Pioveranno venerdì #8 | 29 ottobre - 4 novembre
Cosa fa funzionare una canzone. Sorprese, generi fluidi, arrangiamenti stupidi.
Ciao Louder,
oggi è un venerdì - anzi un sabato - più tranquillo dei precedenti (ma attenzione, che le prossime due settimane potrebbero ucciderci). Tu metti su la nostra playlist New Music Louder (su Spotify e su Apple Music) e io ti racconto una cosa.
Perché certe canzoni sembrano sbagliate? Secondo me un problema che chiunque percepisce subito, a prescindere dalla conoscenza della musica, è che certe volte una canzone ha un testo che dice una cosa e una musica che ne dice un’altra. E ci vuole molto, molto talento per riuscire a far girare certe parole su certi suoni. Il primo esempio che mi viene in mente è Robyn: non è stata in assoluto la prima a cantare testi su amori falliti e spesso deprimenti sopra un beat ballabile, ma lo ha fatto meglio di tanti altri, specie in un momento nel quale il pop elettronico era portatore di altri messaggi, di empowerment, indipendenza, forza. Lei ha rivendicato questi temi, ma rinunciando alla retorica vuota che spesso li accompagnava, sostenendo che dichiararsi indipendenti può voler dire a un uomo di prendersi responsabilità, che anche il dolore ci dà una forma perversa di potere. Non farò un saggio su Robyn, ma volevo sottolineare che la sua abilità di legare certi concetti a certa musica è stata eccezionale, e come tale viene tramandata.
Nella maggior parte dei contesti musicali, certi suoni si incatenano a certi temi e molti artisti sono ben felici di questo, perché rende la loro musica prevedibile, una specie di comfort food per le orecchie e il cervello. Benissimo, tutti quanti abbiamo bisogno di un piatto di patatine fritte, di tanto in tanto. In più, come racconta Daniel Levitin nel suo bellissimo libro This is your brain on music (tradotto anche in italiano), la scienza dimostra che la ripetizione e la prevedibilità ci fanno amare di più una musica, e al cervello non si comanda. Per questo in piazza Duomo non si radunano abitualmente migliaia di persone per il firmacopie di un compositore dodecafonico. Ma infatti le aspettative non vanno disattese del tutto, vanno manipolate con molta cura: quando l’orecchio crede che la prossima battuta suonerà in un modo, e invece suona in un modo leggermente diverso, la soddisfazione è maggiore. Detto molto male, è la ragione per cui ancora oggi ascoltiamo e compriamo dischi di gente che imparava le canzoni altrui a orecchio e poi, provando a rifarle, sbagliava un accordo trovando in compenso qualcosa di ancora più prezioso. Qualche esempio: i Beatles; gli Stooges; i Black Sabbath. E ora smetto con le cose da vecchio, però volevo dimostrare che uscire dai cliché - talvolta anche per sbaglio - è importante. E come tutte le cose importanti, serve attenzione e cura. Perché l’alternativa è diventare una parodia: come la “cover malinconica della hit pop” adottata talmente spesso dai trailer cinematografici da esser diventata a sua volta un cliché.
Se n’è parlato anche giovedì sera, per la serata “MTV Generation” di X-Factor, programma che si è reso spesso colpevole dell’adattamento “a cazzo” di canzoni popolari, secondo questa procedura: prendi un artista in gara; considera il suo “percorso”; prendi una canzone incredibilmente popolare che ha un sentimento opposto al “percorso”; devastala; canta. Al di là degli scherzi, il tema è rilevante e attuale: lo senti quando un rapper prende un sample famoso e ci canta qualsiasi cosa, purché si senta che il sample è famoso; o peggio ancora, lo trovi in moltissime tracce di questo famigerato revival pop-punk. Mi concentro un secondo su questo e ti chiedo di riflettere sulla distanza atroce che c’è tra i modelli e i copioni: da una parte, band di sfigati californiani (la peggiore specie), che sfogano la loro frustrazione sociale ed economica cercando soci nella sfiga; dall’altra, ragazzi che esibiscono la loro eccezionalità, si lamentano del proprio successo, sventolano banconote (“che schifo avere ventagli di fogli da cento e ostentarli” migliore rima della settimana), fanno vittimismo antipatico e si vantano della loro capacità sessuale. No, amici revivalisti, non avete capito cosa funzionava di quei pezzi. E si sente, letteralmente. Ora, due notizie al volo.
