Pioveranno venerdì #4 - 1/7 ottobre
Canzoni minimaliste e dischi massimalisti in un mondo che non ha più hit
Oggi “Pioveranno venerdì” esce di sabato mattina. Grazie della pazienza, ho avuto un brutto virus e ho l’aspetto di Fever Ray (foto qui sopra).
Ciao Louder, dobbiamo parlare di nuovo di numeri, non lo farò tutte le settimane, giuro. Tu intanto metti su la playlist con le nuove uscite del venerdì (su Spotify, su Apple Music) che ti dico una cosa.
Nei giorni scorsi il CEO di Universal e il CEO di Warner hanno - separatamente - confermato che ogni giorno escono 100mila canzoni nuove. A parte dover rifare il calcolo di qualche settimana fa, prendo questa cifra come una scusa per giustificarmi: venerdì scorso sono usciti due album clamorosi che ho perso per strada, dei Melvins e di Shannen Moser, e può capitare quando vengono pubblicate 100mila canzoni al giorno (3 milioni al mese). Ma questo numero non significa solo che ci si perde dischi per strada, significa che il mercato non ha più bisogno di superstar, perché finché il modello economico è quello delle quote, conta solo la massa bruta, il numero alla fine dell’addizione e la classifiche, le certificazioni oro-platino-diamante, il culto della personalità sono solo specchietti per le allodole. E che non servano più le hit per registrare aumenti storici di profitto, l’ha detto quest’estate anche il CEO di BMG. Bene, ma a te che ascolti musica e non ci lavori perché dovrebbe interessare? Perché la valanga di musica che ti viene riversata addosso ogni giorno non è un caso, non è la (fortunata?) conseguenza dell’abbassamento della barriera d’accesso al mercato: è una precisa strategia espansiva delle major, e se finisci (anche involontariamente) per rigettarla, per avere disgusto del presente ed essere tentato dalla nostalgia, sappi che non è colpa tua.
Io vedo diverse similitudini tra questa situazione e l’apparente picco dell’industria musicale degli anni ‘90, al quale seguì il disastro totale della cosiddetta era-Napster. Ma quel periodo di transizione fu anche molto vitale. Ne parla il libro di Lizzy Goodman Meet Me In The Bathroom (lo trovi qui o qui), concentrato tutto sulla scena newyorkese dei primi anni Zero, sulla rivoluzione seguita all’esplosione degli Strokes. Gancio perfetto per smettere di parlare di numeri e farti vedere una cosa: il trailer del documentario tratto da quel libro. Il film arriverà a novembre, chissà come lo vedremo noi in Italia. Ma ora piangiamo per i nostri vent’anni e passiamo ad altro.
News
Come anticipato, l’album dei Depeche Mode arriverà in primavera, ne seguirà un tour, in estate (in Italia a luglio per tre date): il titolo è Memento Mori, “ricordati che morirai”. Gore e Gahan - che dicono che sarebbe piaciuto molto a Fletch - hanno cominciato a lavorarci durante la pandemia, e quindi sarà un disco in parte sulla pandemia. (Chissà quando finiranno i dischi scritti in lockdown?)
Fiona Apple ha pubblicato una canzone composta con Bear McCreary che sarà nel finale di The Rings Of Power, la serie Amazon ambientata nel mondo del Signore degli anelli. Sta in esclusiva su Amazon Music, che non abbiamo, quindi dimmi tu come suona.
Questa settimana se n’è andata a 90 anni Loretta Lynn, una leggenda del country che ci ha dimostrato che non tutto ciò che proviene da Nashville è gretto e conservatore, che anche la musica tradizionale può parlare del presente. Della pillola anticoncezionale, ad esempio, e del fatto che le donne devono poter fare sesso per divertirsi e non solo per fare figli.
Salutiamo Loretta e andiamo sui dischi, che questa settimana è dura.
WILLOW, Coping Mechanism
Il quinto album in studio di WILLOW, figlia di Will e Jada Pinkett Smith, è entrato nei miei radar perché sapevo che l’unico featuring sarebbe stato quello di un artista che adoro, Yves Tumor - il quale peraltro vive a Torino. Dopo averlo ascoltato, devo ammettere che Coping Mechanism suona molto meglio di quello che uno si aspetterebbe. L’hanno anticipato dei singoli forti, tipo <maybe> it’s my fault (l’ultimo, che metto qui sotto, invece è un po’ banale) ma insomma, bisogna parlarne.
