Ciao Louder,
oggi è dura, ma non perché ci sono tante cose belle di cui parlare. Anzi, il contrario. Dobbiamo parlare della musica brutta e dell’hype. Tu intanto metti su la nostra playlist del venerdì (su Spotify e su Apple Music), che questa settimana ci è costata fatica e pelo sullo stomaco, e io ti dico un po’ di cose.
Lo dico subito qui: la nuova canzone di Rihanna, Lift Me Up, tratta dalla colonna sonora del prossimo blockbuster Marvel Black Panther: Wakanda Forever è brutta. Non ci possiamo girare intorno: il testo è ripetitivo; la base è banale prima di tutto perché i timbri degli strumenti (piano, archi, chitarrina pizzicata) sono sentiti e risentiti, e poi perché la progressione armonica è scontata. Sembra una canzone da saggio di fine anno, con tutto il rispetto per i saggi di fine anno. Aspettavamo da sei anni una nuova canzone di Rihanna, e il risultato è deludente. Quindi, che si fa? La risposta più semplice sarebbe dire: vai ad ascoltare un suo vecchio disco e chiudiamola qui. Una risposta più sottile sarebbe: vai ad ascoltare altra musica, in generale. (Non è accettata l’opinione di chi dica “non ascoltare Rihanna”, questa è pure eresia). Dato che in ogni caso non si può tornare indietro nel tempo e fingere di non aver ascoltato una canzone che ci ha preso male, possiamo provare a prendercela con chi ci ha tirato questo brutto scherzo: l’hype.
La definizione di “hype” è semplice: è l’attesa, la FOTTA che diventa sentimento istituzionalizzato, cioè opinione comune e diffusa, una pressione collettiva che unisce fan e artisti, perché spesso sono entrambi a provarne le conseguenze (positive e negative). Non c’è bisogno di dire che i social network hanno amplificato enormemente questa pressione, che sfocia nel performativo: dimmi quanto hype senti e ti dirò chi sei. Spesso l’hype è prefabbricato: parte da una casa discografica, dall’entourage di un artista, dal suo ufficio stampa, e viene fatto propagare artificialmente, ora con decine di teaser, ora con l’esatto opposto, ovvero l’assenza (account Instagram che diventano bianchi; prolungati silenzi stampa; “silenzio radio”, “lanci” e altri termini presi in prestito dal lessico militare). L’obiettivo è creare la FOMO, fear of missing out, in quel marasma di 100mila nuove canzoni giornaliere di cui abbiamo già parlato. La nostra reazione a questo tipo di marketing militaresco e aggressivo è, di conseguenza, un riflesso condizionato da regime feudale o da culto religioso: “chiediamo” all’artista di tornare; invochiamo il suo ritorno; preghiamo che “ci salvi” l’anno con la sua canzone dopo un silenzio così lungo. Per esperienza di studi vi posso confermare che esistono decine di casi di pratiche religiose costruite così, con il sacerdote o lo sciamano che si infila dentro una montagna per far uscire il dio dopo anni di silenzio. Qui funziona ugualmente, ed è tutto molto interessante, se non fosse che con la globalità del mercato questi momenti di misticismo commerciale sembrano ancora più folli. L’immagine più appropriata è quella del treno: l’hype è una locomotiva sulla quale o si sale, o non si sale, non ci sono mezze misure; e una volta che ci si è saliti, scendere sembra molto pericoloso, se prima il treno non si ferma. Per questo tra ieri e oggi ti sarà venuta voglia di dire che Lift Me Up è una bella canzone: noi siamo qui per tranquillizzarti, il treno si può fermare e saltare giù dalla carrozza non è niente di che. Basta esercitare le proprie orecchie in modo critico, basta ricordarsi di avere un gusto: proviamo insieme a rifarci un palato musicale, che dici?
Un paio di notizie, al volo, che hanno molto a che vedere con il concetto di hype. Giorgia ha annunciato un album, il primo da sei anni a questa parte, e il primo singolo uscirà il 4 novembre. Si intitolerà Normale e lo ha prodotto Big Fish. Sono curioso.
Tutt’altro genere, i BROCKHAMPTON, collettivo rap tra i più originali sbucati dagli ultimi anni, hanno annunciato che il 17 novembre pubblicherà il suo ultimo album, per poi sciogliersi: il disco si intitolerà The Family, e io non vedo l’ora. Ecco, sono cascato di nuovo nell’hype.
