Pioveranno venerdì S02E17: sono finite le idee
Un mese di dischi, le hit che copiano altre hit, e un saluto
Ciao Louder,
La musica in estate non dovrebbe fermarsi: non se la discografia pensasse, ogni tanto, anche a chi non frequenta più le scuole dell’obbligo. In Italia non va così, perciò mentre i concerti sono sempre più un lusso per “altospendenti” (leggi “vecchi”), le uscite musicali tendono a riflettere massicciamente la vita, le abitudini, i gusti dei più giovani, cioè quelli che possiedono zero euro (il costo di un mese di streaming, giù di lì). Nessuna delle due cose, presa da sola, sarebbe un problema: la coesistenza di questi due mondi paralleli e opposti, però, fa strano. Ho detto coesistenza, ma sarebbe meglio parlare di una co-exploitation: vecchi che convincono i giovani che le canzoni di 5-10-30 anni fa fossero migliori di quelle attuali, spingendole su TikTok (dove peraltro è pieno di 70enni, tipo mio padre) in modo assolutamente innocente e disinteressato (wink wink, in realtà il mercato del catalogo è sempre più pieno di soldi). Così, mentre la frontline fa uscire migliaia e migliaia di nuove canzoni ogni settimana, chi ha investito milioni nelle canzoni “vecchie” ti convince che le idee sono finite, che nelle valanghe di nuove canzoni non c’è nulla di valido e tanto vale tornare indietro. Ma prova a convincere un* ragazzin* ad ascoltare Cindy Lauper: molto più facile mettere la mega-hit della suddetta dentro una canzone estiva (Disco Paradise) e chiuderla lì. Se - insomma - sempre più musica nuova ti dà l’impressione che sia vecchia, non è un caso: è proprio una scelta calcolata. Ne parlò un anno fa il mitico podcast Switched on Pop, intervistando tra gli altri proprio una persona che nel catalogo ha investito tanto (milioni di dollari), cioè Merck Mercuriadis del fondo Hipgnosis, che passa le giornate a capire quali prestigiosi cantautori riempire di soldi in cambio di diritti sulle loro canzoni. Quello di cui parlava SoP è proprio quel che capita di sentire sempre di più nel pop (largamente inteso): un metodico recupero di melodie che hanno avuto successo nel passato, e si spera ne abbiano anche nel presente. Per farlo, si lavora d’anticipo: non è tanto il producer che compone un beat con uno o più sample e spera di ottenere l’autorizzazione a cose fatte; semmai, sono i discografici a suggerire di usare questo o quel pezzetto di una hit d’altri tempi - così spiegano gli esperti interpellati. E visto che il trucchetto ha funzionato - con o senza TikTok, il Pigmalione dei tecno-entusiasti - a questo punto la macchina del riciclo può andare avanti anche da sola.
Puntare sull’usato sicuro è un trend arrivato anche nella nostra provincia musicale: in particolare, negli ultimi new music friday abbiamo sentito parecchie canzoni inchiodate su un sample, un pezzetto di musica altrui campionata con sapienza. O con l’accetta, come in questi casi. Già, perché la disciplina del sampling è talmente prestigiosa e storica che nominarla in questo contesto non le rende giustizia. Sarebbe meglio parlare di una nuova, avanzata forma di remix: prendiamo un successo e trasformiamolo in un nuovo successo. Se ci pensi, è come avere ospiti a cena, servirgli un ragù pronto, e ricevere i complimenti sperando che nessuno se ne accorga (come in una pubblicità di qualche anno fa). Così negli ultimi mesi e anni ci siamo ritrovati canzoni trap con melodie di Manu Chao, e altre mostruosità simili. In passato ne ho già citato alcuni esempi ma ultimamente ho notato un’impennata mica male.
Fammi elencare qualche esempio, tra cover dichiarate e cover-non-dichiarate: Rhove ha rifatto I'm Yours; Mille ha rifatto Ballo ballo; Tancredi ha rifatto Amore disperato (e non è l’unico); Caffellatte ha rifatto Dragostea din tei; Drillionaire ha rifatto Satisfaction; Cosmo ha rifatto Vamos a la Playa; Merk & Kremont si uniscono alla lista sempre più lunga (dopo Blanco e Marz+Zef) di chi ha composto un beat parecchio simile a Born Slippy; Drillionaire ci ha fatto un disco intero, 10. In qualche caso parliamo di cover vere e proprie o remix che vogliono rendere omaggio e nulla più, e questi esempi non meritano giudizi severi (ne includo sempre in playlist alcune). Tuttavia, se uno osserva il quadro generale sembrerebbe che la sorgente di idee si sia prosciugata. Ovviamente non è così: ogni giorno escono migliaia di canzoni, alcune delle quali richiamano il passato senza bisogno di segnare proverbiali gol a porta vuota, senza volersi accaparrare meriti altrui. Prendi Charli XCX che per la colonna sonora di Barbie (peraltro uscita oggi) ha realizzato Speed Drive dove nella prima metà del ritornello riprende solo il ritmo di Mickey e nel beat campiona una cover di Cobrastyle dei teddybears fatta da Robyn che fu un modestissimo successo, non una hit. E poi, nella stessa colonna sonora, prendi Nicki Minaj e la sua pigrissima rivisitazione di una canzone, Barbie Girl, che di platini ha fatto incetta in tutto il mondo, la prima volta. Da una parte, un omaggio che arricchisce la conversazione, dall’altra il tentativo di grattare un po’ di fortuna. Certo, in generale non è mai un bel segnale quando apri Spotify e trovi costantemente roba scritta 40 anni fa. Ma la colpa è nostra che a furia di dirci che “ai miei tempi tutto era meglio”, ci abbiamo creduto.