Nel mainstream più autentico si parla da almeno un paio di anni di revival punk, pop-punk, emo-pop e così via. Questo album riesce a entrare in questo discorso con il vantaggio di non pensarci su troppo, cioè senza il bisogno di usare le “reference” e mostrarle al proprio pubblico in ogni momento - come se poi il pubblico nato dopo il 2000 sapesse cosa farsene, di queste allusioni. Forse c’entra il fatto che non è la prima volta che WILLOW si esprime in questo vernacolo: Lately I Feel Everything, uscito l’anno scorso, faceva già parte di questa wave; e il progetto The Anxiety del 2020, pure. Insomma, l’artista ha esperienza con questo linguaggio, moda o non moda. Detto questo, le canzoni hanno delle influenze evidenti, e a tratti c’è l’impressione del parco giochi anni ‘90-00: Falling Endlessly suona come un pezzo dei No Doubt; WHY? inizia un po’ Nine Inch Nails e poi fa una deviazione Paramore; ci sono cose che riecheggiano i primi Muse e altre che sono puro abbecedario grunge. In playlist volevo mettere il brano con Yves Tumor, che ha un groove post-punk con questa voce robotica che si scontra con lo scream di WILLOW. Ma la traccia di chiusura, BATSHIT!, ha un tiro troppo forte (e usa una progressione armonica non banale), quindi tu parti dalla fine e poi risali al resto del disco, perché appunto ne vale la pena.
Sorry, Anywhere But Here
Il secondo album della band inglese Sorry, Anywhere But Here, è stato prodotto da Adrian Utley dei Portishead, e si sente. Non solo perché il trip-hop e le sue atmosfere acquatiche sono entrate nel calderone già abbastanza ricolmo di spunti del gruppo, un po’ massimalista. Ma perché quel senso di non-finito e di sottinteso che la band ha sempre avuto qui è elevato a estetica: non significa che le canzoni siano lasciate a metà, ma che diano sempre l’impressione di avere alle spalle un mondo più vasto di quello che presentano all’ascoltatore. L’abbondanza di riff, idee, parole lo lascia intendere chiaramente, ma non te le trovi tutte davanti in ogni momento: anzi, scrivendo Asha Lorenz pratica la massima di Orazio, “stylum vertas”, cioè “cancella spesso”. L’opposto di quello che, con una locuzione inglese perfetta, viene definito “kitchen sink” (“lavandino della cucina”), cioè quei progetti dove si butta dentro tutto, a volte finendo per strabordare e facendo un casino sul pavimento. Invece i Sorry non fanno mai arrivare le loro canzoni al troppo-pieno, sanno quando togliere, quando frenare. Anche perché la parsimonia è importante quando si vuole parlare di angoscia, fastidio, malinconia: la negatività pervade tutti i testi, ma per rappresentare autenticamente la depressione deve essere pervasiva e sottile, e quindi serve una certa misura. Oltre ai singoli, molti dei quali già segnalati, come la bellissima apertura Let The Lights On (che poi è abbastanza “up” rispetto ai discorsi di prima), i pezzi validi sono tanti: c’è Step che batte come il cuore di una persona ansiosa; c’è Screaming in the Rain, un blues che odora di pioggia londinese; c’è Tell Me che scotta come il bollitore nel quale hai scaldato l’acqua per i ramen istantanei. Ne scelgo un’altra, I Miss The Fool, ma vai a sentirlo tutto, se hai bisogno di un disco triste.
Marco Mengoni, MATERIA (PELLE)
Marco Mengoni pubblica la seconda parte della sua trilogia MATERIA, dedicata questa volta all’epidermide. Io, in quanto ultratrentenne barbuto e grasso, sono più tipo da Mengoni in versione soul, quello che ci era stato presentato in MATERIA (TERRA). Quella parte del percorso voleva guardare indietro, alle radici. PELLE, invece, è un po’ la carta d’identità dell’artista, la sua “pelle” nel senso dello strato esterno che tutti possono vedere. In questa carta d’identità la fotografia è Atlantico, l’ultimo disco prima dell’attuale progetto: ci sono i pezzi alla Mahmood, che in quell’album fu tra gli autori (Chiedimi come sto con Bresh, non firmata da Mahmood per la cronaca); c’è lo stesso filo rosso caraibico (Respira; Neruda; Unatoka Wapi, che ha anche un basso 808 impressionante); ci sono cose più pacate, come il duetto abbastanza enigmatico con Samuele Bersani; e poi i pezzi danzerecci, che qui si distinguono in modo più evidente. In playlist abbiamo messo Attraverso Te perché alla Rappresentante di Lista non possiamo dire di no. Ma secondo me è sul terzo capitolo che si giocherà davvero il successo di questa trilogia, se - come spero - sarà concentrato sul futuro. Questo è un passo intermedio che non mi ha lasciato molto altro da dire.
