, non è il cattivo: è quel personaggio che è protagonista della propria storia e antagonista della storia altrui. Forse non esiste un archetipo più contemporaneo dell’anti-eroe, progenitore di tutti i vittimismi che riempiono le nostre giornate: sono i politici che vincono le elezioni ma sono perseguitati; le maggioranze (non così tanto) silenziose che si dichiarano emarginate (ignorando i veri marginalizzati della società, incidentalmente); persone con il megafono in mano nel quale urlano che nessuno li fa parlare. Anche Taylor Swift ha saputo fare del gran vittimismo negli anni, è un po’ la chiave di lettura della sua era Reputation. Ora pensaci un attimo: perché una superstar miliardaria con il jet privato, che vende milioni di dischi, che è ammirata per il suo talento, che è invidiata per la sua bellezza, dovrebbe essere così disperatamente interessata all’opinione di sé che hanno gli altri? Ma proprio perché oggi non si vince senza dichiararsi anche bersagli di qualcuno, è lo spirito del tempo: hai ricevuto tutta l’adorazione, e ora vuoi anche la compassione.
Questa narrazione può stancare chi passa la vita ad ascoltare (“ciao, eccomi”: peraltro citazione della canzone). Ma c’è un modo per scardinare questo odioso atteggiamento senza abbandonarlo: è coglierne l’assoluta ridicolaggine. In che modo sarebbe anti-eroina Taylor? Nelle sessioni di pettegolezzi (“at teatime”) virtuali o meno, delle persone comuni, e non la vittima di strani complotti. E quale figura titanica sarebbe mai quest’anti-eroina? Una persona talmente cieca delle proprie falle da voler “guardare dritto nel sole ma non allo specchio”: un’insicura, insomma. Anti-Hero è una canzone che solo Taylor Swift avrebbe potuto fare perché solo lei avrebbe potuto “scrollarsi di dosso” una fissazione che si era creata da sola, usando l’altra sua arma prediletta: l’autoironia, la stessa che ha usato mille volte in passato - in modo magari non sempre autentico - ma che ha tutt’altro peso dopo le riflessioni su di sé dell’era folklore/evermore. A questo giro, ti viene da crederci.
Ma Anti-Hero è una canzone che solo Taylor Swift avrebbe potuto fare anche per ragioni strettamente musicali: nessun artista pop vivente userebbe nelle strofe tante rime interne e figure poetiche e citazioni - la terribile immagine “sexy baby” è dedicata a tutti quelli che ricordano 30 Rock - per poi dare risoluzione a questi concetti in un ritornello che nella sua colloquialità banale sembra fatto apposta per TikTok. Vedrai, le centinaia di migliaia di persone che useranno come audio “hi, it’s me, I am the problem” per le loro (sincere?) confessioni: “oh, guardami, come sono problematico”, intendendo così dire che il vero problema sei tu. Ma, per parafrasare il poeta, tutto questo Taylor non lo sa: ecco una vera anti-eroina; ecco l’artista che-ama-il-drama, il proprio e quello che ispira al suo pubblico; ecco la vendicatrice che tifa per le vendette altrui (Vigilante Shit, pezzo abbastanza brutto) ma allo stesso tempo vuole trascendere, vuole maturare, vuole dire una volta per tutte che se fa la faccia cattiva è perché non sopporta il proprio riflesso allo specchio. Eccola, la contraddizione ambulante per la quale a questo punto provi davvero una sincera compassione, e che ancora una volta, per il rotto della cuffia, trova una via di uscita. Forse.