Quindi, viste alcune carenze di proposte, e visto il mese di assenza che mi ha fatto accumulare un po’ di arretrati, preparati ad ascoltare un’ultima playlist New Music Louder particolarmente GROSSA, da quasi 200 pezzi. E preparati a dover aprire questa newsletter nel browser (te lo dico subito), perché sarà LUUUNGA. Come sempre la playlist si ascolta su SPOTIFY e APPLE MUSIC.
Ah già, l’ultima playlist… Aspetta che lo dico bene: alla fine di luglio terminerà la mia quadriennale esperienza dentro Louder, questa cosa che ho aiutato a costruire con centinaia di video originali (ne trovate ancora un centinaio su YouTube, per ora; quelli usciti su Instagram svaniranno come lacrime etc.), con migliaia di memini, un anno e mezzo di dirette su Twitch e i proverbiali sangue, sudore e lacrime. Ringrazio le persone che mi hanno voluto qui (Daniele, Alex, Francesco), quelle con cui ho imparato a lavorare in squadra (Valerio, Ludovica, Francesco, Ilaria), quelle con cui l’ho reimparato negli ultimi tre anni da solista (Carlotta, Antonio, Stefano, Francesco) e tutti quelli che ho incontrato per strada. Come dicevo, questo è l’ultimo Pioveranno venerdì, MA prima della fine del mese arriverà un altro episodio nel quale ti parlerò brevissimamente dei dischi usciti oggi e venerdì prossimo, e soprattutto ti fornirà la mia imprescindibile lista dei migliori album del 2023 so far. Ma la playlist non sarà aggiornata con i nuovi dischi (tipo quello strappalacrime dei Blur, The Ballad of Darren, che devi assolutamente ascoltare): di conseguenza, niente playlist, niente episodio “regolare”. Prima di rifilarti una sfilza di minirecensioni (dalle quali mancano alcuni dischi che sono però rappresentati nella playlist) un ultimo ringraziamento va a te che hai seguito l’esperimento di questa newsletter: Pioveranno venerdì è nata quando, dovendo scrivere, testare, produrre e fare booking di popstar per una diretta di due ore ogni settimana, mi mancava il tempo per altre attività editoriali; ma non mi è mai mancato il tempo per ascoltare nuova musica. Pioveranno venerdì è andata avanti con qualche inciampo, per via di questa agenda, ma - spero - ti ha sempre consigliato con onestà come orientarti in una proposta musicale abnorme, che potrebbe spingerti a nasconderti nella comodità del passato, anziché provare a scoprire ancora qualcosa di nuovo. Perché la scienza dirà pure che il nostro cervello si appiccica inesorabilmente alla musica ascoltata da giovani, ma questo non ci vieta di continuare a imparare e conoscere. Ci vediamo in giro sul mio Substack (che si chiama
, come me, e al momento è ancora vuoto) e dovunque vorrai sentirmi parlare di musica.Gli album, alla rinfusa
The Greater Wings di Julie Byrne è probabilmente il disco migliore, più coeso, più emozionante di tutto questo mese: un diario di una perdita che non sembra mai autoindulgente, ma veramente catartico. Musica per stare malissimo e poi, alla fine, benissimo. Non ho molto altro da aggiungere, se non: ascoltalo bene. Il disco di PJ Harvey, I Inside the Old Year Dying, è invece quello che più di tutti richiede pazienza, tra le ultime uscite importanti: là fuori c’è chi si sente obbligato a commentarlo dicendo “non è Rid of Me”; a queste persone bisogna rispondere “anche tu sei più vecchio di 30 anni, ma qual è la tua scusa per non aver fatto nulla di interessante?”. Io ad esempio non mi sento di avere molte osservazioni intelligenti al riguardo, in questo momento, ma non lascerò che quest’ineffabilità mi trasformi nell’ennesimo cinico. Fortunatamente ho un po’ di cose da dire sul prossimo disco.