Gilla Band, Most Normal
Il terzo album dei Gilla Band, band noise irlandese nota fino all’anno scorso come Girl Band, si intitola Most Normal. Alla faccia della normalità, qui tutto cospira a scassarti le orecchie: ma ti consiglio di lasciarli fare, se hai voglia di provare su disco l’esperienza viscerale della musica dal vivo. Certa musica dal vivo, perlomeno. Nei pezzi si sente il nichilismo del noise, ma è un divertentissimo nichilismo. Pezzi come Pratfall dove il panning (cioè quando, per capirci, senti uno strumento passare dal canale destro a quello sinistro dei tuoi auricolari) ti dà la sensazione tattile del caos circostante; come The Weirds, una corsa campestre in periferia che lungo quasi 7 minuti ti porta da un incidente nella pressa a una marcia neniosa; come l’intro The Gum, che ha una vocazione industrial quasi stolta; ma anche pezzi come I Was Away che sgambettando come un post-punk non ti fa pesare la sua complessità metrico-ritmica; o Almost Soon che sembra una canzone degli Strokes che salta nel giradischi e alla quale qualcuno per scherzo alza il volume in modo stupido. Pezzi così, per gente come me, sono uno spasso: se non ti disturba sentire persone adulte strillare e fare un chiasso tremendo, lo saranno anche per te.
Will Sheff, Nothing Special
Passiamo dalle strade grigie di Dublino ai panorami naturali dello Yosemite. Il primo album a proprio nome del leader degli Okkervil River, Will Sheff, si intitola Nothing Special: il titolo viene da un mantra degli Alcolisti Anonimi e Narcotici Anonimi, che serve a illustrare in modo chiaro a lotta con le proprie dipendenze che il suo dolore non è niente di speciale, che non può essere la caratteristica che lo definisce. Quante volte la musica pop, e in particolare quella con i pensierini e il broncio, ha invece l’atteggiamento inverso: la tua lotta è speciale, ti distingue da tutti gli altri. Questo album fa l’inverso: racconta di traumi, perdite e realizzazioni cercando di usare la disillusione verso certi miti: il mito della nostalgia; il mito dell’innocenza. Eppure non c’è cinismo, ma tanta empatia. L’esempio migliore forse è rappresentato dalla title-track, un omaggio toccante all’ex componente degli Okkervil River Travis Nelson, morto nell’aprile 2020 (è uscita ad agosto, te l’abbiamo segnalata allora). In playlist mettiamo Holy Man, che secondo Will Sheff è la migliore canzone mai scritta da Will Sheff.
Alvvays, Blue Rev
Come sai, in inglese “blue” non è solo un colore, ma si traduce anche come “triste, malinconico”. Il terzo album delle canadesi Alvvays è Blue (Rev) di nome e di fatto. Nel senso che la formula indie pop agrodolce dei primi due dischi non basta più, serve qualcosa di autentico, della commozione. I singoli lo hanno dimostrato in parte (specialmente Belinda Says, che andava quasi sul dream-pop), ma il disco lo dice chiaramente. Tipo in Velveteen dove l'andatura disillusa alla Smiths ha bisogno a un certo punto di un bridge alla U2. I testi di Molly Rankin non sono autobiografici, sono ispirati a racconti e storie che sente in giro o che legge, quindi non va presa come un’ammissione di debolezza. Piuttosto, come una considerazione sul potere del racconto, che non può essere sempre esterno e distaccato. A un certo punto bisogna calarcisi dentro, partecipare. Quindi anche se le loro canzoni sembrano sempre arrivare da un paio di cuffie rotte, c'è molto più calore del solito. Ho scelto una canzone, Tile By Tile, che in più si fonda molto meno sulla chitarra e più sulla tastiera. Perché questo disco vuole dirci che possiamo cambiare.