Natalia Lafourcade, De Todas Las Flores
Natalia Lafourcade è nota nel mondo (e in Italia) in particolare per Hasta la Raíz, singolo e album del 2015. Bello, per carità, ma negli anni successivi la cantautrice e musicista messicana ha fatto un lavoro enorme per il recupero del folk latinoamericano con i due album Musas del 2017 e 2018, che contengono sia canzoni tradizionali sia canzoni originali, portando avanti l’idea che il grande libro del folk non è un relitto, ma un organismo che continua a crescere (tra parentesi: facci caso, ma anche le tracce italiane - trap, pop, quello che ti pare - pubblicate ogni settimana entrano nel nostro canzoniere; un giorno verremo giudicati per questo). Capisco che la prospettiva di spararsi del folk del Centro e Sud America possa sembrare non proprio uno spasso, ma fidati e ascolta, sono dei dischi eccellenti.
Comunque, Lafourcade ha pubblicato ieri un album intitolato De Todas Las Flores. L’ispirazione per quello che è il suo primo lavoro interamente originale da sette anni a questa parte viene - come capita spesso - da una separazione: le idee e le melodie sono state scritte mentre avveniva, nel pieno del suo periodo Musas; poi qualche anno dopo ha chiamato il chitarrista Marc Ribot, il produttore Adan Jodorowsky (sì, è il figlio del regista Alejandro) e qualche altro amico, li ha convocati in un ranch in Texas per provare le canzoni e registrarle, il tutto in presa diretta. In una settimana piena di progetti che prendono posizione sul modo di produrre musica (jam session; registrazioni analogiche; e così via) questo disco fa tutto questo, benissimo. Prima ancora di andare a sezionare i generi e gli stili, il risultato sonoro, come esperienza puramente da ascoltare, è un piacere: metti su la jazzosissima Pasan los días e fai caso a come la voce risuona in uno spazio fisico, come l’intensità e la chiarezza cambi a seconda della posizione del microfono, fai caso ai respiri, e troverai un disco come se ne fanno pochissimi oggi. Stilisticamente parlando l’artista mette a frutto l’esperienza nelle diverse culture musicali incontrate in giro per l’America Latina, non esclusivamente ispanica: negli arrangiamenti (principalmente sorretti dalle chitarre, ma con importanti supporti di pianoforte e ottoni) si contaminano di volta in volta bossa e cumbia messicana, flamenco e samba, danzon e cha-cha, ma anche jazz e blues, rivendicati giustamente come parte della grande diaspora americana.
Forse le tracce più forti sono María la Curandera (basata su una poesia della poetessa mazateca María Sabina, una figura molto affascinante), dove la chitarra di Ribot fa quello per cui la conosciamo meglio; e Muerte (da una poesia di David Aguilar), che ha un feeling tejano irresistibile. Non potrà mai essere il disco della settimana, ma va sentito: magari tenuto da parte per una serata calda (ma ehi, è fine ottobre e fa ancora caldissimo quindi forse il cambiamento climatico ha fatto anche cose buone…). Nota a margine: per qualche problema tecnico il disco non è stato caricato su Apple Music - la piattaforma che uso come base per preparare le playlist - fino a sabato mattina (quello di Benjamin Clementine addirittura nel pomeriggio, per questo non lo citerò); ho voluto aspettare a mandare questa newsletter fino a che non avrei potuto ascoltarlo, per dire l’hype. OPS.
King Gizzard and The Lizard Wizard, Changes
Ottobre sta finendo e gli australiani King Gizzard and The Lizard Wizard pubblicano l’ultimo di tre dischi in un mese. Si intitola Changes ed è stato anticipato dal singolo Hate Dancin’ che ti abbiamo suggerito già la scorsa settimana, ed è già uno dei miei singoli dell’anno. Ok, sono canzoni da 12 minuti, capisco che hai altro da fare, ma nella lunga e stranissima discografia del gruppo questo progetto (in particolare il primo album uscito, Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms and Lava) è solidissimo: lo considero un’ottima introduzione non solo alla band, ma a un modo di concepire la musica che non è necessariamente progressivo, cioè non pretende di far avanzare il discorso della musica (rock, in questo caso), ma d’altra parte è pieno di sostanze e di sapori, a differenza di certi piatti già pronti che ci troviamo alla mensa del treno dell’hype. Perché nel DNA di questo disco ci sono blues, soul, rock’n’roll e funk, e insieme se la spassano alla grande.
