Pioveranno venerdì S02E13: un altro mondo è desiderabile
15-21 aprile: gente che torna, gente che racconta, gente che sogna
Ciao Louder,
Anche a questo giro arriviamo tardissimo, e per questo l’episodio esce senza podcast. Buona lettura della buonanotte, insomma. E senza altri preamboli, ti metto qui la playlist della settimana (scorsa).
La trovi su Spotify e su AppleMusic, e ora parliamo di cosa c’è dentro.
Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 33 album, 9 EP e 108 singoli
Everything But The Girl, Fuse
Non c’è dubbio che i più grandi artisti riescano a creare musica sempre riconoscibile a dispetto dei cambiamenti che l’attraversano: Fuse suonerebbe come un album degli EBTG a chiunque, e prima di tutto per la cappa di malinconia che copre ogni parola pronunciata da Tracey Thorn e ogni arpeggio programmato o accordo posato da Ben Watt. Sono passati 24 anni dall’ultimo album del duo, Temperamental, un disco che se non stilisticamente almeno filosoficamente li posizionava esattamente dove si trovano ancora, su quello scaffale alto nel quale si conservano le ballad elegiache musicate per il dancefloor. I riferimenti produttivi di Fuse, però, sono contemporanei, con un uso di auto-sampling e suoni di batterie che in tutt’altro contesto ci risulterebbero familiari, come se prima di iniziare Watt avesse aggiornato le sue workstation. Fortunatamente, nessuna canzone vuole assomigliare ad altro, se non alla storia che sta accompagnando. Certo, puoi sentire il modo di variare le dinamiche dal volume basso all’alto di un Four Tet nella splendida opener Nothing Left To Lose, ma non ci sono ispirazioni (anche se Four Tet ha realizzato un ottimo EP di remix del brano, che ti consigliammo già all’epoca); oppure puoi sentire certi tocchi di alterazione vocale (in Run a Red Light o in When You Mess Up), ma non è mai la copertina di Linus dei colleghi più giovani: semplicemente Watt e Thorn sono rimasti al passo con i tempi, e non suonano l’elettronica dei nostri nonni; ma più che altro - restando su nostri esempi - da una parte è la spinta e l’elevazione delle liriche da ultima spiaggia a ordinare al beat di salire e scendere; dall’altra è la vulnerabilità descritta a suggerire di inserire una voce “altra”, affinché la confessione non diventi puro narcisismo.
Di cosa parla Fuse è una domanda che si dovrebbe necessariamente frammentare in 10 spiegazioni, una per brano. Tipo, Karaoke è una summa delle ragioni per cui si canta e per cui ci si abbandona allo sguardo (e all’orecchio) altrui, che finisce per valutare il senso stesso della musica degli EBTG (“Do you sing to heal the broken hearted? Or do you sing to get the party started?”, entrambi risponde Tracey). Oppure, No One Knows We’re Dancing, con questo ritratto globale di persone felicemente intrappolate in un club in orari oltraggiosi, ciascuno una perfetta e isolata unità ma spinte a provare qualcosa di collettivo, sa tanto di riflesso del lockdown, come fosse uno sfogo implicito. Un senso pandemico c’è anche in Lost, ballata arpeggiata con spirito funereo e teatrale che effettivamente Ben Watt ha abbozzato nel mezzo del lockdown - come ha spiegato Tracey Thorn - inserendo nella barra di ricerca di Google la frase “I lost” e accumulando i suggerimenti a mo’ di versi: una specie di canzone in anafora scritta dall’intelligenza artificiale, potremmo dire, se non fosse che la casualità della successione di “perdite” affonda negli abissi quando arriva “I lost my mother” e l’atmosfera surreale e un po’ giocosa si fa pesante: io ci ho sentito Stephen Sondheim (la leggenda del musical americano), nel modo in cui una piccola molecola di senso si concatena alle sue simili elegantemente, finché non rimani intrappolato in una tela di (com)passione.
Insomma, Fuse è il classico album da riascoltare per goderne la ricchezza condensata in pochi minuti: per questo metto due tracce in playlist (le regole le faccio io). Non è, invece, il classico album del comeback con annesse sponsorizzazioni di brand, tour infiniti, collaborazioni prestigiose. Anche in questo senso, non è al 100% contemporaneo. Ma di ciò rendiamo grazie agli EBTG.