King Gizzard & The Lizard Wizard, Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms and Lava
Ice, Death, Planets, Lungs, Mushrooms and Lava degli australiani King Gizzard & The Lizard Wizard è il primo di tre album che la band pubblicherà nel giro di un mese. La metodologia dietro il progetto è questa: per ogni disco viene scelto un tempo (cioè un BPM fisso) e un modo (cioè una certa disposizione degli accordi nella scala), e da lì si procede suonando jam in studio e registrando il risultato. Cioè queste canzoni, e quelle che verranno. Un po’ per l’approccio e un po’ per formazione del gruppo, tutto suono molto psichedelia anni ‘60, e non in modo banale: lo senti nelle incursioni a tradimento di proto-funk, proto-heavy metal e proto-jazz fusion che facevano capolino anche in molto psych rock dell’epoca. Questa settimana ci sono diversi dischi “difficili”, ma questo è quello che ti farà sentire meglio, alla fine.
WISM, PAZIENZA
A un certo punto, nel mezzo di ANGELO, c’è un sax che suona una cosa piccolissima prima di essere sommerso da una tastierina firulante, che suona un motivo che la chitarra riprende e varia ma solo per due battute alla fine delle strofe: è così, costruendo pezzo su pezzo, che secondo me si dovrebbero fare le canzoni, piantando semi e non solo aspettandosi frutti pompati a dismisura (e questa settimana sono rimaste fuori dalla playlist diverse canzoni pompate). Poi su questo primo album di WISM, al secolo Gabriele Terlizzi, si potrebbero sprecare altre parole: fusione; hip-hop; pop; indie; urban. E si potrebbe fare name-dropping, tipo Franco126 con il quale WISM suona da tre anni. E invece dico solo questo, e aggiungo ascoltati anche il resto: PUTTANATE che avevamo già messo in playlist; RAGNI che è una ballad senza birignao; PACEMAKER che è un paio di pantaloni di velluto fuori moda che ti stanno benissimo. Per me sono le migliori canzoni in italiano uscite questa settimana.
Altri dischi, in breve
In generale, avrai capito, è una settimana di dischi massimalisti: pieni di roba, senza compromessi, esagerati. Stranamente lo è anche Pad dei Peel Dream Magazine, una specie di disco chamber-pop da meditazione ma fittissimo di spunti: a primo ascolto sembra il reperto di una sfigata band soft rock, sbucato dall’archivio del padre di qualcuno 40 anni dopo, ma dentro c’è la nonchalance del lo-fi pur essendo hi-fi, diciamo mid-fi; l’ethos del rock alternativo pur sfoggiando momenti bossa nova o smooth jazz; l’atmosfera del dream-pop senza (troppi) allucinogeni; l’eleganza, ma un po’ sdrucita. Forse il disco più strano della settimana: a tratti irritante, eppure affascinante.
Charlie Puth ha pubblicato il suo album eponimo CHARLIE, un pop che non finge di essere altro, che non prova a fare turismo in questo o quest’altro trend, ma non per questo ti tratta da cretino. C’è una differenza tra puntare al ribasso ed essere popolari con intelligenza. Puth ha quella sapienza da Berklee College of Music, da persona con l’orecchio assoluto (entrambe cose che fanno parte del suo curriculum), che spesso restituisce canzoni fredde o macchinose. Invece anche nelle canzoni d’amore un po’ più scontate si sentono una genuinità e una scioltezza: sarà che la produzione non è spalmata di wall of sound insensati? Forse. Lo riascolterò? No, ma non mi ha offeso.
Please Have a Seat di NNAMDÏ, musicista e cantante di Chicago, è un disco di melodie che sul momento sembrano passarti sopra, e invece ti restano appiccicate. Gli ingredienti sono abbastanza disparati e soprattutto abbondanti: indie rock dinoccolato; nu soul minimalista; prog del terzo millennio; j-rock in giacca di jeans; dance intimista. Alcuni pezzi cambiano direzione tre o quattro volte, tipo ANXIOUS EATER. C’è un pezzo che si intitola BENCHED che non riesce a non farmi pensare ai Postal Service. E poi fa tutto questo senza suonare come un assoluto casino, sia in termini di costruzione sia in termini di suono: è quella chiarezza che ti lascia appiccicate le cose. Vale la pena tornarci e ritornarci, per perdersi nei dettagli.
CHAOS NOW* di Jean Dawson è un altro disco massimalista che fa il mescolone: quel bibitone a base di hip-hop e alt rock che il musicista messicano-americano classe 1995 ha perfezionato lungo tutta la sua breve carriera. Forse i pezzi più da stadio di questa settimana stanno su questo progetto: tipo GLORY*, che ha anche la sfrontatezza un po’ adolescente di versi come “La mia ex pensa che io sia un cazzone: lo sono”. Cosa gli vuoi dire? Per me è l’highlight del disco insieme a 0-HEROES* e HUH*, ma c’è tanto da ascoltare con profitto qui dentro. Come dicevamo per WILLOW, se vuoi usare le chitarre e parlare la lingua dei giovani, lavoraci su, abbraccia la scelta non solo come stile di vita generico: non fare il Machine Gun Kelly della situazione, insomma.