I Roots, Erykah Badu e Tierra Whack hanno fatto una nuova canzone, che non si può ancora sentire in streaming, ma si può sentire sul profilo Instagram di Questlove. Ed è una bomba, e quando i Roots faranno uscire un nuovo album, tienimi fermo.
Gli Everything But The Girl pubblicheranno in primavera un album, il primo dal 1999. E lo so che parliamo di un duo degli anni ‘80 e che “il target non capisce”, ma chi fa un disco come Temperamental secondo me ha qualcosa da dire anche nel 2023.
Ultima notizia, il 1 novembre il misterioso collettivo inglese Sault ha pubblicato cinque album in free download sul loro sito che saranno disponibili per cinque giorni. A giugno 2021 avevano fatto una cosa simile con l’album Nine, disponibile sulle piattaforme streaming solo per 99 giorni. In ogni caso, dal momento che le canzoni non possono entrare nella playlist, non mi metterò a parlarne: io ti lascio qui la password per accedere ai dischi (godislove), e se vuoi che ne riparliamo la prossima settimana, scrivi un commento. E adesso, i dischi. Quelli che hai potuto ascoltare anche tu, insomma, per intenderci.
Coma_Cose, Un meraviglioso modo di salvarsi
Parto dicendo che il nuovo album dei Coma_Cose mi è piaciuto, e che secondo me loro sono un oggetto non identificato del pop italiano: apprezzati, ma non quanto meriterebbero, e forse per colpa della passione - ora molto più moderata - di Fausto per il calembour. Un meraviglioso modo di salvarsi è davvero un “ideale seguito” (espressione stupida) di Nostralgia: tanto per cominciare, entrambi i lavori condividono il desiderio di stare contemporaneamente dentro e fuori la propria narrativa, di trovare un modo per essere onesti senza tradire la vocina nel cervello che ti dice di sovra-analizzare e guardarti dall’alto. Il livello di lettura più semplice dei testi è il messaggio che internet ci sta rovinando il cervello con il suo wall of sound di rumore-di-fondo, un messaggio talmente ovvio e condivisibile, che lo diamo tutti per scontato. Anche Fausto e California lo danno per scontato e in queste canzoni è un tema, ma non è il tema. Più importante è la questione della memoria, stavolta non vista come rifugio, confortevole ma anche pericoloso (che secondo me è il succo del discorso di Nostralgia), ma come luogo dal quale trarre esempi per risolvere il problema. Allora torniamo con il pensiero allo struggle di Fausto per fare musica, che non è solo teorico ma fatto di cantieri e lavori da commesso (Sto mettendo ordine); o torniamo a Pordenone con California per capire che non tutta l’adolescenza luccica (Giorni opachi).
La memoria è anche quella RAM, metaforicamente parlando, e non solo il disco fisso: cioè lo spazio di lavoro che non deve essere occupato dal rumore e dalle distrazioni. Quindi deve essere un mezzo, non un fine. E a cosa serve? A salvarsi dal mondo stando nel mondo. I Coma_Cose tentano, sperimentano, non danno una risposta, che è il contrario di quello che spesso fa la musica più in voga: dare risposte a domande che nessuno si era fatto. La forza di questo lavoro, a livello concettuale, è piuttosto la comprensione della vita come work in progress, da cui l’idea che l’album sia da ascoltare in loop, perché forse la soluzione non c’è, e va bene così. L’importante è non smettere di lavorare, non nel senso milanese del termine, per il profitto: lavorare su sé stessi, sul rapporto con gli altri, sulla propria irascibilità, sulla propria voglia di mollare tutto, sulle cose per cui vale la pena lavorare. Lavorare anche sulla musica - insieme con i soliti geniali Mamakass, nello specifico - sperimentando soluzioni diverse, facendo interagire generi diversi, sia nel singolo beat, sia nella successione di movimenti: rap alla Odd Future e dream-pop alla Beach House (Foschia); trip-hop e Pink Floyd (Odio i motori). Lavorare non per mostrare risultati ma per combattere l’omologazione, per non arrendersi all’oblio (che non è la mancanza di fama), per non accettare quello che diamo per scontato. Lavorare, lottare, resistere.