LOVEGANG126, CRISTI E DIAVOLI
Definire CRISTI E DIAVOLI come un atto d’amore è tanto banale quanto vero. Gli artisti romani che si riconoscono nella cifra 126 (la storia la sai già, no, dei gradini etc etc) posano sul tavolo tutte le carte dell’immaginario, come una partita di briscola dove ogni giocatore ha in mano un carico e due briscole. Ciascuno dei partecipanti - Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Asp126, Ugo Borghetti, Drone126 e Nino Brown - ci mette del suo e non si tira indietro. Intendo dire che, nessuno dei nomi citati si limita al proverbiale compitino: lo storytelling (chiedo scusa) è fresco e non si appoggia ai cliché che dominano la scena rap italiana. Certo, le storie di giri in motorino e bevute al bar Calisto e scritte sui muri sono familiari: e ci credo, negli ultimi cinque-dieci anni pochissimi movimenti musicali popolari italiani hanno avuto lo stesso impatto sonoro e lirico di quel che è uscito da Roma, con Polaroid come epifania di qualcosa di più largo e vasto, che si collega a un passato ricco ma guarda al presente con la voglia di mangiarselo. E soprattutto, finita una storia ti viene voglia di ascoltarne un’altra. Non so se ti è mai capitato di passare qualche ora con una persona che hai appena incontrato in un locale, e ti ritrovi in un’avventura felliniana a partecipare per un po’ della vita di uno sconosciuto: ecco, questo album gira così.
Negli ultimi anni ci siamo occupati troppo spesso dell’identificazione: la tua musica mi piace perché mi ci rispecchio, hanno ripetuto fan e critici. Non è andata così solo nella musica: voto questo partito perché mi rivedo nel suo leader; seguo questo influencer perché vorrei essere come lui. Il messaggio di fondo è che il protagonista è sempre lo stesso: io, io, fortissimamente io. Ha senso: ci sentiamo sempre meno in controllo, nonostante l’abbondanza di strumenti che abbiamo in mano. Ma non c’è nulla di male di per sé nell’identificazione, però credo che debba essere guadagnata, che non debba essere solo questione di immagine e provenienza. Per spiegarlo faccio un esempio dalla mia precedente vita di classicista, e mi scuso: quando l’auditorio di un aedo ascoltava le imprese di Aiace, Odisseo e Achille non si immedesimava in quelle storie perché anch’esso quotidianamente invadeva le coste dell’Anatolia, ma per come i personaggi si comportavano mentre svolgevano le loro gesta epiche, per la loro umanità e per l’adesione - condivisa - a certi valori; potremmo dire che l’identificazione era tra le righe. In CRISTI E DIAVOLI è uguale: non è necessario aver avuto un amico spaccino o essere finiti in pretura per sentirsi dentro queste avventure, perché basta sentirsi compartecipi dell’orgoglio e del pentimento, della nostalgia e dell’amicizia, della passione e della disillusione che i personaggi esprimono in ogni verso. CRISTI E DIAVOLI è un’epica di una Roma che tutti possono vivere, ma nessuno può visitare.
“In questo mondo triste che ci vuole soli” (cit. di Giorni migliori) c’è un bisogno disperato di stare insieme. La LOVEGANG126 è una famiglia allargata che oltre ai nomi già citati invita gli artisti featuring, ma pure noi ascoltatori. Noi siamo Branca, Danno, Gel, Gemello, Gemitaiz, Gianni Bismark, Lil Kvneki, Mystic One, Security, Side Baby, Sosa Priority e Tiromancino, anche se non sapremmo scrivere un verso per sbaglio, anche se non sappiamo nulla di Roma. “Roma è casa nostra”, dice con orgoglio Franco126 in Fataccio, e questo è un modo per abbracciare stretta la tradizione che viene omaggiata in quella specie di puzzle di citazioni che è Cattive Abitudini, dove le voci campionate di Noyz Narcos, Chicoria, Primo Brown, Gemello e così via sono spiriti che infestano le strade di una città che è il contrario dell’immagine turistica venduta agli stranieri. “Roma è casa nostra” perché, pur nella sua ferocia, è un luogo che dà conforto, che si abita e che quindi abita i suoi ospiti. Perfino chi è forestiero, come me, entra in punta di piedi ma dopo pochi minuti si sente già parte della famiglia, già seduto al tavolo della briscola. Perché ci sarà sempre una storia da condividere con qualcuno, un punto in comune da trovare anche tra le mille differenze: forse non hai perso lo stesso amico di cui si parla in Tinta unita, ma senz’altro hai perso qualcuno. E sapere che qualcuno si sta sentendo come te, questa è la forma di identificazione più potente.
Sono mesi che metto in playlist brani di questo album (Classico, che trovi nell’Archivio 2022, è la mia preferita personalmente). E il merito è anche dei beat davvero solidissimi di cui non ho avuto tempo di parlare - ma giù il cappello ai non già citati come Wism o Il Tre (non quello delle farfalle), per come mescolano soul sincopato boom-bap, cori spettrali alla Alessandroni/Morricone (Morto in foce), jazz fumoso e musica leggera anni ‘70. Ma per la convergenza di storia, sentimento e suono scelgo proprio la traccia finale, Tinta unita. Tu fai il favore di sentire tutto, perché ne vale la pena.