Dico “forse” perché secondo me Midnights è un disco sulle illuminazioni che in verità non ti risolvono davvero la vita, le vie di uscita che si rivelano vicoli ciechi. Il pieno della notte - lo sai bene - è quando confondi la nebbiolina delle tue incertezze con un lampo di chiarezza (“haze/hazy” sicuramente una delle parole chiave del disco). Sono finzioni, che aiutano a crescere meglio delle vere epifanie. E quindi questo è davvero un disco sulla crescita, quando diventi “older but not wiser”: invecchiando magari ti ritroverai con i piedi più saldi per terra, ma non avrai tante certezze. E non è solo una questione del nostro tempo incerto e incasinato. Taylor Swift conosce bene i testi della Lost Generation (ha citato più di una volta Il grande Gatsby come uno dei suoi romanzi preferiti), quei capolavori che cercavano risposta alla domanda: come si fa a crescere senza mandare tutto a puttane? Non ci si riesce, ma ci si prova (You’re On Your Own, Kid). E sì, alcune vittorie te le porterai a casa e potrai sventolare il trofeo in faccia al tuo avversario (Karma, altra canzone che volerà in tendenza sul TikTok di tutte le persone che vogliono farti “gnè gnè gnè”). Ma forse superati i 30 anni, circondati da incertezze, qualche infantilismo ce lo siamo meritato. Se siamo pronti ad ammettere che è la nostra ossessione per l’antieroismo a renderci veri anti-eroi.
Non dirò molto altro su Midnights, ne ho parlato anche troppo. Aggiungo solo che oltre quelli che ho citato sono pezzi interessanti anche Lavender Haze (che è il nome di un tipo di CBD, per la cronaca) e Midnight Rain; che Lana Del Rey non si capisce esattamente dove canti in Snow On The Beach; e che a sorpresa sono uscite sette bonus tracks. Tracce che rivelano una cosa, la vera nota negativa del disco: i suoni non sono niente di fenomenale, la produzione dell’ubiquo Jack Antonoff è efficiente ma non sorprendente, a tratti sembra una versione aggiornata di 1989. L’era folklore/evermore è stata molto più interessante, in questo senso, e si sente nelle uniche due tracce prodotte da Aaron Dessner (The Great War e High Infidelity).
Carly Rae Jepsen, The Loneliest Time
Un album che si apre con un banger come Surrender My Heart non può non meritare una menzione. Carly è un genio del pop: le sue canzoni riescono a stare ben salde dentro il campo del conosciuto, ma sempre in qualche modo alludere a qualcosa che si trova oltre l’orizzonte. Si tratta - come ho detto tante volte - di cura nella scrittura: non basta mettere in fila i soliti quattro accordi, bisogna curare tutto (scrittura delle melodie, produzione, voci) perché la canzone non ti faccia sbadigliare. Lo ha detto bene in un’intervista Carly: il pop è come il jazz, ogni singolo elemento conta e non puoi sceglierli a caso perché hai poco tempo a disposizione.
Tematicamente parlando il disco ruota intorno all’idea per cui saper stare da soli in pace anche solo per dieci minuti è un segno autentico di felicità ed equilibrio, un pensiero - molto condivisibile - che le è sorto una sera quando, tornata a casa da un appuntamento, ha passato qualche minuto sul tetto di casa sua, sentendosi allo stesso tempo minuscola ma anche grata della vita. Musicalmente parlando, ci sono come sempre moltissimi rimandi agli anni ‘80, ma mi sembra riduttivo limitarsi a quel decennio: una Far Away, con la sua morbidosità ariosa spirituale, sarebbe potuta uscire tranquillamente uscire nel 1997. Il disco contiene quei lavori che le popstar di oggi non vogliono più fare: ad esempio, i testi deprimenti che girano sopra una musica gruvosissima (Sideways); oppure le liriche sfastidiate che sembrano dolcissime, come Go Find Yourself or Whatever. Visto che la regina è andata, io suggerisco di dire d’ora in poi “Dio salvi la Carly”. Non passerò molto altro tempo a parlarne, per colpa di Taylor Swift, ma The Loneliest Time è un disco molto molto buono.