My Back Was A Bridge For You To Cross è il nuovo album di ANOHNI con i Johnsons, dopo 7 anni da Hopelessness. Come quello era un disco alt-pop talmente avanti che non l’abbiamo ancora raggiunto oggi, così questo è musicalmente tradizionale, quasi rétro. L’influenza del soul sul progetto è pervasiva, anche se non sempre palese, e non a caso l’ha prodotto Jimmy Hogarth (Amy Winehouse), che suona la chitarra portando nel disco ritmi jazz soul (It Must Change), arpeggi folk rock (You Be Free) e shuffle rock blues (la tempestosa Rest). Il volto di Marsha P. Johnson, la donna transgender che ha dato il via ai moti dello Stonewall e quindi all’attivismo LGBTQ+ per come lo conosciamo oggi, campeggia sulla copertina, così come ha sempre campeggiato nel nome della band di ANOHNI: l’idea di mettere in mostra un legame viscerale secondo me si avverte anche nella scelta della cantautrice di incidere alcune tracce “buona la prima”, includendo nel disco la prima incisione e basta. L’artista britannica ha detto di aver concepito questo disco come una risposta a What’s Going On di Marvin Gaye: usare il linguaggio dell’emozione e del cuore per gettare luce sullo stato delle cose nella società e nel nostro tempo. E di emozione ce n’è a pacchi, in ballate come That Wasn’t Enough, con gli arpeggi di piano e chitarre che sembrano dettare il tempo di questa voce luttuosa, che senza beat non può fare altro che zoppicare. Se dovessi scegliere una sola traccia (che infatti metto in playlist) per segnare il paragone con l’opus di Gaye, direi Why Am I Alive Now? che ha lo stesso groove spazzolato, lo stesso basso rimbalzante, gli stessi archi, le stesse tastiere e chitarre elettriche vetrose di What’s Going On. E tutto questo senza bisogno di campionare l’originale, di riprenderne la melodia, o altri trucchetti del pop: a dimostrazione che la musica si può ancora fare con un po’ di gusto e intelligenza, eccome. E senza dover fare per forza rivoluzioni copernicane.
Forse hai sentito che gli Hives e Damon Albarn hanno detto che gli Arctic Monkeys sono l’ultima band con le chitarre a fare roba interessante. O meglio, non hanno proprio detto così, ma internet ha litigato su questo concetto. E allora ti segnalo due dischi molto belli. Il primo è Life Under The Gun dei Militarie Gun, band emo al primo LP con un fan famoso come Post Malone e lo stesso management di Romelu Lukaku. Sono canzoni da strillare, e fanno parte di un revival emo che stiamo seguendo già da quando questa newsletter è iniziata: non cascare nelle versioni cheap di questo ritorno, perché in giro c’è roba da farti rimescolare le viscere. Tipo questo disco. Un altro bel lavoro con le chitarre è 3D Country dei Geese, un’altra band relativamente giovane (hanno iniziato a suonare insieme nel 2016, quando erano ancora al liceo). Poi le loro domande di ingresso in alcuni dei conservatori più importanti d’America (Oberlin e Berklee) sono state accettate e stavano per sciogliersi, ma hanno deciso che sapevano suonare sufficientemente bene per continuare: ed è così, perché questo disco è un concept abbastanza unito nella narrazione (il viaggio di un cowboy dentro un’America surreale) ma molto vario nel suono, che attinge più o meno a tutto, dal jazz al post-punk, dal country alla psichedelia, riuscendo tuttavia a non sparpagliarsi. La voce di Cameron Winter sembra quella di un Nick Cave finito dentro la sala prove sbagliate, ma troppo cortese per andarsene senza cantare due cosette, senza scaldarsi l’ugola, ancora un po’ nasale. Insomma, i Geese hanno un suono che non riesci a ignorare, e una scrittura che gli sta abbastanza dietro: devi fermarti a sentirli. E se parliamo di chitarre e prospettive future della musica RUOCK non posso non citare Dressed in Trenches EP dei Lifeguard che Matador ha pubblicato insieme con un EP di un anno fa (Crowd Can Talk): non solo sono una manciata di tracce cazzutissime, rumorose, divertenti, viscerali; ma i tre musicisti che le hanno scritte e incise hanno 16, 17 e 18 anni. Direi che siamo in buone mani.