Lucio Corsi, La gente che sogna
Il glam rock non è mai stato solo una questione di indossare abiti sgargianti e suonare canzoni sopra le righe, per il gusto di farlo. La depressione personale e sociale, il conformismo culturale, sono state le spinte che hanno fatto piovere glitter sul Regno Unito negli anni Settanta, durante il decennio nero del governo laburista che avrebbe regalato alla storia (direttamente o meno) Margaret Thatcher e il punk. Oggi le premesse ti sembrano molto diverse? Le prospettive future non solo sono nere, ma con una perfida ironia della sorte vista la ricchezza e l’abbondanza di strumenti virtualmente a disposizione. E il conformismo, se non è più un pensiero unico, si manifesta in una costellazione di mondi dettati da regole tanto rigorose quanto arbitrarie, a maggior ragione perché plurali. Bene, in un contesto del genere, con la guerra alle porte, i violenti al potere e le speranze sbriciolate, perché il glam rock non dovrebbe essere una soluzione? E del resto, è Lucio Corsi che inizia il suo terzo album, La gente che sogna, con un “mayday”. Il pericolo è imminente, è ovunque: “la verità mette spavento” (Glam party), la casa è l’unico spazio minuscolo nel quale ci si protegge dalla paura, ma a costo di essere tristi (Orme). Quindi, cosa si fa? La più classica delle fughe dalla realtà - si direbbe - alla ricerca di “un altro mondo”, quello senza difetti dove gli umani sono gli unici assenti (Astronave Giradisco): attenzione, gli “unici assenti”, perché il problema siamo solo noi. Ma allora - direbbe un sofista - come si può raggiungere questa dimensione altra se non violando il principio di non contraddizione? Beh, per prima cosa, mio caro sofista, il paradosso e la contraddizione sono i poteri speciali di qualsiasi eroe glam; e in secondo luogo, smettendo di essere umani. Tutto molto carino, però le formule magiche e i bestiari sono ricordi del passato, le scorciatoie dei primi due dischi. Ormai che siamo cresciuti, quel che faremo è sognare. Cioè, cambiare lo stato di coscienza del nostro medesimo corpo, per trovare altri mondi possibili, e una volta incontrato l’incubo potremo tornare più forti e consapevoli che mai. Dentro questo nuovo progetto, la trasformazione non è solo il rito di passaggio necessario per ogni avventura glam, la vestizione di un supereroe (o un cavaliere, o un astronauta): è un processo interiore che investe in modo piuttosto evidente anche la realtà che abitiamo, quella della veglia. Lucio Corsi mi sembra incredibilmente solido nelle sue intenzioni, e per questo sfodera tutte le armi: il ritornello di Radio MayDay - che più di un chorus sarebbe definibile come un break (semi)strumentale - che profuma di Young Americans; i guizzi di chitarra alla Marc Bolan in Magia nera; la marcia di accordi alla Yellow Brick Road della title-track; e ovviamente tantissimo Ivan Graziani dei Lupi, perché la voce deve penetrare più che mai nel cervello, e nel foro che lascia deve depositare un dubbio: ma non saranno migliori le canzoni che mentono? E allora più che una fuga è l’inizio di una battaglia: se le orme sulla tua pelle non sbiadiranno mai, allora non bisogna nascondersi nel sogno, ma indossarlo come un’armatura. I sognatori sono i rivoluzionari che vogliono cambiare la loro vita, e questo ottimo album è la loro celebrazione un attimo prima che le cose comincino a precipitare.
Gli altri album, in breve
Forse non lo sai, ma questa newsletter prende il nome da un verso di una canzone di Quella te di Gazzelle. Per questo sono obbligato contrattualmente (non è vero) a parlare di tutto quello che Flavio scrive, fa, produce, inventa. Scherzi a parte, sono convinto che Gazzelle non è solo il sopravvissuto più illustre di un’epoca del pop italiano che non si ripeterà più: è un autore che nella sua nicchia di narratore delle prese male riesce sempre a trovare spunti. Quello che qui e là ha perso, però, è stata una certa sporcizia e irruenza, la capacità di far barcollare questi quadratini perfetti di melodie gallagheriane. La prima parte di DENTRO, il nuovo album che uscirà per intero il 19 maggio, cerca nuovi modi di sbullonare questa scrittura così classica: ci prova con produzioni che hanno sapore di trance-rock anni ‘90, con grandi synth-pad surreali che scivolano sotto le chitarre acustiche (IDEM; È andata come è andata), con voci filtrate in modi fané (Qualcosa che non va che contiene anche lo splendido verso “la mia faccia piena di mannaggia”). Brani come Non lo dire a nessuno cercano di non ridurre tutto necessariamente a storie di relazioni andate male, e forse sarà questa la scommessa: può Gazzelle piacere anche a chi non vuole necessariamente sentire qualcosa in cui rispecchiare le sue sfighe amorose? Staremo a vedere. Intanto, il disco ha gli obbligatori featuring: in attesa spasmodica di quello con Noyz Narcos, la canzone con thasup non è niente male, ma non è la mia preferita - quindi sarà una hit di enorme successo. Molto meglio per me il featuring con Fulminacci, che ha una voce che è praticamente l’opposto di quella di Gazzelle (un Technicolor versus un bianco e nero): eppure questo groove vagamente soul si sposa bene con entrambi gli stili. La produzione qui e là (tipo nelle strumentali che tagliano all’improvviso per far sentire bene la punchline) ha qualcosa di Pinguini Tattici Nucleari che non mi fa impazzire, ma questo è il pop italiano di oggi e noi dobbiamo starci.