Dry Cleaning, Stumpwork
Oggi è uscito Stumpwork degli inglesi Dry Cleaning, che ha una copertina disgustosa con una saponetta ricoperta di peli pubici, e quindi parte molto bene. Abbiamo incluso molti singoli in playlist, nelle scorse settimane, perché erano degli eccellenti pezzi di musica dell’assurdo. Il resto dell’album non tradisce le attese, e si spiega bene conoscendo il metodo di scrittura della cantante, Florence Shaw: in sostanza, Shaw si scrive le frasi più strane che sente in giro, e poi le unisce in un collage che ha l’evidente obiettivo di restituire un ritratto distorto (ma non per questo infedele) della Gran Bretagna di oggi, un Paese che - lo sai bene, se hai letto qualche notizia - non ce la sta facendo più. Questa bizzarria nevrotica della band londinese, a tratti divertente, a tratti pietrificante, nel resto del disco lascia spazio anche a momenti di languore e malinconia intensi. Mi ricorda certi stand-up comedian particolarmente bravi: se fa ridere, è perché da qualche parte si cela un dolore, un trauma, un fastidio.
Gli altri album
A sorpresa è uscito un EP di Burial, musicista inglese che a metà anni Zero ha fatto la storia dell’elettronica con Untrue. Questo EP si intitola Streetlands, ed è composto da tre lunghe tracce ambient. Troppo lunghe per una giornata così, perché sarebbe da farle andare a ripetizione: tu fallo stasera, specie se dove abiti sta piovigginando come qui a Milano. Intanto io ti segnalo Hospital Chapel perché è un piccolo capolavoro di come una canzone senza parole e con pochissimo movimento melodico (è ambient!) riesca a raccontare una storia.
Ogni disco delle gemelle canadesi Tegan and Sara è un appuntamento, per quello che mi riguarda. Crybaby è un’altalena di canzoni energetiche, anche rabbiose, praticamente sempre confessionali: le sorelle parlano dei vari casini che si incontrano nella vita, ma con l’approccio di chi in qualche modo cerca sempre il lato positivo. Altalena perché è tutto un rimpallare di reazioni: It’s Okay ma Pretty Shitty Time; Under My Control ma This Ain’t Going Well. Il singolo Fucking Up What Matters è una delle canzoni migliori del 2022, sicuramente in questo genere. Però era già uscita, quindi in playlist metto Smoking Weed Alone.
Se parliamo di dischi deliziosi, ti consiglio anche Inner World Peace dei Frankie Cosmos (che non è più il nome d’arte di Greta Kline, ma è il nome della sua band: forza il collettivo!): quindici tracce dolci e amare come un croccante di sesamo, suonato molto bene e cantato meglio (quanto sono belle le voci belle?). Tutto è al suo posto, e a tratti ti sembra di essere tornati al 2010.
Un disco abbastanza clamoroso è I Love To Lie dei Lowertown: due su tre dei singoli che hanno anticipato il nuovo lavoro del duo di Atlanta erano perfetti (compresa la Bucktooth qui sopra), ma tutta la tracklist è solidissima. Ho selezionato un pezzo abbastanza greve (My Friends), ma nel disco ci sono momenti dondolanti e malinconici (e non intendo necessariamente il valzer e la ballata country sul finale) accanto a momenti furiosi e paranoici, a momenti meditativi e posati, e tutto quanto funziona. Ascoltalo per intero, se vuoi farti sballottare.
Da segnalare anche Love Me Forever dei Pinkshift, band che risponde alla domanda: dato che il revival pop-punk fatto dai rapper (italiani o americani) è tremendo, a chi dobbiamo dare in mano le chitarrine? Ai Pinkshift, per esempio. Qualche pezzo del trio americano l’avevamo già inserito in playlist e ne mettiamo un altro anche oggi perché di tanto in tanto servono i pezzi incazzati e basta. Non si inventa nulla (perfino lo spazio in tracklist per la ballad, in a breath, sembra un obbligo del genere), ma sono 40 minuti divertenti di rabbia.