Montell Fish, Her Love Still Haunts Me Like A Ghost
L’EP di Montell Fish, trainato dalla weekndesca Hotel (che per qualche ragione ha oltre 37 milioni di ascolti su Spotify), è un lavoro che mi ha sorpreso questo venerdì. Di base è R&B, ma ci sono chitarre e bassi ipersaturi che frizzano nelle cuffie, e una voce angelica che cerca di farsi largo tra queste bordate di distorsioni; ci sono stati di profonda disperazione tra i quali si intravedono momenti non dico di gioia ma di liberazione. Se dovessi paragonarlo a qualcosa che potresti già conoscere, immagina i Low di Double Negative con i quali per qualche ragione canta Frank Ocean. Il tema portante - come il titolo lascia intendere - è la permanenza (spettrale) dell’amore anche dopo la sua fine, e si inserisce in un discorso che coinvolge più lavori: il disco Jamie uscito a luglio rappresentava la perdita (dell’amore); e prima del successivo album, sul lutto, che si intitolerà Charlotte, questo EP si concentra sulle fasi di passaggio, l’isolamento e la rabbia. In una settimana piena di rimandi filologici all’esperienza della musica afroamericana e di musica passatista, questo è un salto nel futuro.
Smino, Luv 4 Rent
Smino è il secondo rapper nel giro di due settimane che menziona Kendrick Lamar in un pezzo: la scorsa settimana era SwaVay, l’hai ascoltato? (Qui ci sono tutte le canzoni raccolte finora, PROPRIO TUTTE: su Spotify e Apple Music). Smino lo cita in Ole Ass Kendrick, pezzo peraltro con un beat che barcolla come un ubriacone, bellissimo, che mi sembra un ottimo modo per introdurre il disco Luv 4 Rent. Lui si chiama Christopher Bjorn Smith Jr e la sua musica è un coacervo di funk storto, flow spezzettati che si sciolgono in melodia soul, sample sottilissimi. Esteticamente parlando ci sono rimandi al rap sbracato e confessionale alla Odd Future (senti Modennaminute, dove droppa il nome di Tyler, The Creator); all’R&B sotto anfetamina di dischi come Stankonia degli OutKast; al puro e semplice R&B d’annata (la chiusura Lee & Lovie); in parte anche alle evoluzioni attuali dell’era del cloud rap e dell’emo rap (la presenza di Lil Uzi Vert è una spia) ma sempre alle proprie condizioni, e così quando pestano i bassi dell’808, ad esempio, sembrano suonati da una mente deviata. Oltre ai singoli già usciti, tra cui uno con J.Cole, ci sono almeno 5-6 chicche assolute: cito Pro Freak, con il suo cambio di beat a un minuto dalla fine che ti taglia il respiro; Louphoria con la sua chitarra fuzzy molto indie; e Curtains, con il suo organetto galleggiante.
Gli altri album, in breve
Questa settimana è uscita una marea di roba. Quindi, rapidamente, ti cito quello che in quasi 40 ore di ascolti mi è sembrato degno di segnalazione.
Protector, il secondo disco della irlandese Aoife [ee-fa] Nessa Frances, che è una raccolta di canzoni vulnerabili e fragili come una persona ferita che cerca di rialzarsi da terra e togliersi la polvere di dosso: un disco lento e languido, ma ferocemente vero. Un disco dal mood abbastanza simile, ma ancora più statico e malinconico è Light Moving Time dei Babehoven (nome di band stupendo), che fanno un indie rock malinconico e dolce, sporadicamente con il banjo come ai tempi d’oro. A volte questa lentezza mette alla prova, ma potrebbe essere perfetta se hai in programma un viaggio in treno - possibilmente non il treno dell’hype, visto che qui non li conosce nessuno. Molto più conosciuto, ma responsabile di un altro disco lentissimo questa settimana è Tom Odell, che ha pubblicato Best Day Of My Life, titolo che sa di ironia dal momento che la fa scendere come quasi nient’altro questa settimana. Ma ha una sua grazia, e per questo te lo segnalo.
Sempre su questa linea di tristezza (ma poi ci risolleviamo, eh) segnalo due dischi da ascoltare se vuoi metterti una camicia di flanella e farti crescere la barba, anche se fa caldo e non hai un pelo sulla faccia: Waiting To Spill dei Backseat Lovers, e 5am Paradise di Old Sea Brigade.