Da quando a metà marzo è uscita quella perla di pop chitarristico intitolata Overrater ti ho consigliato di prestare attenzione a superviolet, il nuovo progetto di Steve Ciolek, già noto come frontman della band Sidekicks, fenomeno certamente di culto e underground del rock indipendente degli anni Zero. L’album che quel singolo anticipava, Infinite Spring, inizia proprio con quel genere di cavalcate che due decenni fa ci facevano immaginare le sorti titaniche della musica che spopolava nei blog (e forse pure noi che nei blog ci scrivevamo): Angels on the Ground, però, è solo parte di quello che Ciolek ha deciso di fare, ora che si è scrollato di dosso il nome dei Sidekicks. Ad esempio, usare tantissime chitarre acustiche: le senti pettinate con vigore in Blue Bower, che ricorda il lato gommoso e acido degli anni ‘60, e le senti arpeggiate classicamente in Big Songbirds Don’t Cry, che per qualche secondo sembra una cover di Dear Prudence, il lato seppia e ansioso dei medesimi anni ‘60. Il disco riesce a non tradire l’ethos musicale di chi è cresciuto con il punk, ma dimostra la maturità di chi ha imparato che arrangiare le canzoni non è sempre un peccato: anzi, vista la bontà delle melodie e delle liriche, questa cura alla fine paga, perché dimostrano quelle infinite possibilità che solo un’eterna primavera potrebbe promettere (da qui il “concept”, esposto in modo piuttosto esplicito peraltro nella title-track). In realtà la primavera, in quanto stagione che ci invita a godere smisuratamente dell’effimero, è infinita per definizione: lo dicono implicitamente anche i testi di Ciolek, specialmente quando descrivono l’amore adulto come esperienza di cui si può apprezzare sia la solidità, sia la caducità - Good Ghost, dedicata alla propria metà quando un giorno diventerà un fantasma, è la chicca di questa narrazione. Perché quando quella cosa che ti colpisce come fosse caduta giù dal cielo diventa anche una scelta consapevole, allora si ottiene (per sé e per l’altra persona) un’onestà mai provata prima. Ecco, questo è il disco più onesto della settimana, senza dubbio.
Anche Star Eaters Delight è un album di cui ti ho consigliato alcune canzoni nelle scorse settimane. Lael Neale è una discepola di Jane Birkin e Marianne Faithfull, una Patti Smith sbucata pochi anni fa dalla Virginia rurale con l’idea di fare un folk a sua immagine e somiglianza. Il che significa che dentro queste tracce, che spesso e volentieri si fanno bastare la sua voce pastello e una chitarra grattugiata, ci sono componenti inusuali. Qualche esempio: No Holds Barred ha un riff rock’n’roll che è talmente scarnificato e buttato in una caverna da mutare completamente faccia; Return To Me Now è ciò che avrebbero suonato i Doors se fossero stati una band shoegaze (ma sempre con Manzarek all’organetto); I Am The River è una carinissima carola (post)punk con drum machine giocattolo e un paraparapà che ben corrisponde al tono semiserio generale - se ti ricorda uno storico sketch cantato di Saturday Night Live (cantato anche da Julian Casablancas), saremo amici per sempre. Tutto molto grazioso, non so se sarà la salvezza del folk ma potrebbe salvarti da 35 minuti di noia.
Non è che posso sempre stare qui a darmi le pacche sulle spalle, ma anche di Erotic Probiotic 2, album di Marcus Brown aka Nourished By Time ti ho consigliato diverse tracce nelle scorse settimane. Ora che l’album è arrivato, posso dirti che è un disco fresco come un pomeriggio di aprile, quando per la prima volta ti fai domande sull’innamoramento. Che è poi il tema delle canzoni che Brown ha registrato e prodotto nello scantinato dei suoi, a Baltimora. La vulnerabilità che provi quando la tua vita fa un passo indietro e, appunto, devi tornare a vivere dai tuoi è il mood di tutto l’album, che regredisce anche nel cercare un modo per incastrare il soul dentro un synth-pop che non avrebbe sfigurato nel 1985. In playlist inserisco Shed That Fear che dondola sopra tastiere che sembrano uscita da Twin Peaks.