Special Interest, Endure
Uno dei dischi migliori di oggi, e titolo da segnarsi per le classifiche di fine anno, è il terzo album del gruppo Special Interest, formazione che sotto i ruggiti dellə cantante Alli Logout ha portato avanti un’idea battagliera di musica, che dietro le quinte sperimenta con i generi (dal soul alla house). Nell’identità fluida del gruppo entrano ora nuovi modi di usare le dinamiche, con tracce che mostrano Logout alle prese melodie più morbide: lo senti nella traccia migliore (già inserita in playlist a settembre), Midnight Legend. Tutto questo ne fa un disco più accessibile rispetto ai lavori precedenti. D’altra parte, con i bassi di Nathan Cassiani, che ti tengono appiccicato a ogni traccia, sembra facile: ti fanno marciare in LA Blues, ti fanno dondolare ossessivamente in Cherry Blue Intention (che mi ha ricordato i TV On The Radio), ti prendono per la gola in Foul. Un disco per incazzarsi, ok, ma senza restare annichiliti dalla rabbia.
Big Joanie, Back Home
Le Big Joanie sono un trio di estrazione punk e noise di base a Londra, con un forte radicamento nei movimenti afrofemministi che qualche anno fa si era segnalato per una cover post-punk di No Scrubs delle TLC. Come? Una cover fuori contesto? Esatto, perché il potente sottotesto femminista di certo pop si presta bene a questo tipo di riletture - e poi non è nemmeno una gran cover (molto meglio quella di Cranes in the Sky di Solange), quindi vedi che il campo è minato? Back Home è il secondo album del gruppo, e porta avanti la commistione di riot grrrl e aperture melodiche creando un specie di rock dolce e disilluso (What Are You Waiting For ne è un esempio), che in qualche caso usa l’elettronica (l’ottima Confident Man), in altri è puro e semplice folk punk (In My Arms). E poi ci sono i pezzi come Cactus Tree che fanno storia a sé, partono, si fermano e ripartono, e ti tirano dentro un moto ipnotico di tamburi. Molto interessante, forse un po’ troppo omogeneo e a bassa energia.
Joji, Smithereens
Ogni persona che parla di Joji è condannata a citare il fatto che un tempo si faceva chiamare Filthy Frank, era uno youtuber tutto matto, “Harlem Shake”, etc. Smithereens, il terzo album di Joji e il primo con major (Warner), sulla carta era il possibile disco dell’affermazione mainstream. Fino a giugno il suo nome era celeberrimo per le persone allo stadio terminale della dipendenza da internet, una massa critica che comunque gli ha permesso di fare due tour sold out. Poi è uscita Glimpse Of Us, ed è stato un trionfo per l’artista giapponese cresciuto in America: il singolo è arrivato ottavo nella Billboard Hot 100, ha fatto capolino perfino nella nostra FIMI (un misero #90), e soprattutto è esplosa su TikTok (1,1 milioni di video realizzati soltanto con il suono originale; 1,4 miliardi di visualizzazioni per l’hashtag). E ci stava tutto, perché è una ballad irrorata di lacrime, semplice ma geniale per alcune deviazioni dalla norma. E il disco com’è? Eh… dai… intanto, diciamo che è diviso in due metà. La prima parte è sulla vena della hit: sono brani lenti, languidi e liquidi, che funzionano quando hanno quell’ineffabile fascino spettinato delle canzoni nate sopra un pianoforte (Before The Day Is Over), ma con tanta, troppa indecisione sull’identità sonora, tra minimalismo lo-fi e iperproduzione (Dissolve); la seconda parte è quella più rap, ed è ok. In generale, il disco sembra fatto di bozze incomplete, idee non del tutto sviluppate: “frantumi”, del resto, è il titolo. Non sarà ancora il grande salto, temo.