Se anche tu senti la mancanza di quel cantautorato che distilla i dolori e li concentra in piccole ampolle profumatissime e letali, Toil and Trouble di Angelo De Augustine è il disco che devi ascoltare. Due anni fa il musicista californiano pubblicò un bel disco con Sufjan Stevens, che quella missione di cui sopra l’ha messa temporaneamente in pausa per dedicarsi ad altri progetti, tipo il disco per un balletto. Toil and Trouble, pubblicato il 30 giugno, è un disco che prova a immaginare un mondo alternativo nel quale risolvere i drammi del mondo reale: c’è un’apparenza di escapismo, ovviamente, ma purtroppo quei drammi ci seguono ovunque e nessuna fuga è mai definitiva. Lo sa bene chi conosce l’intera storia di Peter Pan, di Christopher Robin, di Frankenstein, alcuni dei personaggi letterari evocati nel brano I Don’t Want To Live, I Don’t Want To Die, una specie di attacco di panico sotto forma di canzone. Nemmeno Betty e Barney Hill, protagonisti dell’omonima ballata che riecheggia George Harrison, sono riusciti veramente a fuggire: la loro storia (o dovrei dire, la loro “cronaca vera”) è quella di un presunto rapimento alieno, che è un archetipo della fuga con ritorno, della visione di un’altra realtà possibile, l’unica a disposizione nell’epoca del fallimento di religioni e ideologie. Musicalmente parlando, l’album è un trattato su come si possa costruire qualcosa di minuto e leggero pur sovrapponendo decine di tracce in ogni singolo brano: l’artista, infatti, ha scritto, suonato, cantato, prodotto e mixato tutto da solo, usando tutti gli strumenti che gli sembravano necessari, 27 per la precisione. Tra questi strumenti ci sono tastiere e chitarre, celeste e ovetti, teiere e nastri con registrazioni ambientali, ma soprattutto una Stepp DG1, la cosiddetta “prima chitarra elettronica” del 1985, un sintetizzatore cordofono di cui è bellissimo anche lo spot di presentazione con Allen Murphy dei Level42, che ti metto qui (a questo link, invece, una storia e descrizione dello strumento). Se ti interessa, puoi sentire la Stepp DG1 nella canzone D.W.O.M.M. (che sarebbe “death was on my mind”). Nel mio mondo, questo è sufficiente per farmi venire voglia di ascoltare un disco: se non bastasse, considera che Song Of The Siren (altro personaggio di fantasia) è una canzone struggente che starebbe bene in Carrie & Lowell. In playlist potrebbero finire tranquillamente tutte le tracce che ho citato, ma metto Memory Palace perché ha tutto uno sviluppo basato su tre sezioni ben distinte, ma suturate benissimo tra loro. E quando capita, al giorno d’oggi?
In The End It Always Does di The Japanese House, al secolo Amber Mary Bain, è un disco che non poteva uscire per nessun’altra label, se non Dirty Hit. Sto parlando dell’etichetta di cui fa parte Matty Healy dei 1975, che ne è azionista e per quattro anni ne è stato direttore creativo, e mi riferisco al fatto che questo album ha moltissimi punti di contatto stilistici con gli ultimi due tre progetti dei 1975: se prendi tracce come Touching Yourself e Friends, non solo ritrovi quel concetto di pop-rock anni ‘80 destrutturato e post-ironico, ma rivedi anche l’interesse per il contenuto esplicito e sessuale con il quale Healy ci ha fatto sapere tutte le sue perversioni (anche meno). Nel disco, poi, c’è la firma anche di George Daniel dei 1975 e almeno in una traccia (Sunshine Baby) la voce di Healy, in effetti. Ma non è qui secondo me che ci dobbiamo fermare: infatti nell’album puoi sentire anche Charli XCX (la già citata Friends) e Justin Vernon (Over There): proprio il pezzo con il Bon Iver in persona trovi una chiave più larga e non solo 1975esca per spiegare la placida inquietudine pop di questo lavoro, e la senti nelle batterie ovattate e nei giri di accordi stiracchiati con tastiere acquatiche. Se ti perdi via nel discorso stilistico, infatti, potresti dimenticare il senso di urgenza che Bain trasmette in una maniera personale e inconfondibile: il suo marchio di fabbrica sono le melodie che si sviluppano lentamente, nel corso di diverse battute, e tuttavia cantate con una convinzione e un ottimo registro di contralto, così da invogliarti ad aspettare la prossima nota, immaginarne la direttrice, e su quale metafora si poserà. Questo permette all’artista di sciabattare nella mestizia o rotolarsi nell’eccitazione sessuale (i due stati energetici dell’intero disco) senza dover cambiare completamente tono e carattere. Ed è interessante: quanti di noi hanno sperimentato insieme malinconia e lussuria, depressione e smania. In questo senso, rispetto al primo LP di quattro anni fa, Good At Falling (peraltro già molto 1975esco), The Japanese House ha trovato qualcosa in più: un messaggio originale, appropriato ai suoi talenti musicali, e un modo per comunicarlo a un pubblico meritatamente sempre più largo.