Un disco rabbiosissimo e - lo dico - non di facilissimo ascolto è Trouble The Water degli Show Me The Body: loro sono un gruppo di punk, nel senso di persone con una certa etica antimaterialista prima ancora che nel senso del genere musicale, che ce l’ha a morte con l’imborghesimento di New York, la loro città. Perfetti per ogni gentrificazione e inflazione. Il disco è ruvidissimo, carta vetrata in pratica, ma la sensazione alla fine dell’ascolto è di essersi tolti un peso dallo stomaco. Forse è il disco della settimana, e mi scuso se lo metto qui.
Mi scuso doppiamente, in realtà - perché peraltro non è nemmeno difficile ascolto - se cito solo qui un altro discone uscito questa settimana: OUTOFBODY di Dazy. Si tratta di una one-man-band che scrive canzoni con le dosi perfette di rabbia e gioia, disillusione e riscatto, power pop con le chitarre bruciate: On My Way è praticamente perfetta, ma l’avevo già messa in playlist; Ladder, che è la prescelta di questa settimana, è un po’ la It’s A Long Way To The Top della nostra non-generazione.
Più irato e meno melodico è Please Don’t Take Me Back dei britannici Martha: il titolo lo lascia intendere, si parla di persone che si mollano (è un tema ricorrente, questa settimana), ma con la prospettiva di chi dice “basta così, grazie”. Tra sottotesti politici e sentimentali, il senso profondo è un rifiuto della nostalgia, come male personale ma anche sociale, e una rivendicazione (a tratti ingenua) del futuro.
Molto nostalgico, d’altro canto, è Sentimental Fool di Lee Fields. Quello che veniva chiamato Little JB per la somiglianza vocale e facciale con James Brown torna con un album pubblicato dalla sempre preziosa Daptone Records, come sempre tutto registrato alla vecchia. E suona esattamente come un disco Daptone: pare sbucato dal 1963, anche se le canzoni sono originali (le scrive e produce Gabriel Roth, aka Bosco Mann, che di Daptone è cofondatore). Che dire? Niente di nuovo, ma fatto splendidamente.
Tra i dischi più attesi della settimana c’era Remember That You Will Die dei Polyphia, la dimostrazione che si può essere tecnicissimi al punto della noia anche facendo canzoni lunghe due minuti. Ci sono momenti buoni, ma nulla di emozionante.
Ma se parliamo di riccardoni (cioè le persone ossessionate dalla tecnica), molto meglio Hiding In Plain Sight di Drugdealer, vale a dire Michael Collins: un disco in camicia di seta e pantaloni di velluto a coste. Il tema è l’innamoramento, ma è una scusa per il revival di quel rock morbido e intelligentone alla Steely Dan. I momenti migliori sono in pezzi come Baby e Someone To Love con una gruva e un canto alla Bill Withers.
Un altro disco orgogliosamente passatista è A New Kind Of Love di Ghost Funk Orchestra, altro nome collettivo per il progetto di fatto di un musicista singolo, in questo caso Seth Appelbaum: molto funk e sudato. Altro disco di una sola persona ma con un nome d’arte che lo fa sembrare una band è Nostalgia di Skinshape, al secolo William Dorey dal Regno Unito: anche qui è tutto alla vecchia, ma con un gusto enorme, anche maggiore del precedente. Mi serve come ponte con il prossimo disco perché il filo conduttore qui è la psichedelia. Infatti, l’ultimo uomo solo al comando di oggi è Joe Oxley, aka TVAM che pubblica High Art Lite, un disco meno passatista e decisamente più “RUOCK” di quelli dei suoi colleghi, ma che tiene insieme tanto materiale d’antiquariato, dai riff glam alle voci spettrali shoegaze: il disco sembra avere un concept turistico, come se raccontasse di un resort infestato da fantasmi, e con questo tipo di immagini in mente è un buon ascolto.
Due dischi pop deliziosi sono l’elettronico Chrysalism del duo Milk & Bone, a metà tra Robyn e Cosmo; e Twennies della canadese Dragonette, con alcuni momenti molto vulnerabili. Mentre definire pop 超天獄 (CHO TENGOKU) della giapponese Seiko Oomori è riduttivo: io ti posso dire soltanto che è la mia nuova cantante preferita, senza nessun bisogno di hype.