Julien Chang, The Sale
The Sale di Julien Chang è pubblicato dalla stessa etichetta che ci ha dato i dischi di Alvvays, SOPHIE, Flume, Let’s Eat Grandma: qualcuno ancora ha l’abitudine di ascoltare un artista per via dell’etichetta che lo distribuisce? Spero di sì, perché spesso ci si azzecca. Questo album ne è la prova: a luglio ti avevo consigliato il singolo Marmalade, che resta forse la traccia migliore di questo suo pop parecchio alternativo, costruito sulle spalle di indie rock, dream pop, psichedelia, jazz (che è la formazione del musicista di Baltimora). Alcuni pezzi, come Time and Place, suonano leziosetti; altri, come Crossed Paths, non sono tanto canzoni quanto “vibe”. Ma poi ci sono piccole perle come Queen of Sheba, Heart Holiday e la mia preferita Snakebit, che hanno un arco piuttosto chiaro, alcune scelte di arrangiamenti che rimandano ora all’art-pop wilsoniano degli anni ‘60 per il tramite di gente tipo Mazzy Star, ora a un funk acido alla Tame Impala, e insomma finisci per pigliarti bene.
Mount Kimbie, MK 3.5: Die Cuts | City Planning
Dopo la pubblicazione di cinquanta singoli, arriva il doppio album dei Mount Kimbie, che fanno un po’ come gli OutKast di The Love Below/Speakerboxx spartendosi ciascuno una metà di un doppio LP. Ammetto che il disco di Dom Maker, quello più pop, è il mio preferito (ho i flashback di Cosmotronic…). Del resto, gli artisti convocati sono ottimi: Choker (dvd è una delle nostre canzoni top di ottobre), perfino slowthai che in Kissing prova in tutti i modi a scrivere un testo indecente sulle filastrocche, e invece funziona da solo e con Danny Brown (In Your Eyes). Ma alla fine cediamo al cuore, e mettiamo in playlist il pezzo cantato da James Blake. Altro non ho da dire, sono mesi che ne parliamo!
Deda, House Party
Non posso provare altro che gioia per l’attenzione mainstream che Deda, colonna portante del primo hip-hop italiano, riceverà grazie a House Party. La domanda è, può dire qualcosa alla scena di oggi? Secondo me sì, e a mio parere i pezzi migliori dell’album sono quelli che cercano di creare un ponte sonoro tra le epoche senza svendere i gioielli di famiglia. In questo senso, la traccia di Ensi, Voilà, è perfetta (perché Ensi non sia nella top 3 dei rapper più popolari d’Italia non lo capirò mai).
All’altro capo c’è Più forte, con Salmo, dove l’incastro tra producer e rapper proprio non va. Molto bella la canzone dei Coma_Cose, Change: non la inserisco in playlist perché oggi c’è il loro album, ma è un ascolto che straconsiglio per il beat, la melodia, i concetti (l’omologazione come repressione). Voglio segnalare anche il nostro amico Davide Shorty (“la consapevolezza un cazzo, fratello”) che in Puro mette in mostra tutte le sue capacità nel canto e nella rima.
specchiopaura, Napoli Undercore
Attivi da almeno 4 anni ma venuti alla ribalta grazie alla creazione del collettivo Thru Collected, i napoletani specchiopaura pubblicano oggi il loro primo album. Per descriverlo, userò la metafora del multiverso: immagina il pop, ma proveniente da una dimensione parallela, familiare per molti versi e alieno per altrettanti. Le tracce sono cantate principalmente in napoletano, ma va bene anche per noi impreparati perché il senso non va cercato nella lettera del testo, ma nei lampi di significato che ti colpiscono a tradimento mentre decifri la musica: senti “voglio un drone padrone”(Drone Boy) e una chitarra shoegaze ti dirotta da una parte; arriva un interludio ibrido trap vaporwave, ed ecco che un beat giocherellone ti trascina da tutt’altra parte. CC Paura e Peppe Storto hanno una passione per la trasfigurazione: voci alterate; distorsioni, senza la quale non ci muoviamo nemmeno (parafrasando Holes in the Ground); macchine che sembrano chitarre e viceversa. Nulla è quello che sembra, ma non per questo è falso: in un contesto nel quale la canzone italiana - tra chi esagera e chi minimizza - assegna un valore speciale alla verità, questo cambio di paradigma è benvenuto.