Non credere a nessuno dei Sick Tamburo è una celebrazione delle ragioni che troviamo per andare avanti. Difficile leggere ciò che scrive Gian Maria Accusani in un’ottica diversa dalla prematura scomparsa di Elisabetta Imelio, metà della musica e della vita di GM. I singoli usciti, in particolare Per sempre con me, avevano fatto presagire la necessità di prepararsi i fazzoletti, ma il disco è - chiedo scusa per la parola - resiliente: cioè, c’è tanto dolore, ma “mai per caso” per citare Fino a farcela. Nella sua semplice analogia, La stanza che resta è una metafora toccante e profondissima dell’esistenza, questa “stanza” nella quale entriamo a nostra insaputa e da cui poi necessariamente usciremo, uno spazio che abitiamo con persone con ci scegliamo e persone che no, che qualcuno abbellisce e qualcuno sporca, e nel quale troviamo le anime che speriamo di incontrare una volta anche fuori da lì. Il mio unico nemico è una riflessione malinconica sul cinismo interiorizzato che ci porta a trovare differenze, litigare, fare guerre, e che perciò si può applicare dalla vita reale a quella digitale, passando per i conflitti armati - “ma il nemico sono io” è l’unica conclusione possibile. In playlist metto Piove ancora, che ritengo un po’ il cuore di questo album, sulla forza che ci si dà a vicenda quando la vita ci prende a bastonate.
Safe To Run di Esther Rose è un album di folk contemporaneo immacolato, impolverato di sabbia dal deserto del New Mexico e umido di Bourbon Street: tutti i personaggi raccontati dalla cantautrice della Louisiana (compresa sé stessa, protagonista in tracce come New Magic II) sono costantemente in fuga da qualcosa e in cerca di un sogno o anche solo di un po’ di pace. Come concept è piuttosto semplice, ma - come abbiamo detto per Lucio Corsi - ci deve essere qualcosa di particolarmente storto nel nostro mondo, se tanta musica (pop o meno) continua a parlare di come andarsene. Quasi tutto il disco si regge sulla solita architettura chitarra-e-voce, ma anche dove partecipa una drum machine o una band (tipo Levee Song, forse la più corale) i riflettori sono sempre al centro. Tranne in Full Value, una canzone che sul finale si disgrega in una specie di folata post-rock, dimostrando quanto si possa ancora dire la propria in un genere vecchio duecento anni.
Efrim Manuel Menuck e Ariel Engle si possono tranquillamente definire artisti realizzati, dal momento che rispettivamente con Godspeed You Black Emperor e Broken Social Scene (per citare solo una band a testa) hanno dato un contributo gigantesco al rock alternativo canadese e globale. Cosa spinga due persone così a fare un nuovo progetto è una domanda che svanisce quando ascolti “Darling The Dawn” di questo duo, che ha deciso di farsi chiamare ALL HANDS_MAKE LIGHT (se hai familiarità con il giro della Constellation Records, sai che i nomi sono un supplizio per noi amanti della chiarezza e dell’ortografia, quasi come le band k-pop). Svanisce perché la risposta è “perché sì, perché è una figata”. Il duo aveva già fatto uscire alcune canzoni due anni fa, in una raccolta eponima: ai commenti di Bandcamp rubo una definizione, “ambient pop”, che mi sembra ottima per definire la spinta emotiva e la texture sonica di entrambi i dischi. Passare tre quarti d’ora con quest’album significa ricevere visite dai fantasmi del post-rock (e industrial, noise, krautrock) ma anche da quelli che hanno inventato (o forse anch’essi copiato) le melodie tradizionali che passano di bocca in bocca lungo i secoli. Engle ha definita la loro musica “canti marinareschi per mari che non abbiamo mai navigato”, e se lei tiene il timone dell’umanità, con il suo timbro caldo come una coperta che perlopiù improvvisa melodie mentre Menuck fa scatenare le balene bianche dei suoi synth analogici modulari. Non una chitarra è stata toccata per quest’album, semmai fra i droni fluttuanti puoi sentire ogni tanto un violino (Jessica Moss) o - nella magnifica e improponibile per questa playlist The Sons And Daughters Of Poor Eternal - la batteria motorik di Liam O’Neill dei Suuns - (motorik, se non lo sai, è il beat tipicamente kosmische rock in cui il batterista cerca di suonare come una macchina, anzi come la macchina nel senso dell’automobile - qui un bel video che ne ripercorre la storia). Un lavoro davvero magico, che ti consiglio di ascoltare molto molto tardi, quando comincia ad albeggiare. Perché è questa la sensazione cercata dai due musicisti: il calore inaspettato che ci lava la faccia quando lasciamo la notte (letterale e figurata) alle spalle. Insomma, inaspettatamente un disco speranzoso in questo giro così pieno di fughe.