Segnalo anche l’EP Motive di Joyce Wrice che contiene alcuni brani prodotti da KAYTRANADA ed è un bell’R&B avvolgente ma sghembo, di grande gusto. Come nella canzone che ho incluso in playlist, Lookin For Ya: sembra un pezzo prodotto dai Neptunes, se i Neptunes fossero nati 20 anni dopo. Un altro EP bello è quello di tre brani di AINÉ, NHP+, che continua a essere una bellissima voce del pop soul italiano. E segnalo anche Component System With The Auto Reverse di Open Mike Eagle, il disco rap migliore della settimana (non dirmi che dovevo ascoltare anche Quavo e Takeoff, ti prego…): ho messo in playlist un pezzone prodotto da Madlib, ma a sentirlo tutto ci si rifanno le orecchie.
A proposito di rap, è uscito anche un disco di Mondo Marcio, si intitola Magico e contiene più flow di tanti furbetti del quartierino del rap che vanno in giro con le pistole come degli asini. La title-track con Gemitaiz è la mia preferita, ma il disco è abbastanza discontinuo. In ambito rap italiano segnalo anche l’omaggio ai fratelli Cavalera di Nex Cassel e Noyz Narcos.
Un disco che troverete in alcune selezioni della settimana, ma secondo me è abbastanza debole è SUCKERPUNCH della youtuber e musicista chloe moriondo, passata dall’indie pop all’hyper-pop con l’agilità di certi politici dopo le elezioni. Che non vuol dire che non si debba cambiare stile, ma qui questo finto-PC Music è molto affettato, sembra un po’ preconfezionato per TikTok, con le pause nei momenti giusti per fare i meme. Comunque non siamo dei mostri, e ho scelto la traccia Cdbaby<3 (cosa potrà saperne una classe 2003 dei cd non lo so, ma va bene) perché avendo questo beat dance dritto che non lascia troppi spazi, la costringe a cedersi completamente a questa estetica. E allora forse vuol dire che non è tutto fake e c’è speranza per il mondo.
C’è anche un nuovo album di Daphni, noto anche come Caribou: si intitola Cherry e non ne so abbastanza di elettronica per parlarne con cognizione, ma ci sento questa bella combinazione di drum machine che non suonano plasticose, tastierine e sintetizzatori analogici (o plug-in che sembrano tali) da lasciarmi incantato. Dentro c’è un pezzo discomusic che si intitola Take Two che è irresistibile, ma in playlist ne ho messo un altro, ma così hai una scusa per recuperare tutto.
Ultime segnalazioni, Hysteria dell’australiana Indigo Sparke: si piange. Desperately Imagining Someplace Quiet degli americani Disq: un altro disco massimalista di una settimana che va così.
SINGOLI
Abbiamo parlato tanto di album, quindi sui singoli sarò sintetico. Diamo il bentornato a Fever Ray, l’artista svedese al secolo Karin Dreijer - già metà dei The Knife con il fratello Olof, duo che si è sciolto nel 2014 - ha pubblicato la prima musica inedita da 5 anni a questa parte (l’album Plunge, una delle cose migliori uscite nel decennio scorso, è del 2017). What They Call Us è una canzone ridotta all’osso, fatta solo di idee e sentimenti. Fai attenzione, specie se annuncerà concerti perché posso dire che il live del Fabrique del 2017 fu una delle cose più fenomenali viste dal vivo nella mia vita.
Una canzone quasi a cappella è anche La Única di Kali Uchis (da non confondere con L’unica dei Perturbazione) e Kali ha sempre un posto nella nostra playlist. Poco accompagnamento, ma giusto, c’è anche in uno dei pezzi più straordinari della settimana: si intitola Non voglio mai vedere il sole tramontare, ed è il primo brano a uscire di un’opera ispirata al film Last Days di Gus Van Sant (quello sugli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain che però non si poteva dire che era Kurt Cobain). L’opera andrà in scena alla Royal Opera House di Londra a partire da stasera. La canzone - anzi l’aria - è interpretata da Caroline Polachek, che fa una figura assolutamente impressionante da soprano di coloratura (è il ruolo della regina della notte nel Flauto magico di Mozart, per capirci).