HAWA, Hadja Bangoura
Un bel disco rap, intinto di R&B ed elettronica, che ha il pregio di essere conciso (a differenza di me) è Hadja Bangoura di HAWA. Lei è una persona dalla storia affascinante, nata a Berlino da famiglia della Guinea, a 10 anni è stata presa dalla Filarmonica di New York per i suoi corsi avanzati di composizione classica, e fino ai 15 anni andava in giro per il mondo con loro. Poi si è rotta e ha scelto altra musica. Il disco è dedicato alla nonna, morta durante la pandemia, e lei si racconta bene in questa intervista che ti consiglio di leggere. Non sarà l’ultima volta che sentiremo parlare di lei.
Coco & Clair Clair, Sexy
Un’importante matrice rap c’è anche in Sexy di Coco & Clair Clair, artiste di Atlanta che hanno ottenuto una fama mainstream grazie al boom su TikTok della loro canzone Pretty (non a livello di Joji, ma abbastanza). E se ti sembra di aver fatto un tuffo dentro l’algoritmo, aspetta di ascoltare questo progetto, molto intrigante e per nulla scontato. Il “demon glam rock” del duo - così definiscono il loro stile - poggia su ritmi spezzati, bassi ottusi e tastiere scordate. Ci sono influenze dream-pop, cloud-rap, house, lo-fi: serve una cartina per non perdersi, ma poi resti affascinato da pezzi come Pop 1, Lamb e la barcollante Bad Lil Vibe. A differenza di quello che abbiamo voluto vedere nei testi trap (la critica al capitalismo) qui davvero gli elenchi di key word del lusso, la sessualizzazione, la cultura pop esplodono nel totale non-sense (TBTF), ed è uno spasso vederle distruggere l’immaginario dell’ultimo decennio. Le loro melodie si muovono sopra un sospiro, perfettamente distaccate dall’inutile dramma adolescenziale che si consuma nella gran parte dei testi. Non saprei dire se sia atarassia o apatia: forse nulla di tutto ciò, perché alla fine dell’ascolto resta come un peso sull’anima.
MorMor, Semblance
MorMor, artista canadese di cui ti abbiamo consigliato un singolo a luglio, ha pubblicato il suo primo album, Semblance. Il disco ha una hit, evidente, Here It Goes Again: la metto in playlist, perché non sono un mostro, ma tutte le tracce sono deliziose. Alcune più indie rock (Don’t Cry); altre più R&B (Days End; Chasing Ghost); tutte con un’attenzione per i suoni speciale, che sia il timbro di una chitarra con il riverbero giusto per sembrare un pianoforte (Lifeless), un synth grasso alla James Blake (Crawl), o i ripetuti svirgoli space-rock che danno un forte connotato psichedelico e un mood rilassante alla malinconia. Non da etichettare, ma da assaporare.
Gli altri album, in breve
L’album sul quale sarò più sintetico è Come Around di Carla Dal Forno: non sono riuscito a capirlo del tutto, ma si è lasciato ascoltare. Magari ne riparliamo, ok?
C’è un nuovo album delle First Aid Kit: si intitola Palomino, come una razza di cavalli selvaggi che vive nella prateria americana. Ok, l’immagine è cringe, ma il disco gira bene quando i pezzi - perdonami - galoppano: ci puoi sentire Tom Petty e Fleetwood Mac (Out Of My Head); echi di Florence & The Machine (Angel). Quando il tempo rallenta, però, ci si annoia. Baro, mettendo una canzone uscita due settimane fa, A Feeling That Never Came, sia perché è un bel concetto, sia perché ha una chitarra alla Marc Bolan parecchio divertente.
Gli australiani Born Without Bones te li abbiamo consigliati in passato, e ora è uscito il loro album Dancer: quando parte la title-track per un attimo pensi di aver messo su per sbaglio Let’s Dance di David Bowie. Poi invece è un pezzo punk di quelli fatti bene, mica revival. E così tutto il disco, grosso modo, va avanti con canzoni che fanno piangere (Heart At Home), che fanno saltare sulla sedia (Fistful of Bees), o entrambe le cose: quando arriva Get Out e dice “Do you remember” ti ritrovi con il dito puntato al cielo, e non sai perché. Nulla di inventivo, ma nemmeno banale.