Quanto sono urgenti le Tredici canzoni urgenti di Vinicio Capossela? Un pochino, nel senso che il bisogno di umanità e di meraviglia che muove la penna di Capossela in questo suo nuovo album è concreto e condivisibile. Però, non sono così sicuro che la giravolta di generi musicali e registri lirici (dal grottesco all’elegiaco al romantico etc.) sia il modo migliore per trasmettere questa urgenza. Mi rendo conto che c’è qualcosa di profondamente e involontariamente ironico nel giudicare in modo apparentemente cinico un lavoro che è una dichiarazione esplicita contro il cinismo, ma qualcosa oggettivamente non gira per il verso giusto. Ad esempio, Il bene rifugio è tenera, ma già alla seconda strofa ti viene voglia di altre definizioni dell’amore. All You Can Eat ha un bersaglio che merita tutti gli sputi, la voracità smisurata della nostra civiltà, ma non ha il coraggio di combatterla con del minimalismo scarnificato. Secondo me ci sono cose venute per benino. Staffette in bicicletta (con Mara Redeghieri nota ai più come voce per molti anni degli Üstmamò) ne è un esempio, e forse sono i postumi del 25 aprile a parlare ma mi piace l’elenco di nomi di staffette partigiane, questa specie di “catalogo delle navi” ma dove al desiderio di conquista acheo si sostituisce il desiderio di dignità. A proposito di Resistenza, un altro esempio è La cattiva educazione con Margherita Vicario, con questa parafrasi di Bella ciao che diventa spunto per un’epica interiore anziché politica e civile. Nei momenti in cui il cantautore attinge al pozzo di innocenza che solo lui conosce, è sempre un azzardo: ne verrà fuori la disperazione infantile di Minorità, o il lezioso madrigalismo edificante di Gloria all’archibugio? Io in playlist metto l’ultima traccia, Con i tasti che ci abbiamo, perché Capossela riesce ancora a tuffarsi in profondità quando si toglie di dosso gli ammennicoli e quando si rischiara le idee: questa ballata al piano, dove fanno capolino due archi e un sax, ne è un esempio.
La title-track di The Fool, il nuovo album di Jain, te l’avevo già consigliata: la sua melodia alla ABBA, il suo arrangiamento soft rock elegante e con una pennellata di synth, mi sembrava un ottimo sorbetto per chi - come me - sentiva ancora il sapore pesante delle sue vecchie hit tropical-pop. Diciamo che, se conosci solo i grandissimi successi dell’artista in questione, questo lavoro non sorprendente come, ad esempio, il disco di Kimbra che ti consigliai qualche mese fa. Ma è grazioso nelle sue lunghe gonne disco-folk e nella tenerezza con cui si affaccia alla psichedelia (To All The People, coprodotta anche con Gesaffelstein, per gli amici della mozione EDM). L’artista francese collabora ancora in gran parte con il musicista, produttore e autore Yodelice, perché squadra che vince non si cambia. Qui, però, pareggia spesso. E infatti in playlist metto una canzone in cui alla scrittura e produzione si sente la presenza di Joseph Mount dei Metronomy, The Balance, che esce leggermente dal concept astronautico dell’album, che comunque non era proprio partito a razzo. A proposito di idee datate di pop, è uscito Time Machine di ALMA, che un paio di singoli li aveva azzeccati (nulla che valesse una segnalazione, comunque): il disco è decente, qui e là, ma suona come la versione meno estrema del 2015, vedi tu se vuoi tornarci. E per chiudere questo paragrafo, nello stesso giorno dell’album di Jain è uscito un altro progetto intitolato The Fool, anch’esso con inclinazioni slow-disco e psichedeliche: è di Adanowsky, ovvero il figlio di Alejandro Jodorowsky e probabilmente persona con un ottimo elenco contatti nel telefono visto che per una canzonuccia carina e niente più è riuscito a scomodare sia Beck sia Michel Gondry, che ne ha diretto il video.
Agust D è l’alter ego solista di SUGA dei BTS, e come sai il k-pop cerchiamo di presidiarlo il più possibile. Dopo due mixtape, venerdì è uscito il primo album del rapper e cantante coreano, D-Day, che - a quanto capisco - parla dell’importanza di concentrarsi su sé stessi e non pensare al passato. Non proprio il concept più potente in circolazione, ma sicuramente consono a quel continuo balletto tra libertà e obbligo (contrattuale?), tra individuo e società, che è poi il dualismo etico ed emotivo sul quale i BTS hanno costruito non solo una carriera, ma un rapporto stretto con gli ascoltatori che sentono di vivere lo stesso conflitto. Con le chitarre distorte e i beat trappusi che aprono il disco, la musica non dà certo l’impressione del lavoro ombelicale: più avanti, però, l’artista si concede qualche stracciamento di cuore e qualche nota agrodolce restituendo il boom-bap e facendosi dare indietro della groova soul (SDL, People Pt.2, Polar Night). Il pezzo che metto in playlist e di cui devi sapere qualcosa in più è Snooze, che tra gli artisti featured conta anche il compianto Ryuichi Sakamoto: a quanto pare non è un sample, ma una traccia di pianoforte originale incisa dal maestro per SUGA, che si dichiara fan di Sakamoto da quando ha sentito a 12 anni la colonna sonora de L’ultimo imperatore (c’è un po’ di Italia!). Ok, la traccia nel complesso è abbastanza una lagna, ma l’aneddoto vale l’inserimento in playlist.
