Pioveranno venerdì S02E11: mangiare la musica
1-7 aprile: il cetriolino dei Wednesday, l'umami di Dente e altre metafore alimentari
Ciao Louder,
Anche questa settimana arriviamo all’ultimo, e per questa intro mi limito a presentarti le ragioni di un esperimento che ho deciso di provare. Qualche sera fa ascoltavo un episodio del podcast di argomento culinario Gastropod che parlava di come i ricercatori hanno lavorato per anni per determinare in modo universale e misurabile una delle parti più idiosincratiche dell’alimentazione: le consistenze.
Eppure ogni giorno un giornalista o un critico musicale lottano con l’impossibilità di descrivere in modo oggettivo le parti di un disco che una maggioranza di persone può ritenere interessanti (cioè, tendenzialmente, non gli attributi oggettivi in sé e per sé, tipo la strumentazione o l’armonia). Ci sforziamo, e ognuno di noi finisce per parlare come mangia: ogni metafora riflette qualcosa, ne sono certo, che si tratti delle abitudini di lettura o di qualcosa di più profondamente psicologico. Certo, se ancora oggi usi “apollineo” e “dionisiaco”, qualcosa non va: ma sicuramente ti intenderà chiunque abbia letto i saggi di Nietzsche. Verso la cucina e il cibo, due argomenti che - scusa il gioco di parole - mastico piuttosto bene, ho sempre notato una certa diffidenza: credo sia perché da un repertorio miserevole di “mescolare” e “alzare la temperatura” siamo passati alle buzz-word di Masterchef “mappazzone”, “impiattare” e altre cose senza particolare peso. Eppure tutti sappiamo cosa si intende quando si parla di gusti e tecniche: c’è dell’enorme potenziale comunicativo che viene sprecato. Quindi oggi proverò a descriverti gli album con qualche immagine alimentare, poi dimmi se ci sono riuscito.
A questo giro la newsletter parte senza podcast, perché c’è stata la Pasqua di mezzo e non mi sono potuto portare dietro il set-up. Ci risentiamo fra qualche giorno.
Tu intanto metti su la playlist (su Spotify e su AppleMusic) e noi cominciamo.
Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 49 album, 5 EP e 107 singoli
Wednesday, Rat Saw God
Ci sono dischi dei quali settimana dopo settimana (se segui con attenzione le mie playlist) ti suggerisco ogni benedetto singolo, e che poi arrivano spompati al fatidico venerdì della pubblicazione: le cose migliori, in quei casi, si sono già sentite. Non è il caso di Rat Saw God, il quarto album di inediti dei Wednesday, band del North Carolina che sempre più ha la forma della cosa più importante nel rock alternativo americano.
Ho cominciato a spingerti quest’album a settembre dell’anno scorso, quando uscì Bull Believer, 8 minuti devastanti che passano dai Sonic Youth a Mortal Kombat, dalla confessione alla violenza. Ho continuato quest’anno condividendo con te le altre canzoni arrivate (Chosen To Deserve in particolare te la devi segnare, perché ce la portiamo dietro fino a dicembre). Oggi Rat Saw God non ha perso energia. Anzi, ogni pezzo è irrinunciabile nell’economia narrativa di questo affresco gotico di un Sud lercio e grottesco.
Come siamo arrivati qui? I Wednesday sono una creazione di Karly Hartzman, che nel 2017 comincia a far musica all’università e man mano tira in mezzo gente, tra cui - a questo punto della faccenda - il chitarrista Jake Lenderman (il suo compagno), il batterista Alan Miller e Xandy Chelmis, che suona la steel guitar. Nel 2018 esce un album auto-pubblicato, a febbraio 2020 sono già sotto contratto e arriva I Was Trying To Describe You To Someone, ma avevamo quasi tutti la testa da altre parti, no? Lì dentro, comunque, ci sono un paio di pezzi come November, che odorano già di erba marcia e grandezza. Un anno e mezzo dopo arriva Twin Plagues e a quel punto il segreto è di pubblico dominio. Il segreto è che quando Hartzman scrive e canta, succede qualcosa di speciale: le storie che l’hanno traumatizzata fanno male anche a te; ma quando ti sottolinea un dettaglio divertente, sentirai allargarsi il tuo sorriso; la sua voce infallibilmente imprecisa (non stona una nota, ma ci arriva scivolando come nessun soprano sarebbe capace) restituisce i sentimenti che si provano davanti ai ricordi umilianti, se hai una vita emotiva anche solo paragonabile alla sua. E non ce l’hai. Pudore, affetto, ansia, nostalgia, terrore: c’è tutto quanto, nel tempo infinito che si prende per pronunciare le parole, spezzandole come se le fosse venuto un infarto a metà strada fra “piss colored bright” e “yellow Fanta” (Bath County).