Se invece della rabbia, oggi vuoi sentire il peso di tutte le lacrime del mondo sulle tue spalle, ti consiglio Animal Drowning dei Knifeplay, un po’ post-rock, un po’ dream pop, tanta tonalità minore, tantissimo magone e con un finale epico che ti apre il cuore (avrei messo la strumentale Animal in playlist, ma mi dicono che sia meglio una canzone con il testo, anche se in inglese).
Per la categoria “voci femminili sopra band pesa” segnalo Unison Life della band post-hardcore belga Brutus; e Screamnasium (titolo splendido) degli italiani O.R.k., più influenzati da gente come Soundgarden o Alice In Chains, che contiene un brano in duetto con Elisa (sì, quell’Elisa)
Per gli amici della psichedelia, ci sono un nuovo singolo dei King Gizzard and The Lizard Wizard, che stanno continuando la loro missione suicida di pubblicare roba ogni settimana di ottobre (forse è la cosa migliore uscita finora); e soprattutto un disco assolutamente ipnotico che si intitola Oh Death della band svedese Goat (“oh death” è la risposta a “oh vita” di Jovanotti?), un lavoro pieno di Africa e di allucinogeni. Su sintonie molto simili, ma molto più morbidoso e indie pop è pure il disco di Bibio, BIB10: un massaggio alle tempie.
Sinuoso (ma meno luminoso) è anche il disco di Nick Hakim, Cometa: l’artista R&B di base a Brooklyn gioca con i suoni lo-fi in tutto il progetto, ora usando un incastro di chitarra e batteria molto indie in Ani, ora ipnotizzando una chitarra folk come un Ben Harper d’altri tempi in Slid Under. Ho inserito una traccia soul piena di synth, Feeling Myself, dove il canto di Hakim, grattato, e le allusioni sessuali mi hanno ricordato Prince. A parte un paio di brani lenti a partire, è un grande disco.
Un paio di dischi rap. The Liz 2 di Armani Caesar è pieno di sample jazzati, bassi fangosi e beat ruvidi tra i quali la rapper di Buffalo si muove con flow mozzati e la proverbiale “attitude” (tranne quando tira fuori una voce educatissima nel bel pezzo in featuring con Conway the Machine). Molto interessante anche Almetha’s Son di SwaVay, che salta tra pezzi di chiara influenza trap e produzioni vellutate, fino a un paio di pezzi prodotti con James Blake, tra cui un ipnotico romanzo breve autobiografico in forma canzone intitolato Friends, che deve molto a Kendrick Lamar (e viene citato anche nel testo, infatti). E per chiudere questo terzetto un po’ jazz, segnalo anche Infinite Wisdom di Awon e Soul.Dope.95, più grezzo ma non meno affascinante.
Tornando al tema dei “vecchi”, ti segnalo anche True North degli a-ha (titolo molto black metal) dove la band norvegese di Take On Me suona ballad un po’ mosce con l’Arctic Philharmonic; Oxymore di Jean-Michel Jarre, che continua a giocare con i sintetizzatori ed è giusto così; Direction of the Heart dei Simple Minds. Non ho nulla da dire su questi dischi, forse sono anch’io vittima dei miti nuovisti.
I singoli
O forse no, visto che tra i singoli migliori della settimana ci sono una cover dei Beatles cantata da Mina, un nuovo singolo di Neil Young (non disponibile su Spotify), il primo singolo dei Bad Ends, band di Bill Berry (l’ex batterista dei R.E.M.) e il brano con cui John Cale (quello dei Velvet Underground, per farla semplicissima) ha annunciato il suo primo album da una vita a questa parte (si intitola MERCY e uscirà a gennaio).
Parlando di giovani non più così giovani, in playlist troverai Classico della Lovegang126, un pezzo con un gran bel groove e un bello storytelling, come dicono le persone brave. E a proposito di groove, sono tornati i NxWorries di Anderson .Paak e Knxwledge, con il loro bastimento carico di R&B e suonini e la voce di H.E.R. che di base fa i cori (dopo Lana Del Rey è il secondo featuring dove non si sente tanto l’artista featured… boh).