Quello dei Silver Moth è un progetto nato abbastanza per caso da un gruppo di musicisti della scena alternative scozzese: in pratica, in seguito a uno scambio di tweet, un po’ di questi (tipo Stuart Braithwaite dei Mogwai ed Elisabeth Elektra) scoprono di essere tutti legati all’Isola di Lewis, la più settentrionale e grande delle Ebridi Esterne (le isole che “proteggono” la cima della Scozia. Qui c’è uno studio di registrazione, il Black Bay Studio, che è un’ex fabbrica di lavorazione e inscatolamento dei granchi dove Braithwaite è abbastanza di casa, come produttore. I musicisti si sono trovati lì e - con grande fantasia - hanno intitolato l’album Black Bay, lavorando alle tracce sul posto, nel modo più spontaneo possibile. Ed è qui che capisci che il miracolo della creazione di grandi canzoni viene da gruppi che si conoscono bene, perché in questo disco ci sono tutti i componenti, ma non fanno mai “click” quando si uniscono. Ok, la voce di Evi Vine è ottima, la chitarra di Stuart schiaffeggia, ma manca sempre qualcosa. Metto in playlist Henry, perché l’apertura a metà mi ha ricordato i momenti d’oro dei Mogwai. E dato che sono passato alla storia come quello che ha parlato dei Mogwai a Chi vuol esser milionario? (storia lunga), sono obbligato a inserirla.
Coast 2 Coast dei Pearl & The Oysters è la vacanza dentro il resort di fantasia contenuto in un’illustrazione del Sudamerica che non credevi di desiderare. Attenzione perché a un certo punto il villaggio vacanze prevede anche una partita a Super Mario (Loading Screen) e attenzione al finale in cui si scopre che era tutta un’allucinazione, mentre al tramonto un assolo di jazz ti mette a dormire (Joyful Science).
Non ho ancora capito se certe cose hyperpop sono una maniera paracula di riciclare vecchissime idee pop prendendole a colpi di machete tanto per vedere l’effetto che fa (o peggio), oppure se c’è qualcosa di più. Non me lo chiedo sempre, ma davanti a Underground di Dola ammetto di averlo fatto: ad esempio, cosa distingue Vita Hardcore da una canzone di Max Pezzali, a parte i mille glitch? Non cito l’autotune, perché anche Max ha giocato con la sua voce. In questi casi chi fa il mio mestiere rischia di toccare parole velenose come “autenticità” o “sincerità”: non lo farò, non stavolta almeno, perché chiaramente mentre il disco prosegue (tipo in Heavy Metallo che già ti avevo suggerito) le intenzioni dell’artista si fanno più chiare. Fare casino, di base. Nella maniera in cui spiaccica insieme thrash metal e Bugo (03034); noise e filastrocca indie pop (On&Off); Black Keys e (Sorry) sperando di trovare un senso alla vita nella casualità, sperando di scacciare via il nichilismo (Nomi cose città), questo album mi ricorda il pastiche esistenziale dei 100 gecs più di molta altra roba hyperpop italiana sentita, che pure deve molto più all’elettronica e alla dubstep rispetto alla musica di Dola. Un altro bel disco italiano che voglio citare è Dati di montag, cioè Pietro Raimondi dei Giallorenzo: il baricentro di queste 10 canzoni sta in un punto fra il diaristico e il visionario, come se per cavar fuori un senso e un’emozione vera dal nostro presente distopico farcito di informazione si dovesse in qualche modo perdere il controllo; e questo lo rende molto originale e perfettamente in sintonia con una alt-folk-rock felpato e stracciato dove le chitarre arpeggiate, le batterie spazzolate e la voce disillusa ruotano su assi leggermente sfalsati (senti in particolare Infinite Scroll, come frana).