In campo di elettronica e dance sono usciti diversi dischi che citerò e di cui non parlerò troppo per non fare figure di merda: Continua di Nosaj Thing, Actual Life 3 di Fred Again.., Svengali di Cakes Da Killa, Waiting Game dei Junior Boys. Non troverai tutto in fondo alla playlist, quindi lasciati sorprendere quando arriva.
“Ma italiani ne abbiamo?”. Certamente, la sovranità musicale mi impone di citare alcuni dischi di artisti italiani. Parto da Villa Tatum di Tatum Rush, l’artista che si definisce il Grande Gatsby delle valli svizzere: onestamente, aveva fatto meglio nei singoli, ma c’è un buffo featuring di Frah Quintale e qualche momento funkeggiante che salva quello che vuole essere un viaggio tra le stanze di una villa (che si può fare anche su questo sito). Io ho dei problemi con i dischi che volutamente ti portano da una parte e dall’altra senza decidere una strada, ed è il problema di Duality di Dardust, doppio album nel quale il “Re Mida” del pop italiano cerca nuovamente di proporre la sua doppia anima, da pianista e da produttore elettronico, tenendo separate le due anime, nelle sue intenzioni. Se preferisci roba con le chitarre e molto meno elegante, c’è Mediacracy del gruppo punk The Crooks, che è ok.
Sempre di radice punk, ma più esaltante, è l’EP di debutto dei The Wends, band che prima si chiamava Smile (nome gentilmente lasciato a Thom Yorke, così si fa): si intitola It’s Here Where You Fall e il pezzo migliore, Worthy of Nothing, lo avevamo già segnalato, ma tu ascolta anche il resto e poi mi dici. Molto particolare è l’EP di Luchino Luce, Cometa: lui è un ragazzo padovano di casa presso Bomba Dischi, e lo segnalo per il modo tenebroso in cui distorce elementi delle ritmiche e melodie trap, approdando a un hyperpop molto curioso che deve molto a Pop X. Poi, visto che è il ponte dei morti, i suoi testi stralunati pieni di demoni e santi, mascolinità tossiche, citazionismi e altri orrori, mi sembra appropriato. Infine, come dicono i giornali, c’è un po’ di Italia in Paste dei Moin, progetto di base a Londra come la percussionista Valentina Magaletti, pugliese di estrazione, che si è unita in questo progetto con i Raime e che definire post-punk è un po’ riduttivo: altro disco non facile, ma è così che ci si rifà il palato musicale. Comunque ora arrivano le cose pop, perché è tempo di singoli.
Singoli
Passando ai singoli, direi che non serve aggiungere nulla su Lift Me Up di Rihanna, se non una nota metodologica: normalmente le canzoni che non ci piacciono non entrano in playlist, ma per Rihanna facciamo un’eccezione. Però certo non la troverai in cima.
In alto invece troverai due dei singoli migliori della settimana: Shirt che segna il ritorno di SZA, già autrice con CTRL di uno dei dischi R&B più originali dell’ultimo decennio, ed è una labbrata nei denti. Subito sotto troverai un’altra labbrata, Irreversibile Damage degli Algiers con Zack De La Rocha. Gli Algiers sono responsabili di un originalissimo incrocio di soul, post-punk, elettronica: sono semplicemente unici, e in questo brano lo dimostrano un’altra volta creando un percorso che in modo credibile parte da un Giorgio Moroder nevrotico e finisce con una cacofonia chitarristica krautrock, Maliana e psichedelica. Il tutto con un’incazzatura verso lo stato del pianeta (e vorrei anche vedere) sul quale il cantante dei Rage Against The Machine poggia un carico da novanta. E poi ai piani alti trovi anche Andrew Bird, che forse non conoscerai, ma magari conosci Phoebe Bridgers: la loro canzone insieme si intitola I felt a Funeral, in my Brain ed è delicata e triste come certe canzoni di Lou Reed.
Continua l’uscita di doppi singoli da parte dei Mount Kimbie, uno per ciascun componente del duo, e a questo giro DVD cantata da Choker e prodotta da Dom Maker è una vera mazzata.
Tra gli artisti abbastanza conosciuti (cioè dotati di hype) che hanno pubblicato singoli ci sono Sam Fender e U.S. Girls, mentre tra quelli senza troppo hype segnalo I-90 della band Sour Widows, e Where You Been degli Anxious, che condividono una dinamica pazzesca (nel senso che a un certo punto suonano FORTE).