Poi per noi nostalgici dell’emocore (ah, la nostalgia!) ci sono due uscite che ho adorato: Nubifragio dei Gazebo Penguins, che anticipa il nuovo album di cui abbiamo parlato la scorsa settimana; e Place Your Debts (che è un gioco di parole con “place your bets”) dei Jimmy Eat World, tra le band simbolo del genere.
Gli scozzesi Young Fathers - trio responsabile di uno dei migliori dischi degli anni ‘10, Cocoa Sugar - ci hanno informato della data di uscita e del titolo del loro prossimo album: si intitolerà Heavy Heavy, arriverà il 3 febbraio, e ne è appena uscito un nuovo singolo che segue l’ottima Geronimo. Si chiama I Saw ed è anche meglio del precedente: un pezzo che cresce cresce cresce e non scende mai, con una batteria da pezzaccio glam rock e un’irruenza tangibile.
Di tutt’altro genere è Hiroshima della cantante congolese naturalizzata belga ma residente in Francia Lous and The Yakuza: il brano è stato pubblicato insieme con l’annuncio che l’11 novembre uscirà il suo secondo album IOTA (te lo dico, l’11 e 18 novembre saranno giorni anche peggiori di questo). Non è Dilemme, ma è un bel bop. Rimanendo in Francia, c’è un nuovo singolo dei Pheonix, dal disco Alpha Zulu in arrivo il 4 novembre (il 18 novembre suonano a Milano e ti posso solo dire che i loro live sono uno spasso). Cosa dire, a parte che è proprio un pezzo alla Phoenix, con la voce di Thomas Mars in stile radiolina e il suo tipico flow anapestico? Scusa, non ti aspettavi che dicessi anapestico dopo la lezioncina su Shakespeare? Anapesto vuol dire che fa “ta-ta-TÀ ta-ta-TÀ”. Si intitola Winter Solstice.
Facciamo un po’ di sovranità musicale ed elenchiamo qualche altro singolo italiano: c’è Lonely Boy dei Black Keys è un altro pezzo in cui Pablo America ci sfida a capire se sta facendo sul serio oppure no, con una canzone che ha qualcosa di Double Fantasy di John Lennon. Poi è uscita una nuova canzone del progetto di fumetto e canzone RAGAZZAcd che fa capo al musicista e disegnatore Alessandro Baronciani (tra parentesi, vai ad ascoltare subito un disco degli Altro). Si intitola Lucida e la canta la bravissima Giungla, ed è una delle mie canzoni preferite della settimana.
Molto carino anche il singolo Polistirene di Jacopo Planet, con suoni graziosi e un groove fatto di tanti piccoli elementi e non solo dal basso - si vede che è uno che ha studiato. E poi le canzoni che, ove necessario, usano una parola esatta - “polistirene”, non “plastica” - vanno premiate.
Da premiare anche Barcatreno degli YuzU, con Nino Nino e Benzaiten, che ha un intermezzo di cinque secondi di pianoforte jazz e poi fa partire le chitarrine: se la musica non ti sta stupendo almeno un po’ non è musica, è la messa. E questa mi ha stupito. In playlist abbiamo anche Occhi lucidi di Wako, Montauk di FOGG e il nuovo singolo di Sick Luke con Mara Sattei e Bresh.
In fondo, come sempre, si balla. Ci sono i nuovi singoli dai progetti in arrivo di Röyksopp, Kelela, Fred again.. e poi una collaborazione Orbital+Sleaford Mods, e quello che credo sarà l’ultimo singolo di Nosaj Thing (il disco Continua, che uscirà venerdì prossimo, sta prendendo forma in modo molto interessante). E infine ci sono due progetti italiani: un brano dall’interessante terzo EP Post Genre di 9den e Ciliegin di Bordeaux.
Hai visto che ora si è fatta? Oggi niente letture, vai a ballare l’ambient di Burial. A venerdì prossimo, ciao Louder.