E questi sentimenti non sono compressi, non c’è mai bisogno di scassinare il significato. Al contrario, vengono spalmati e piazzati strategicamente con le pinzette affinché tu possa sentire tutte le consistenze e i sapori del racconto che ti sta cantando. Se la sua scrittura è da romanzo, l’ambientazione è il piccolo mondo desolato di Asheville, NC, e dintorni. E anche qui, preparati a percepire tutto quello che ti viene descritto: prati spelacchiati su cui poggiano piscine gonfiabili; cavalcavia scalcinati; stazioni del gas, dove la TV non è mai spenta anche quando non c’è nessuno a guardarla. Quarry è talmente precisa nei dettagli da sembrare fiction, specificatamente del genere gotico americano. Ma questo paragone non deve farti perdere di vista la sintesi fulminante di certe sue introspezioni: “mi facevi sentire fluorescente”, diceva nella straordinaria Cody’s Only, due anni fa. Hartzman, insomma, ha il dono di farti sentire sulle spalle il peso di quanto ti sta raccontando, dal dettaglio più minuscolo di un uccello che entra in casa (Formula One) alla lista della spesa dei peccati di gioventù (Chosen To Deserve); da quello che osserva a quello che ricorda. Che sono poi la stessa cosa, quando il passato non smette di farsi sentire: “Nulla sarà mai intenso come il periodo più oscuro della mia vita” (What’s So Funny), dice non proprio con orgoglio, ma senza vergogna.
Cosa dicono le canzoni dei Wednesday l’ho spiegato. Come suonano, l’ho accennato: immagina una band country rock appena uscita da un corso intensivo di shoegaze. O viceversa. Potrei dirti i Sonic Youth che suonano il repertorio di Tom Petty, ma nel caso ti servisse una mappa per dipanare gusti e influenze, hanno pubblicato un album di cover, un anno fa. Le distorsioni delle chitarre sono aggressive, e la steel guitar ci si rotola dentro come niente fosse; le strutture delle canzoni sono asimmetriche, eppure piene di risoluzioni armoniche che danno gran soddisfazione, un po’ come i melismi di Hartzman sospesi in bilico per battute intere finché non fanno “cioc!” precisi sul bersaglio. Non mi stupisce che nel suo progetto solista (ma sempre con Katy), chiamato MJ Lenderman, Jake suoni Powderfinger di Neil Young e dei Crazy Horse. Le loro canzoni somigliano a treni merci che stridono sui binari alla partenza e battono sempre più forte; sono aspre, dolciastre, lontanamente marce come un cetriolo sottaceto. Rat Saw Good è un’illuminazione, una specie di visione di cosa il country non sarà mai ma potrebbe essere; la manifestazione di qualcosa che potrebbe diventare davvero gigante. E ora che pubblicano con la label di Phoebe Bridgers e Japanese Breakfast (la Dead Oceans) chissà che non se accorgano anche i più distratti. Post scriptum: se hai comprato l’abbonamento del Primavera Sound, vai a vedere i Wednesday.
Dente, Hotel Souvenir
Hotel Souvenir di Dente è un album sul tempo: come eravamo dieci anni fa e come siamo oggi; come conviviamo con le scelte fatte; come facciamo a scegliere tra muoverci e stare fermi. L’ottavo disco del cantautore emiliano dimostra anche il potere della canzone nell’imbrigliare tutto questo tempo, nel trovare sollievo dentro i suoi stessi paradossi: come il casaro che lascia “andare a male” il latte per avere formaggio (e le note umami di Hotel Souvenir sono parecchie). Così, sarò io ma dentro l’album ho sentito una sintesi della musica secondo Giuseppe Peveri: ci sono il sovvertimento del senso, l’umorismo deadpan, il calembour malinconico che hanno portato il suo nome alla ribalta quindici anni fa; ci sono le sperimentazioni con gli arrangiamenti cameristici, le strutture tronche, le scritture pop della seconda metà della sua carriera, aperta nel 2014 da Almanacco del giorno prima. I singoli promettevano molto bene. La vita fino a qui, con gli archi che completano il senso di una parola fulminea, sembrava chiudere un percorso lungo un ventennio. Allegria del tempo che passa è una ballad davvero italo brasiliana (con la complicità dei Selton), quasi transatlantica, e suona come quello che ti sta dicendo: fugace e cremosa. Il resto dell’album non tradisce queste premesse. Anzi, sono entusiasta di Presidente, dove l’ovvio e il paradosso si confondono finendo dirci qualcosa sulla felicità, perfino sull’essere politici, che tanta musica impegnata si sogna. Perché per aprire certe porte le spallate a volte non bastano, serve una chiave. Anche se sembra miserella, o troppo strana. Il registro diaristico non è nulla senza quello lirico/grottesco, e un souvenir deve ricordare (come il nome implica) non solo prendere la polvere. Lo so, sembrano discorsi serissimi: ma il disco è deliziosamente leggero, quando vuole. Tipo nella posse track indie Il mondo con gli occhi, dove Dente, Fulminacci, Giorgio Poi, Colapesce, VV, Ditonellapiaga, Dimartino si passano la palla di strofa in strofa, un po’ alla maniera delle cosiddette indianate. L’ennesima dimostrazione che certe volte rifiutarsi di trovare un senso è la cosa più sensata da fare.