Le Sweeping Promises sono un duo del Kansas (Caufield Schnug e Lira Mondal) che, di proposito, suonano male. Non nel senso che non sono capaci di suonare i loro strumenti o di cantare: anzi, mi sento di puntare sul fatto che se ti dovesse capitare di sentire un loro concerto (non in Italia, visto che faranno date europee ma non qui da noi, stranamente!) probabilmente te lo ricorderai a lungo. No, quando dico “suonano male” intendo il fatto che tutte le canzoni del loro album, Good Living Is Coming For You, sono registrate con un solo microfono nella stanza, in autentico stile lo-fi. Ovviamente, nelle cuffie ti sembrerà di percepire qualche problema: lasciati andare, fai questo esperimento, perché in realtà la loro bassa definizione quasi monofonica è meglio di tante atrocità ad alta fedeltà che ti capiterà di sentire se ascolti troppa musica come me. Non solo la title-track ha un ottimo interplay per cogliere il quale devi prestare attenzione, non solo il basso di Cant’t Hide It ti scuote dalle palme dei piedi alla punta delle orecchie, ma brani dai complessi arrangiamenti, come l’eccellente Walk in Place, riescono a dare consistenze diverse alle chitarre, il synth, il sax, la batteria e la voce, e non farti perdere quindi nessuna informazione essenziale nella lotta eterna tra segnale e rumore. E quindi ascoltare questi 30 cazzutissimi minuti di post-punk è sì come partecipare a un esperimento sociale, ma è anche un’esperienza liberatoria: il modo in cui descrive convinzioni che si sbriciolano, menzogne politiche e sociali che svaniscono, e le reazioni viscerali a tutto questo, danno l’impressione del disgusto e della rabbia che vogliono trasmettere. E che vorrebbe trasmettere tanta altra musica di questo revival post-punk, non sempre con ottimi risultati. Un ascolto rivoluzionario - nel senso di rivoluzione, non di innovazione. E se ti avanza un po’ di incazzatura, ascolta anche Suffering Time del duo americano White Beast: un bel disco per prendersela con il capitalismo.
Il trio losangelino Suzie True ha pubblicato un nuovo album a tre anni dal precedente Saddest Girl At The Party, e il mood è ancora quello ma ancora più intimo: Sentimental Scum, “feccia sentimentale” letteralmente, è il riguardo che le Suzie True hanno per le canzoni d’amore, cioè molto basso. Di fatto, l’amore è una scusa per parlare di scarsa autostima e rabbia giovanile, ma anche di ansia sociale, identità queer, salute mentale e l’immancabile dolore di crescere, con quel vocabolario punk rock elaborato negli anni da leggende come Babes in Toyland e The Muffs. Ma pure Josie e le Pussycats, dicono le Suzie True, che hanno il buon gusto di non prendersi troppo sul serio. Il disco si beve come un bicchiere d’acqua tonica: un po’ amaro, ma rinfrescante. A me è piaciuto a tal punto che il primo singolo, Backburner, te lo consigliai quando uscì, cioè l’anno scorso. Sul finale arriva questa canzone dolente, con qualche tocco di Cure in fase rosa, Wallflower, e secondo me ti piacerà. E secondo me ti piacerà anche Blockbuster del duo losangelino Dog Ears, un disco estivo come quelli che piacciono a me: ci senti il sole che ti carica ma ti stende anche, vive in quel limbo tipico di una stagione dove il tempo libero o comunque le ore di luce aumentano e l’energia diminuisce. In pratica è un disco con la chitarrona e le melodie che fanno nananana uh uh uh. Ha un opening track, Midnight Sunburn che ti brucia la faccia come un’insolazione e una seconda metà (da Cloud 9 in avanti) di pezzi che scivolano sul downtempo con una malinconia atroce. Eccellente.
A proposito di scottature, Sunburn è il secondo album di Dominic Fike che magari conosci come Elliot della serie Euphoria o forse no. Comunque è un artista che - come usa oggi - mescola tutti i generi in una piacevole melma sonora a forma di sé stesso. In questo secondo lavoro prova a fare più il rocker che il rapper, per esempio, visto che queste sono un po’ le sue radici (dice di aver iniziato a suonare studiando i pezzi dei RHCP, come tutt* alla fine). E bisogna dire, però, due cose: 1) che le sue chitarre suonano molto meglio di quelle di tanti suoi colleghi megapopolari ma non sufficientemente dotati di orecchio; 2) che nonostante la sua musica possa definirsi tranquillamente vibe-pop (canzoni basate su un singolo loop che danno l’idea di un genere senza investirci troppa sbatta e passione), pezzi come Sick fanno lo sforzo di costruire sezioni con addirittura cambi di tempo. Poi, anche Fike cade nel citazionismo: Think Fast è costruita su un sample di Undone dei Weezer; Frisky fa una veloce interpolazione della melodia di Californication. Per come sono usati, cioè in modo sottile, non denotano la pigrizia degli esempi di cui sopra, perciò li accetto. Però il disco ha un altro problema gigante del pop di oggi: è troppo lungo, di almeno 15 minuti. Probabilmente l’artista o la sua major (Columbia, cioè Sony) avrà pensato che non bastava fare un disco carino ed essere orgogliosi di pezzi che girano bene come Pasture Child, se poi tutta sta roba non andava in classifica, e quindi eccoci con 15 tracce che sembrano non finire mai, come un minestrone allungato con un brodo insipido.