Rimanendo in ambito classicheggiante segnalo qui - in modo irrituale - anche due album di artisti italiani che stanno un po’ a cavallo della classica. Il primo è Valerio Bulla di Valerio Bulla, musicista ma anche fotografo e autore di copertine di moltissimi dischi amatissimi dell’indie italiano: non c’entra nulla con l’indie, dimentica quella cosa (a parte i messaggi vocali con forte accento romano che si sentono nel disco) e pensa a un disco tastieristico/pianistico che sembra registrato dentro una caverna, solo che quella caverna è dentro di te (cit.). Il secondo è di Federico Mecozzi, violinista che da 13 anni suona con Ludovico Einaudi, e porta un po’ quel modo di concepire la musica: movimenti circolari, motivi che una volta ripetuti si slogano la mascella e sembrano dire tutt’altra cosa, elettronica il giusto.
Se devi ascoltare una sola canzone con le parole “the loneliest” nel titolo, ascolta The Loneliest Time di Carly Rae Jepsen featuring Rufus Wainwright, che è setosa e divertente, una discoteca per cinquantenni (o trentenni che se ne sentono cinquanta addosso). L’altra, The Loneliest dei Måneskin, non è male, meglio di Supermodel che come sai a noi non è piaciuta per niente, ma sembra un po’ un incrocio tra Sign Of The Times di Harry Styles e Happier Than Ever di Billie Eilish, ma senza la produzione elegante e senza la pacca, rispettivamente, quindi, boh. Dai sì, forza Italia. Ah no, non si dice.
Rapidamente, sono tornati i Coma_Cose, con un pezzo che richiama molto quel senso di perdita e quel gusto indie rock di Nostralgia. Ci piacciono, anche se la voce di California e di Fausto ha qualcosa di strano, forse un po’ di autotune? Coez ha pubblicato il primo brano dal prossimo disco “live” From The Rooftop ed è Fuori Orario di Guè: eh oh, che devo dire, è bella. Viene da dare davvero il premio Strega all’ex Pequeno (il Nobel è andato, mi spiace).
Poi c’è un nuovo singolo di Jazmine Sullivan - ti ho già fatto una testa così su Heaux Tales, il suo disco del 2021? Beh, è tipo un disco R&B perfetto, vallo a sentire. Questa canzone è la colonna sonora di un film sulla storia della madre di Emmett Till, linciato a 14 anni nel 1955: insomma si piange, per il film probabilmente e sicuramente per questo pezzo.
Poi due nostre vecchie conoscenze: voodoo kid (qui una nostra vecchia intervista) che ha pubblicato forse il suo singolo più pop, guardare giù; e MILLE (vedi qui) la quale ha tirato fuori un pezzo, Monsieur Malheur, che sembra Nada degli anni ‘80, mentre Nada ha pubblicato un album solista di cui non ti ho parlato, ma che abbiamo ovviamente in playlist, perché Nada è un tesoro nazionale e va protetta a tutti i costi. Restando in Italia, la band The Smile (non quella di Thom Yorke) ha cambiato nome in The Wends, per porre fine all’equivoco: nessun equivoco sul fatto che suonano manate in faccia: lo senti come si scrivono canzoni? No, ti interessano solo le vibez?
Allora in alto nella playlist trovi Juice Of Mandarins delle Ibeyi, che qualche settimana fa era uscita nella versione di Colors: il pezzo è dolcissimo, gruvoso, loro dovrebbero essere più ascoltate, e prova a dire che non hanno vibez loro.
Poi, è tornato Hozier con un pezzo contro il patriarcato; è tornata Sharon Van Etten; è tornato Neil Young (ma lo senti solo su Apple Music). In fondo, come sempre, si balla. Ma si pensa, anche: prima dei pezzi dance, ci sono alcune uscite più meditative.
Una lettura
Al volo (anche perché a rigore ti ho già suggerito un libro, su in cima): Mike Patton ha fatto una bellissima intervista retrospettiva su Bandcamp, nella quale parla di alcuni dei suoi mille progetti, non sempre i più scontati, e dice “i cantanti sono dei fottuti idioti”. Ora ho la tua attenzione, eh: si legge qui.
Ciao Louder.
Madò, terribile il disco di Chloe Moriondo, soprattutto pensando a quello che faceva (o che le facevano fare) fino a un annetto fa.