Daughter, Stereo Mind Game
Dopo un po’ di anni dedicati alla carriera solista come Ex:Re, la londinese (ma un po’ italiana, un po’ irlandese) Elena Tonra ha ripreso in mano il progetto Daughter che si era sentito per l’ultima volta nel 2017 con la colonna sonora del videogioco Life Is Strange: Before The Storm (che se vuoi puoi guardare qui come fosse una serie, nel caso ti avanzino otto ore e mezza). Se si vuole capire Stereo Mind Game, l’album uscito venerdì 7 aprile, però, è più utile paragonarlo alle uscite della prima metà degli anni Dieci, quando l’indie folk minimale e melodrammatico del trio era di culto presso una generazione già incompresa, ma che usava Tumblr al posto della terapia (o di TikTok). In questo contesto, l’ultimo lavoro dei Daughter può sembrare un raggio di sole: le canzoni ruotano intorno al desiderio di stare meglio; la tensione è rivolta al positivo. Si parla di relazioni, e le cose non vanno sempre per il verso giusto, ma non si sente mai la soffocante stasi di una Smother; né la funerea rassegnazione di Candles. Canzoni come Be On Your Way arrivano dopo che gli errori sono stati riparati, diremmo “fuori scena” se fossimo a teatro: assistiamo a cosa succede dopo che i partner tossici sono stati scartati. C’è una redenzione perfino nella codipendenza di Dandelion, brano in cui la voce narrante si presenta ansiosa di contattare l’altra persona con una visita notturna o un messaggio, pur consapevole del male che questo porterà: e la redenzione è che alla fine la protagonista si contiene, non si lascia dominare dall’impulso. Insomma in questo disco c’è una maturità che mancava nei lavori precedenti, riflessa da un suono che lascia il palato più asciutto, come un vino rosso che apprezzerai con gli anni. E solo qualche volta cala l’intensità: le emozioni sono tante, e appunto la tensione al ricongiungimento (Swim Back, Isolation, Wish I Could Cross The Sea) segna una direzione precisa di questo movimento, non solo interiore. Perché, al giorno d’oggi, alla nostra età, chi può permettersi l’eroismo tragico di una Youth?
Yaeji, With A Hammer
Il primo album della producer e cantante coreano-americana Kathy Yaeji Lee è l’ennesima testimonianza di come l’elettronica stia ancora guidando l’evoluzione dei linguaggi pop. Nel caso di Yaeji, stiamo parlando di house minimale e chillstep, un genere che circoscrive quella musica che usa espedienti atmosferici e ritmici per dare una inquieta e tutto sommato falsa sensazione di pace. “Inquieta e tutto sommato falsa sensazione di pace” è anche una buona descrizione della musica di questo album, With A Hammer, nel quale Yaeji ci parla della maschera che bisogna indossare per staccare un attimo dalla verità, ma anche dalla falsità. Ok, sto parafrasando la title-track, ma non è colpa mia se questa sensazione di assedio e contrattacco si sente in tutto il disco: è una quotidiana guerra con la razionalità (e l’irrazionalità), e Yaeji la combatte con tutte le armi a disposizione del proprio arsenale. Non solo l’eponimo martellone, che oramai è una sorta di topos nell’immaginario manga e anime, un accessorio che mette la musicista nella stessa categoria di personaggi come Kuzuha Doumoto che lo usano per sfogare la propria rabbia o trasmettere il proprio potere - dobbiamo stupirci del fatto che esista un booklet di 111 pagine contenenti un fumetto, per accompagnare With A Hammer? Le armi musicali in dotazione sono: hip-hop lo-fi (Fever); drum’n’bass sottovoce (Ready Or Not; Happy); trip-hop (Passed Me By); jazz elettronico (il flautino di Submerge FM; un po’ tutta I’ll Remember For Me). L’aggettivo “mutante” che si applica spesso a questo tipo di pop di alta classe sembra buttato lì tanto per fare: allora userò altri aggettivi, dirò che è una musica trattata con cottura confit, che la rende morbida e succosa anche se immersa in un liquido rovente più pericoloso dell’acqua bollente. Non saprei dire se sia il futuro, ma di sicuro è un presente altro, che sa di qualcosa che non siamo troppo abituati a masticare.