Jelly Road di Blake Mills potrebbe essere reintitolato “la rivincita dei nerd”: avrai sentito dire tante volte che i professionisti della musica, gli strumentisti come i fratelli Porcaro sì hanno fatto ottime figure nei dischi in cui hanno suonato (Thriller di Michael Jackson, per esempio) ma quando devono scrivere musica per sé (nei Toto, ad esempio) non trovano l’ispirazione. Ecco, Blake Mills ha suonato o ha prodotto praticamente per tutti da Fiona Apple a Bob Dylan, da Joni Mitchell a Phoebe Bridgers, è una felice eccezione: i suoi dischi sono caldi (chiedo scusa per questo aggettivo) e urgenti, intelligenti ma sensibili. Per Jelly Road ha collaborato a stretto contatto con il musicista jazz Chris Weisman dopo che i due si erano trovati a dover ricreare dei finti Fleetwood Mac per la serie di Amazon Daisy Jones & The Six. Quest’esperienza si sente nelle atmosfere molto 70s di questo disco, che però è tutt’altro che un lavoro lezioso di retromania: anzi, i due hanno chiamato un altro strumentista jazz geniale (e che troverai in playlist da altre parti), Sam Gendel per suonare la sua collezione di fiati (tra cui un fantastico flauto contrabbasso, guarda che meraviglia) e contribuire all’atmosfera da jam di un disco che riesce a tenere insieme molte idee e direzioni, senza strafare. Anzi, c’è qualcosa di raccolto in questi racconti di smarrimenti e incontri con il bizzarro: Press My Luck è una deliziosa canzone rock da malandati; Highway Bright ha un groove largo ma coinvolgente; e la title-track non sfigurerebbe in qualsiasi disco di indie folk che hai acclamato quest’anno. Io ti consiglio in particolare Wendy Melvoin, intitolata come la chitarrista della band di Prince, The Revolution: un po’ perché è un’ottima traccia con il flautone di cui sopra (e di cui sotto); un po’ perché ci suona la stessa Wendy; ma soprattutto perché è la dimostrazione che, quando quella star del gatto non c’è, qualche volta i topi di studio di registrazione sanno ballare alla grande. Ma effettivamente mi spiacerebbe mandarti un’ultima playlist con una canzone che fa più piacere a me inserire che non a te sentire: quindi, vada Press My Luck e promettimi che recuperi tutto.
Eye On The Bat dei Palehound è il disco con la chitarra suonata meglio di tutto questo mese. Ma descriverlo così non basta: è una montagna russa di emozioni, dalla rabbia schiacciasassi di Independence Day all’esaltazione di The Clutch, dalla smania di U Want It U Got It alla flemma di Route 22. Un disco che ascolti come guardi un bel film, aspettando di conoscere come andrà a finire per il protagonista. E il finale, per El Kempner (che del progetto è la voce e l’anima), è positivo in questo caso: se per caso hai presente i suoi dischi vecchi (abbastanza seriosi, a tratti), qui al contrario abbiamo una canzone finale, Fadin’, che ha la dolce nostalgia dei titoli di coda. Anche i momenti più aspri come My Evil qui hanno l’autoironia di un incipit come “sono diventat* la persona a cui vorrei dare un pugno in faccia”. E i momenti più dolorosi come Right About You riescono a non sprofondare, ma anzi guardarsi da fuori (come in alcuni ottimi momenti di the record delle boygenius, per darti un punto di riferimento). Ti ho già consigliato in passato alcune sue canzoni, ora fatti il giro completo.
A Nashville secondo molti di noi esiste solo il country. E invece dalla capitale musicale dell’America profonda viene una band che incarna le nevrosi americane e le fa esplodere in una nube di glitter intitolata Super Snõõper, sicuramente uno degli album più coinvolgenti di queste settimane. Gli Snõõper fanno punk, non ci sono molti altri modi per descrivere quello che si sente nel loro primo LP. Se volessimo fare gli enciclopedici, dovremmo catalogarlo come egg punk, sottogenere nato proprio nell’America profonda (l’Indiana dei Coneheads, considerata prima band del microgenere, non è così lontano) e che sulla scia dei Devo mescola hardcore e satira, divertimento e aggressività. Detto semplicemente, è un punk elettrizzante, suonato con tanta fotta da farti sospettare dello stato mentale di chi sta suonando, come se vivesse a 2x - un effetto accentuato dal rallentamento improvviso di Fruit Fly, canzone che inquadra e squadra i maschi sospetti e viscidi (tipologia umana che in Italia non smette di essere popolare, vai a capire perché). Ma anche se ha tanti tratti del DIY, non ha la bassa fedeltà: il disco ti arriva talmente preciso da farti temere che prima o poi una corda si spezzerà sulle tue nocche. Bisogna però ammettere che i testi di canzoni come Xerox, Defect o Town Topic sembrano contribuire al sospetto che la band sia arrivata a noi dal 1980 attraverso uno strappo nello spazio-tempo. Il 1980 è anche l’anno in cui uscì quel caposaldo nel cinema italiano intitolato Poliziotto Superpiù: sul mercato americano, quello in cui Terence Hill intendeva sfondare, prima di andare a conquistare l’Umbria, il film si intitola Super Fuzz o - rullo di tamburi - Super Snooper. E io voglio credere che la cantante Blair Tramel o il chitarrista Connor Cummins (i due leader del gruppo) l’abbiano visto, come tutti i miei coetanei millennial. Ma nessuna intervista me ne ha dato conferma. Non importa, perché nel frattempo sono finito dentro questo disco e non ne sono uscito più: Super Snõõper (che è pubblicato dalla Third Man Records di Jack White, occhio lungo) è il suono di quando inciampi sull’asfalto e rotoli due o tre volte. Ti fa male, ma in qualche modo ti fa ridere e ti fa abbassare la guardia. Prova, è una bella sensazione: ridere e abbassare la guardia, non cadere sull’asfalto.