Poi sono usciti:
Death Folk Country di Dorthia Cottrell, il cui genere è dichiarato abbastanza palesemente nel titolo (anche se lo definirei più un grunge semi-acustico e melmoso)
Garden Party di Rose City Band (cioè Ripley Johnson ex Wooden Shjips) è country rock freschino per un pic-nic psichedelico, di quelli tutto vibe e groove, che mi ricorda quando durante l’inizio della pandemia cercassimo tutti di chillare, esigenza che non credo sia venuta meno
Princess Forever di Dreamer Isioma è un disco che frulla neo-soul, psych funk, dub, indie pop, lo-fi rap e un tocco di vaporwave e afrobeats, ma non per trovare un nuovo genere musicale, piuttosto per trovare una filosofia che unisca contemplazione del cosmo e ansia d’amore; l’artista nigeriano-american* (Isioma è una persona non binaria) produce una musica che vorresti sentire in orbita o fluttuando sopra l’asfalto, perfettamente in equilibrio tra distacco e visceralità;
nel disco qua sopra trovi anche redveil che insieme con l’instancabile JPEGMAFIA ha pubblicato un bell’EP, playing w/ fire, che è esplosivo nello scatto e dalla consistenza gommosa, accorato eppure rilassato: io me lo sento, redveil sarà la prossima cosa grossa a sbucare dall’underground della musica urban americana.
Altre segnalazioni italiane: Players Will Play, Lovers Will Pay dei Gemini Blue che contiene per la maggior parte un jazz-rock che può ricordare qualcosa dei Morphine, strutturalmente semplice ma pieno di interessanti asperità, giocato molto su dinamiche medie e basse, anche nella fracassona title-track, come per invitare gli ascoltatori a sentire con cura, e poi infilargli nel timpano strane creaturine sonore, un ottimo lavoro (se il nome ti dice qualcosa è perché potresti averli incrociati a X Factor). A proposito di X Factor, hai sentito che forse Morgan ritorna come giudice? Non bastavano le quattro puntate di Stramorgan, dove quando non parlava di sé stesso diceva cose abbastanza banali su artisti come Brian Eno. Il quale, Brian Eno dico, ha pubblicato la versione strumentale rivisitata del suo album uscito a ottobre, FOREVERANDEVERNOMORE, che - a dir la verità - non mi aveva proprio steso, mentre con questa parte ambient muta guadagna. Vedi a volte togliere è meglio di aggiungere. Ecco, di solito non parlo delle edizioni deluxe dei dischi, ma a questa eccezione ne aggiungo un’altra: a febbraio dell’anno scorso - quando ancora questa newsletter non esisteva, l’artista alt-weird-folk Hurray For The Riff Raff (sarebbe una band ma c’è un solo membro fisso, Alynda Segarra) aveva fatto uscire un bel disco intitolato LIFE ON EARTH: nella versione deluxe uscita venerdì scorso ci sono alcuni inediti e chicche, tra cui una cover di Sweet Dreams (Are Made Of This) in cui manda a puttane tutto il giro d’accordi ed è una delle migliori versioni di una canzone non coverizzabile, e te la lascio qui sotto come bonus per essere arrivato fino a qui.
I singoli
Brevissimamente, il singolo della settimana (e una delle canzoni più belle dell’anno) è True Love di Christine and The Queens con 070 Shake: l’artista l’ha presentata al Coachella, e dopo le brutte vibrazioni dell’ultimo album, mi sto convincendo che PARANOÏA, ANGELS, TRUE LOVE (in arrivo il 9 giugno) potrebbe essere il suo migliore disco.
Tantissima roba lato rap americano: è uscito un eccellente singolo di Killer Mike, Don’t Let The Devil (con El-P e thankugoodsir) che anticipa un album solista intitolato Michael che si preannuncia incredibilmente personale. In più, Jay-Z ha fatto un concerto a Parigi per Louis Vuitton (certo) ma invece di lanciarmi in una tirata contro l’esclusività e il capitalismo, dirò che la sua versione (poi pubblicata) di Empire State Of Mind con un sample di Gil Scott-Heron è una manata in faccia.
A proposito di manate, c’è un nuovo singolo dei Foo Fighters, il primo dalla morte di Taylor Hawkins, che ha fatto chiedere a tutti: “chi suona la batteria?”. La risposta è Dave Grohl. Il pezzo si intitola Rescued, anticipa un album in uscita il 2 giugno (But Here We Are), e ha il post-chorus rock più bello dell’anno.
Segnalo anche; beabadoobee con Clairo; i bar italia, le MUNA; il pezzo esaltante con le chitarre della settimana cioè Jupiter degli Upper Wilds; e gli Interpol con Makaya McCraven (si tratta di un bel progetto di interpolazioni con artisti jazz ed elettronici di cui parlerò quando uscirà al completo).
Roba italiana ne abbiamo eccome, e segnalo: Laila Al Habash con Stabber; gli STUDIO MURENA con Ghemon (cresce la fotta per il loro album, WadiruM, in uscita il 12 maggio); il viaggione di groove psichedelico BASSLINE di Le Feste Antonacci; la solita bravissima BLUEM (anche il suo album arriverà il 12 maggio).
E ora basta, che praticamente è già la prossima settimana.
Ciao Louder.