Blondshell, Blondshell
Forse avrai capito che adoro le coincidenze stupidine, dalle quali secondo me esplode comunque una briciola di significato. Eccone una. L’album eponimo della musicista americana Blondshell si apre con la traccia Veronica Mars, fotografia polverosa di un istante di caos, vizio, disagio di 19 anni fa (quando immagino che l’artista, all’anagrafe Sabrina Teitelbaum, fosse parecchio adolescente). Anche l’album con il quale ho aperto l’episodio di oggi, Rat Saw God, è legato a “Veronica Mars”, dato che il titolo è preso di peso da una puntata della seconda stagione della serie TV. E anche, se con approcci molto diversi, Blondshell e i Wednesday fanno un lavoro simile sui ricordi: li trattano come traumi da scoperchiare e lasciare all’aria aperta, certamente, ma rappresentano anche esperienze universali, gli affreschi di una giovinezza disordinata nella quale è facile identificarsi, a vari gradi d’intensità. Come se ci fosse del politico anche nel dannatamente personale. Nel caso di Blondhsell l’intimità svelata è un percorso di riabilitazione dall’abuso di sostanze, con annessa e obbligatoria rivisitazione dei danni che si sono fatti prima della sobrietà: e così sentiamo una serie di tradimenti, incazzature, delusioni che trovano la protagonista da entrambi i lati della barra degli imputati, che si prende addosso tutto il disappunto di amici, familiari, psicologi. Trovo più incisivo il rock sghembo dei Wednesday, ma anche qui nelle produzioni di Yves Rothman (Yves Tumor, Girlpool, Aly & AJ) e nelle scritture di Teitelbaum c’è qualcosa di estremamente gustoso, nel senso di gusti estremi, piccante e affumicato: senti la cadenza ciondolante di Olympus, le chitarre nel post-chorus di Kiss City, l’ostinato di piano su Salad che ne sancisce il crescendo sul ritornello. Tutto funziona per farti percepire l’urgenza di questi sfoghi: perché non c’è solo una persona disperata che ti sta urlando in faccia, ma perché le stanno crollando le pareti tutto intorno.
Gli altri album, in breve
Dal momento che mi dilungo sempre troppo da questa settimana sarò davvero parco di parole per gli altri album che ho ascoltato e che mi sembra giusto segnalarti.
Cominciamo con Warm Blanket quarto album delle Worriers (bellissimo nome, “le sbattagliere”), cioè della musicista e illustratrice Lauren Denitzio. Catastrofi imminenti (Doom Scrolling); fidanzati inquietanti (Creep); polline che rovina l’atmosfera (Pollen In The Air): la situazione è grave ma non seria. Chiaramente c’è del sarcasmo in questa malinconia, ma mai ironia: è come il retrogusto piacevole che attacca le papille dopo aver assaggiato qualcosa di molto amaro, ed è il sapore anche del rock stralunato delle Worriers.
Disco delicato, ruvido e molto più serio, come un grissino verde all’alga spirulina, è The Window Is The Dream di Jana Horn. Ho messo in playlist una canzone che ti fa rallentare il battito cardiaco ogni volta che il beat sembra fermarsi, Days Go By, una rappresentazione perfetta di come il tempo vada per conto proprio mentre la nostra impressione di esso oscilla. Che poi, questa distanza tra realtà e percezione, è il filo conduttore dell’album, che ti consiglio se stai ripassando il mito della caverna di Platone.
Non saprei dire molto di No Highs di Tim Hecker, l’ambient elettronica non è il mio pane quotidiano. Posso dirti che ti sconsiglio l’album se in questo genere cerchi relax (per quello esiste il canale YouTube della lo-fi girl, alla quale peraltro - notizia - si è aggiunto un lo-fi boy synthwave da pochi giorni). Se invece vuoi sentirti sottilmente irrequieto, come chi rimane troppo tempo zitto da solo con i propri pensieri (e senza internet), Tim Hecker fa per te: no davvero, il concept di questo disco è “nessun escapismo, senti tutta l’ansia e il panico del mondo”. Una sensazione più piacevole può arrivare dal fatto che le composizioni e le produzioni lasciano da parte le sperimentazioni sulla classica giapponese degli ultimi anni, e tornano a forme più familiari: non è esattamente un ritorno indietro, ma sicuramente si ha la sensazione di qualcosa di già assaggiato una dozzina di anni fa. In playlist ho inserito la versione di Monotony (traccia di apertura) con il sax e il clarinetto infiniti di Colin Stetson, ma ci sono molte occasioni per prendersi male con stile facendosi portar via dagli arpeggi circolari dei synth (Anxiety). Peraltro Tim Hecker suonerà a Udine il 24 aprile, se vuoi angosciarti dal vivo.