Claud era già pront* a sfondare due anni fa: Super Monster aveva messo il suo pop introspettivo sulla pista di lancio, con paragoni che andavano dalle Haim a Christine And The Queens - l’ampiezza di questa forbice estetica doveva farci sospettare qualcosa - e Phoebe Bridgers a fare da garante con la sua label Saddest Factory. Poi è successo quello che capita spesso: si cresce (sotto i 25 anni, ogni anno ne vale tre, tipo i cani); si cambia orizzonte (cioè si lascia la casa dove si è cresciuti e ci si trasferisce a New York); persone se ne vanno e altre arrivano. Tutto questo si sente in Supermodels, il suo nuovo disco, che dimostra la falsità dell’assunto per cui l’opera giovanile è l’unica veramente onesta: qui c’è una scrittura che ti apre in due per come ragiona in modo ficcante sulle scelte (“dovevo provarlo, anche se non dovessi esserne uscit* viv*, non eri tu il punto”, dice It’s Not About You), o per come tramuta sotto le tue orecchie canzoni d’amore in canzoni di formazione e crescita (Crumbs, ottima opening track) o per come dopo averti descritto tutta questa nuova vita, torna a sentire l’inadeguatezza e a volersene andare da New York (Screwdriver, il melodiosissimo e triste finale). Musicalmente parlando, è un disco molto più rock, ma non fracassone e banalotto: ci sono pezzi guidati dai giri di basso e synth fischianti come Wet, quelli tutti distorti come Dirt e quelli acustici con dozzine di sovraincisioni vocali come Crumbs; ci sono canzoni che sembrano mimare il power pop adolescenziale mentre descrivono una scena da film che avrebbe una canzone così come colonna sonora (Paul Rudd) e ci sono piccoli capolavori di dinamica, che respirano come un essere vivente (A Good Thing). Per qualcuno sarà eresia, ma io penso che dovremmo essere contenti che esistano artist* capaci di tenere insieme Taylor Swift ed Elliott Smith (Spare Tire), Avril Lavigne e gli Oasis (Every Fucking Time). Sono queste contaminazioni a dare agli artisti dotati di un po’ di concentrazione un repertorio armonico e melodico infinito, purché non vadano con il pilota automatico: qui in realtà la rete di sicurezza era stata tolta di mezzo fin da principio, considerato che Claud ha deciso di scrivere tutto con una chitarra e un pianoforte che non riusciva assolutamente ad accordare. Il risultato è che tocchi con mano l’imperfezione. E infatti non è un disco perfetto, nel senso che ci sono scelte discutibili: per fare un esempio, l’intro d’organetto di Climbing Trees sembra sprecata quando parte la drum machine (ma che ritornello!); per farne un altro, All Over mi sembra una canzone superflua nell’economia sonora del disco. Ma rispetto a Super Monster, che già aveva un suo fascino fatto-in-casa, c’è una crescita evidente. Non so se Claud diventerà una star, forse no: ma è qui per restare.
Uno dei dischi più belli che ho sentito in questo mese è italiano: si intitola Sunmei ed è della band di Pordenone Sunmei (credo che in friulano voglia dire qualcosa come “il mio suono”, ma sicuramente mi sbaglio, e se c’è un parlante in ascolto mi faccia sapere). Loro fanno quell’alternative folk alla Bon Iver che puoi immaginare, con bassi distorti e larghi, sassofoni (Ties), chitarre angolari, voci modificate, e un mix di ansia e calma che andrebbe registrato all’ufficio brevetti. Cantano in inglese, e al giorno d’oggi è quasi una novità rinfrescante. E nonostante questi debiti con la musica americana, fa piacere ascoltarli, se stai cercando pezzi ben scritti, suonati a modo e registrati con cura. Sono molto piccoli, ma mi fa piacere segnalarli perché questo lavoro nello specifico non cambierà la storia della musica (e chi ci riesce, onestamente) ma può cambiarti un pomeriggio.