Spenderò poche parole su Alpha Zulu dei Phoenix perché non è sicuramente il loro lavoro migliore. Alcuni pezzi sembrano idee balzane che andavano stroncate sul nascere, come All Eyes On Me; altrove i testi già non sempre facili da districare di Thomas Mars si avventurano nel mistico (come nella title-track) con qualche inciampo. Però poi ci sono quei pezzi come Artefact, con la storia di uno che prova a tutti i costi a farsi amare, che mi ricordano perché gli voglio bene. Evviva la sfiga!
Più Phoenix dei Phoenix sono gli australiani Last Dinosaurs, che dopo aver dedicato una canzone a un viaggio in Italia, ora vanno in Centro America con From Mexico With Love: belle le vacanze, eh. Fa un po’ strano ascoltarlo a novembre, perché ci troverai pezzi per i pomeriggi alcolici (Hanson Ghost), i tramonti tramortiti (Look Back), momenti di lucida e divertita disperazione (Auto - Sabotage), grazie a una trama di bassi funk e disco in una cornice rock. Ti verrà voglia di mollare tutto e stare in infradito.
Un altro disco indie rock fatto a modino è No Drama dei neozelandesi Hans Pucket (restiamo in Oceania). La band ha prodotto le undici abbastanza variegate tracce con Jonathan Pearce delle Beths, che magari ti ricorderai perché hanno pubblicato un album clamoroso a settembre. Molto variegati e carini, sia quando pestano, sia quando imitano Elton John.
Sempre in ambito indie, segnalo due dischi più uniformi stilisticamente, ma per nulla noiosi. Il primo è A Swollen River, a Well Overflowing - cioè, “un fiume gonfio, un pozzo strabordante” - dei Tenci da Chicago, che è il classico disco folk alternativo un po’ quirky nel quale i momenti più onesti e poetici (qui ad esempio Be con il suo assolo di sax così fantasticamente fuori moda, o Sharp Wheel) tagliano come un foglio di carta tra le dita. Il secondo è This Is A Good Sign di Olivia Barton da Nashville, bel lavoretto indie folk di scrittura diaristica, psicanalitica, succinta (a differenza della mia descrizione) e molto autocritica: di base è il ritratto di una generazione senza tante prospettive - ma guarda un po’ - dipinto con gran talento melodico. Ti do un compito a casa: ascolta Florida Honey, mettici la produzione di Jack Antonoff, e dimmi se non senti Taylor Swift…
Segnalo Big Love Blanket degli olandesi Personal Trainer, il classico disco indie rock che ti tira su anche quando c’è poco da sorridere: praticamente è pop con le chitarre distorte. Ci sono pezzi più nebbiosi, come Texas in the Kitchen, e poi ci sono bop assoluti come Former Puppy, che ti sfido a skippare.
Questa settimana ti parlo di due dischi jazz, entrambi dal Regno Unito, ma diametralmente opposti. Da una parte il meditativo ma spigoloso Voices of Bishara di Tom Skinner, batterista degli Smile di Thom Yorke e già componente dei Sons Of Kemet: un disco da ascoltare con un amaro in mano e una copertina sopra le ginocchia - “bishara” è una parola araba e copta per indicare il Medio Oriente, che significa letteralmente “la buona novella”, ma io non ho trovato tanti indizi per giustificare il titolo. Dall’altra Where I’m Meant To Be degli Ezra Collective che è tutto un botta-e-risposta, groove funky con accenti ritmici da Afro Beat, linee di ottoni e voglia di alzarsi in piedi: questo è un disco da birretta, e contiene anche dei buoni featuring di Sampa The Great, Kojey Radical, Emeli Sandé e Nao.