Frenzy di Iggy Pop, che si fa accompagnare tra gli altri da Duff McKagan dei Guns ‘N Roses e da Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers, è un bel pezzo punk rock. Forse i revivalisti dovrebbero ripassare.
Parlando sempre di veterani, sono tornati i ††† (Crosses) di Chino Moreno dei Deftones (che peraltro canta in una traccia non indimenticabile del disco dei Polyphia uscito sempre questa settimana): il singolo, pesantone e malinconico, si intitola Vivien e anticipa un EP in uscita il prossimo 9 dicembre. Non è indimenticabile, ma in una settimana così vale tutto.
Chino Moreno mi ricorda che sono uscite tre tracce dai side-project di componenti di band molto note: Graham Coxon dei Blur con il duo WAEVE; Dave Rowntree sempre dei Blur; e Philip Selway dei Radiohead. Il primo ha pubblicato un pezzo più prog di tanta roba prog uscita questa settimana, perché è una canzone costruita in movimenti, di stile rock con tanti elementi synth-pop e una bella linea di sassofoni spernacchianti; il secondo e il terzo hanno fuori pezzi molto più introspettivi, ciascuno a modo proprio, un po’ post-rock sperimentale uno e molto più convenzionale l’altro.
Tra gli italiani cito l’eccellente Piscine dei Palmaria, Cloro di Giovanni ti amo e anche Cuore tra le stelle di Chiello, che è la rockstar del futuro. E poi Giuse The Lizia e Claudym con due singoli molto pop negli intenti (non forse nei risultati), e una ballad graziosa di Federico Fabi. Poi ci sono un nuovo singolo di Daniele Silvestri, che sembra un po’ situazionista (e quando fa situazionismo mi sembra che il cantautore romano si esprima meglio) e una ballad piena di archi e pianoforte di Maurizio Carucci degli Ex-Otago, che è patatissima. Non cito invece i tanti che hanno pubblicato delle emerite ciofeche. Loro sanno chi sono, tu anche lo puoi immaginare, perché non troverai certi nomi nella nostra playlist che invece trovi nelle altre, quelle scarse.
Non sto a citare le canzoni rimaste fuori, ma menziono il terrificante singolo d’esordio di Charli D’Amelio, che dimostra che saper fare i TikTok non ti rende automaticamente un’artista musicale.
Curiosità a caso della settimana: due canzoni intitolate Radiator, cioè “calorifero” o “termosifone”, una nell’album degli Show Me The Body, l’altra del rapper Homeboy Sandman. Si vede che l’inverno si avvicina, o almeno così dicono le canzoni.
Qualcosa da vedere
Anziché una lettura, dato che è stata una settimana dura, ti propongo qualcosa da vedere. O da guardare, per meglio dire, perché non è un video. Sto parlando di copertine, quella cosa alla quale nessuno fa più caso perché ormai tutto è virtuale, no? Beh, quando ti ritrovi ad ascoltare decine e decine di album ogni settimana (senza contare i singoli), ti capita di notare alcune somiglianze che dicono molto. Cosa dicono? Che a certa musica si associano certi colori e certe palette (il nero per il metal, no?), e questo è banale; che certi trend visuali diventano ubiqui e per puro caso si trovano uno accanto all’altro a confondersi, tradendo di base la ragione per cui si fanno ancora le copertine, cioè far risaltare la musica che presentano; e che talvolta i colori fanno il salto e descrivono generi diversi, perché sono colori in tendenza, e quindi non si associano più a certi generi. E allora tutto diventa una macchia monocromatica: un casino, ma fa ridere. Più o meno. Ed ecco alcuni esempi.
Le copertine rosa (Quicksand - Ghost Car - Sneaks - Emei - Suzie True):
Le copertine blu (Benjamin Clementine - Tom Odell - Fred Again.. - Anxious):
Le copertine con tantissimi minuscoli dettagli, dette anche “Where’s Wally?”, dette anche “Hieronymus Bosch” (Brockhampton - White Reaper - Sour Widows):
E infine le mie preferite, perché le ho confuse almeno tre volte mentre preparavo la playlist, le copertine con il fuoco (Show Me The Body - Fran):
E niente, in qualche modo dobbiamo pur divertirci…
Ciao Louder, passa un buon ponte e noi ci sentiamo la prossima settimana.