Disenchanter di Alaska Reid è un altro disco che vale la pena ascoltare. Lei potresti averla incontrata se hai assistito al concerto di Maya Hawke a Milano lo scorso febbraio. L’album, che è il suo primo LP, è prodotto da A.G. Cook, noto per PC Music. Ma questo lavoro non ha molto a che fare con quell’immagine di pop accelerazionista, se non un approccio onnivoro e anti-cinico nei confronti dello scibile musicale: in pratica, il folk-pop di Alaska Reid non ha paura a contaminarsi con incursioni improvvise di chitarre in overdrive (Palomino) o di incastrare in modo dissonante arpeggi e voce (Arctic Heart) o di inserire beat di gusto punk-industrial (Always): e questo perché la voce è sempre protagonista, mixata molto avanti come in un disco pop d’altri tempi, o come in una traccia di crooning confidenziale. E così si ha l’effetto di avere Alaska davanti ai nostri occhi, mentre tutto intorno va a rotoli. E come potrebbe non andare a rotoli? Affascinante.
Rita Ora ha pubblicato il suo terzo album, You & I, e mi sembra senza dubbio il suo migliore lavoro. Eppure anche qui non si riesce a fare a meno di rivisitare vecchi successi come Praise You di Fatboy Slim o Party All The Time di Eddie Murphy (sì, proprio lui, ma la canzone di fatto è di Rick James e si sente), nelle tracce Praising You e That Girl. Il melodrammone pop della title-track secondo me si salva e te lo metto in playlist per i momenti in cui vuoi prendere il fiato e sparare un ritornellone a cento decibel. In altri tempi una canzone melodicamente a fuoco come Shape of Me sarebbe stata una hit, ma questi tempi non sono i nostri. Puoi passare oltre.
Chi non ha usato sample e ci ha tenuto a dirlo sono i Disclosure che, dieci anni dopo il loro debutto, hanno pubblicato un album a sorpresa, Alchemy. Insomma, cosa vogliamo dirgli: è un buon disco house. E un buon disco soul è IRL di Mahalia, cantante inglese che cinque anni fa era entrata nel mio radar per questa bella collaborazione con la mia adorata Little Simz e che da una decina d’anni sta cercando di entrare nel gotha della musica britannica. E ci sta riuscendo, visto che in questo secondo LP può vantare le presenze di Stormzy e Kojey Radical, oltre alla produzione della già lodata RAYE in Terms And Conditions, già consigliata ad aprile. E poi lo status lo vedi dal fatto che, come una SZA qualsiasi, al secondo disco può permettersi già il concept, che poi è lo stesso concept di SOS: si è mollata, e ci sta male. Ma la fortuna nostra è che le lacrime fanno cantare meglio, o almeno così parrebbe.
Altri dischi sentiti questo mese e in qualche modo validi di menzione: OPEN di Lunice è un disco molto creativo tra hip-hop ed elettronica, se dopo 50 anni di rap vuoi sentire qualcosa di nuovo (a proposito, i 4 inediti di Scaring The Hoes sono ovviamente puro oro, cerca nella playlist). A proposito di produttori rap, Flying High di The Alchemist è un altro ascolto consigliatissimo. If We Stayed Alive dei 12 RODS, primo disco da 21 anni a questa parte per la band del Minnesota che ormai consiste solamente nel cantante e chitarrista Ryan Olcott, che ha trovato questi demo vecchissimi, li ha messi su e ha detto “mica male”. Time Will Wait For No One dei Local Natives che prosegue il percorso nei suoni rétro e soul della band californiana, partito in Violet Street (2019). Di Gus Dapperton ti ho già consigliato il bel duetto con BENEE Don’t Let Me Down, ma il disco intero, intitolato HENGE, è un po’ tutto uguale, purtroppo, tranne quando si ricorda tira fuori del soul, tipo in Lights e soprattutto The Stranger.
Un ultimo paio di segnalazioni italiane: Love Storii di Prince (Tauroboys, non quel Prince) è hyperpop futuristico, insieme allegro e disperato, e non so come si faccia a comunicare le due cose contemporaneamente ma lui ci riesce; Armonia//Silenzio di Schiuma è un EP carino di rock italiano molto influenzato dall’it-pop o indie che dir si voglia, per ricordarci che quella generazione che tanti hanno cavalcato per convenienza ha lasciato anche certe eredità e non soltanto imitazioni.
I singoli
Sei pazz*? Non c’è tempo per parlare dei singoli. In ogni caso, tutti quelli che valeva la pena includere li trovi nella playlist. Approfitto di questo momento, peraltro, per dire che la ricerca del singolo dell’estate è finita: è Rush di Troye Sivan. Fine.
Ci leggiamo tra una settimana. E se nel frattempo vuoi dirmi quali sono secondo te i album migliori del 2023, fallo pure nei commenti (ammesso che tu sia arrivat* fino a qui). Così ne parliamo nell’ultimo numero, dove ci daremo i saluti definitivi - rinfresco non incluso, BYOB.
Ciao Louder.
Sigh