Ma italiani ne abbiamo? E come no, abbiamo iniziato con i Coma_Cose e poi Deda… Ma a parte loro ci sono tre EP che valgono un ascolto: Genesi di Anna Bassy, in area nu-soul, dove la cantante italo-nigeriana di Verona tira fuori una voce molto promettente e soprattutto sceglie degli accompagnamenti un po’ storti e con una modica vagonata di basso; The Light di stampo dream-pop della genovese Charlie Risso, da lasciar andare e non considerare (che a volte non è un bene, eh); e Rinascimento di Johann Sebastian Punk (nome molto stupido, mi spiace, non faccio io le regole), che pesca guizzi glam rock di tutto rispetto. E poi segnalo un album, Impermeabile di Lumache Rosse: un disco che mi fa credere che il cantautorato pop italiano sia ancora in salute, quando non cade nei cliché. Perfino nel disco di Alex ho trovato due o tre pezzi pop convenzionali ma carini.
Una menzione negativa per Her Loss di Drake e 21 Savage, ma soprattutto di Drake che canta tre quarti dei versi, e in metà di questi accumula tutti i cliché sessisti, fa la figura del cretino con Serena Williams e Megan Thee Stallion (chiedi a Google). E in Circo Loco contribuisce alla storia delle cover-che-non-lo-sono con l’uso più pigro di un sample dei Daft Punk dai tempi di Stronger di Kanye.
Io continuo a non sapere nulla di elettronica, ma sono usciti dischi che mi sono piaciuti, come Ultra Truth di Daniel Avery, che è avventuroso e spesso sinistro. O Hello di µ-Ziq, che invece mi ha dato l’impressione di un disco dance che sa divertirsi senza fare scemate. O Fantasy di Romare, che fila dritto come un autobahn, sulla quale però si incontrano orchestrine jazz fantasma o un trovatore all’angolo di una strada (Walking in the Rain). Trovi tutta la musica “da ballare” in fondo, come da tradizione.
I singoli
Questa settimana è uscito un nuovo singolo dei Gorillaz, dall’album in arrivo a febbraio, e se continua così il disco promette di essere ai livelli di Plastic Beach, anche se onestamente non credo esistano dischi dei Gorillaz davvero brutti.
Come anticipato la scorsa settimana, sono tornati i BROCKHAMPTON: Big Pussy è cantata da Kevin Abstract, quello che potremmo definire il lìder del collettivo americano. Anche qui, la premessa è ottima, attendiamo l’album tra un paio di settimane. E a proposito di attesa, il 18 novembre uscirà SoftCORE di Fousheé - potresti averla sentita se avessi ascoltato l’ultimo disco di Steve Lacy, anziché fare repeat su Bad Habit - e lo anticipa questa canzone supernova che ha un super-basso e si muove in modo inquietante.
Un altro artista americano che seguiamo da sempre, Shamir, ha annunciato l’uscita di un’edizione arricchita del suo album Hope del 2017 e ha pubblicato una delle tracce inedite, Breathe, che è un piccolo capolavoro di vulnerabilità come tutte le tracce di questo artista troppo sottovalutato.
Due singoli per cui c’era molto (o molta? non l’abbiamo poi risolto questo dubbio) hype erano My Mind & Me di Selena Gomez e Normale di Giorgia. Il primo accompagna il documentario autobiografico della cantante, ed è una buona ballata pop che - a differenza di quella di Rihanna della scorsa settimana - sceglie di suonare familiare quando serve e di giocare con la progressione armonica e le dinamiche in altri casi, ma in generale non eccellente. Il secondo, che segnava il ritorno della Todrani dopo un po’ di assenza, è un compromesso tra il gusto R&B 80’s/90’s della cantante e le produzioni rappuse di oggi (senti i piattini), ma la parte migliore è sicuramente nei colpi di batteria e di synth pernacchioni del ritornello: sembra un pezzo di Mahmood (che è tra gli autori, peraltro), ma se devo fare una critica c’è qualcosa che non mi convince nel peso della voce di Giorgia in quel punto preciso, forse per l’effetto (un gated reverb? una scatolina?) o per il livello dei volumi. Peccato.
Peraltro, per giocare un po’ con voi, in playlist ho messo in fila Normale di Giorgia e non è normale di Rosa Chemical, che è un pezzo divertente, ma mai divertente come queste gag.