Non mi è piaciuto molto il disco di Nitro, Outsider: sicuramente ha una marcia in più rispetto a tanti colleghi (belli i beat della title track e di Paranoia), e poi come si fa non provare un sottile piacere nell’ascoltare le tirate anti-mainstream e anti-capitalistiche di un artista che a tutti gli effetti sta con entrambi i piedi nel mainstream e nel sistema capitalistico (per me “outsider” è Daniel Johnston, ma a ciascuno il suo). Io non ho nulla contro questo simpatico girotondo delle contraddizioni: piaccia o no, questa contraddizione è parte del fascino della cultura hip-hop, è come entrare in un Autogrill e leggere i loro slogan sul cibo tradizionale. Ma poi finiamo tutti giù per terra quando si parla “cancel culture”, quella specie di clickbait usato a sproposito ormai da un rapper su tre: viene citata nel pezzo in featuring con Ernia In Heaven, e la sua comparsa in questo disco è quanto mai ironica, visto che se c’è un argomento da “insider”, cioè proprio da “1%” che sente minacciato il proprio privilegio, è per l’appunto la convinzione che ci sia un complotto delle lobby “woke” per cancellare le parti “brutte” della storia e della cultura. Peccato.
Molto meglio, restando in Italia, Città dall’alto di Alice del giro thru collected. Non c’è nulla di rivoluzionario nell’usare arpeggi minori di chitarra elettrica, e senza dubbio la circolarità armonica dei brani farà dire a qualche purista della composizione che i ragazzi di oggi non riescono più a prestare attenzione allo sviluppo delle canzoni. Ma lo sviluppo narrativo qui c’è tutto, ma non lo devi trovare nelle progressioni di accordi: sta nelle diverse consistenze che assume il solito piccolo giro sopra il quale Alice canta le sue impressioni quotidiane. Tutto si svolge in una stanza, o almeno così sembra, ma vista dall’alto anche una cameretta sembra uno spazio urbano; o viceversa, una città dall’alto sembra uno spazio domestico. C’è questa distanza tra l’Alice che canta e l’Alice che vive le storie cantate, come un’esperienza extracorporea. E nel frattempo passi dal croccante al gelatinoso, dal liquido al secco. Oggi la musica è più sound design che composizione, si sa. Ma se è fatta così, è eccellente.
A proposito di musica italiana, Pablo America ha pubblicato due nuove canzoni, le ha messe insieme alle altre, e ha chiamato il tutto San Michele: messe tutte in fila sono una prova interessante di cantautorato molecolare, fatto degli ingredienti che conosciamo bene ma sottoposti a lavorazioni che fanno sembrare le canzoni qualcosa di assurdo. Poi alla fine, invece, sanno proprio di quello che ti aspettavi.
Qualche altro disco al volo, sempre con paragoni alimentari:
Drop Cherries di Billie Marten è sapido e balsamico come una tisana indie folk di montagna, e come tale è programmata per idratarti e rinfrancarti;
Still Life In Decay dei FACS è un disco post-punk amaro come una salamoia industriale;
Plastic Eternity dei Mudhoney è grunge vegetale, con un retrogusto psichedelico;
Never Enough di Daniel Caesar è una scatola di cioccolatini R&B, di quelli con strani colori e sapori, magari con il sale di Maldon: nuovo ma solo esteriormente.
I singoli
E quindi, andiamo ancora più rapidi sui singoli. Prima che la playlist cambi, ti consiglio di dare un ascolto a:
Whenever I Want di Mura Masa
We The Female! delle CHAI
NERO dei Godflesh (già, un pezzo metal, e ne vale la pena)
Guilty di Louise Post (delle Veruca Salt)
Sin di Isah P. (nomi inglesi ma progetto italiano, bella groova)
Federe di WISM, che come sai se ci segui teniamo d’occhio da un po’
DAYS GO BY di SBTRKT con Toro Y Moi (che è la seconda traccia con questo titolo in playlist
Che ne dici di queste metafore alimentari: ti hanno saziato? Ci hai capito qualcosa? Ne riparliamo.
Ciao Louder.