Un singolo italiano eccellente è CORRI degli Studio Murena. Spotify ha chiesto alla band jazz/hip-hop di curare la playlist Jazz Italia e se vuoi ascoltare qualcosa che non sia (solo!) la nostra New Music Louder, unisciti ai 19mila e passa che hanno salvato quella playlist, perché offre uno sguardo sul jazz italiano che non è solo quello dei soliti circoli vecchi. Il pezzo - prodotto dal solito eccellente Tommaso Colliva - ha un tiro pazzesco ed è avventuroso nei suoni: le canzoni funzionano quando sono prevedibili, dicevamo sopra, ma a volte funzionano anche provando a stupirti creano una suspense interna. Evviva.
In generale è stata una buona settimana per la musica italiana: Il demonio dei Management con Nicolò Carnesi e Cimini è un pezzo che gira bene, con un ritornello bello cantabile che dice “ho bisogno di urlare” rappresentando un sentimento condiviso; Futurama di Thoé mi è sembrato un ottimo singolo sulla scia di un pop contaminato con rap e R&B contemporaneo alla Mahmood; And I’m Gone è un altro bel singolo di Leon Seti, abbastanza tetro; Tutta l’acqua per gli alberi di La musica di FORTE (facciamo qualcosa per questi nomi d’arte? dai!), che parte dall’it-pop ma va in direzioni molto più weird e lo-fi; Il dono del nuovo progetto I Fiumi con Xabier Iriondo e Sarah Stride, che è un pezzo alt-rock non specialissimo, ma ha un bel ritornello. E poi due collaborazioni per i nostalgici dell’it-pop: i Kaufman con l’arietina Den; ESSEHO con Drast. Magari non la settimana con più hype, in Italia, ma più solida di tante altre cose strombazzate. Infine, last but not least, è uscito un nuovo singolo di Barriera che - full disclosure - conosco bene perché il primo anno di video interviste di Louder sono merito del suo talento di videomaker: Valerio è capace di vedere storie dove non sembrano esserci, e lo fa anche in questo pezzo dal titolo discutibile, NotificheSextingSEO.
Poi, momento per i vecchi come me: è uscito un singolo degli Yo La Tengo, si intitola Fallout e anticipa un album in uscita a febbraio, e loro sono dei patatoni dell’indie di una volta, quindi non si toccano. A proposito di vecchiezza e dolcezza Jeff Rosenstock e Laura Stevenson hanno pubblicato quattro cover di Neil Young, tre anni dopo l’ultima volta. Se per caso questa settimana avessi messo in playlist solo queste canzoni, non ci sarebbe stato nulla di sbagliato, perché dimostrano che si possono cambiare gli arrangiamenti, a patto di elevare i significati anziché nasconderli: ad esempio, Comes a Time, canzone sulla vertigine che si ha quando si cambia stile di vita, ha un arrangiamento… vertiginoso (cambi di ritmo, passo veloce che rende ancora più caracollanti le pause). Che bello quando suonano quelli bravi.
Qualcosa da leggere (e ascoltare)
Se sei una persona ossessionata dai meccanismi che stanno dietro alle cose (e se sai l’inglese), ti consiglio l’analisi di Bill Werde, ex editor di Billboard USA, che spiega come mai Taylor Swift ha ottenuto per prima nella storia la top 10 dei singoli in America, un record assoluto che riesce addirittura a superare i successi precedenti. C’entrano TikTok, il merchandising e altre trovate da vera Mastermind. Si legge qui.
Se invece sei una persona interessata alle storie che stanno dietro alle cose, ti consiglio il podcast Noi siamo i giovani di Giulia Cavaliere, che è una giornalista molto più brava di me a raccontare - appunto - storie. Il tema sono i giovani, questa misteriosa creatura che da almeno 60 anni sono al centro della musica. Ma chi sono i giovani? Sono sempre tali, o cambiano negli anni? Lo lascio spiegare a Giulia. Si ascolta qui.
Noi ci risentiamo la prossima settimana, ciao Louder.
PS - abbiamo fatto una playlist con il meglio di ottobre: si ascolta su Spotify e Apple Music.