Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E06: un giorno tutte queste vibe saranno tue
0:00
Current time: 0:00 / Total time: -31:36
-31:36

Pioveranno venerdì S02E06: un giorno tutte queste vibe saranno tue

25 febbraio / 3 marzo: quasi cento canzoni e una storia PAZZESCA
consideralo uno spoiler

Ciao Louder,

Non so se hai mai sentito parlare di “vibes”, sicuramente sì. Prima dei dischi di questa settimana e raccontarti una storia pazzesca (arriva alla fine, nel caso volessi skippare) mi soffermo un attimo qui, perché ha senso. Senza stare a farti una storia del termine, si tratta di una parola che usiamo per definire le impressioni che una persona o un certo prodotto culturale provocano in noi spettatori/ascoltatori/consumatori. La sua origine si trova nel lessico New Age, e - come spiegato bene in questo articolo dell’Atlantic - il suo sinonimo più serioso sarebbe carisma: in modo incredibilmente intuitivo, potremmo dire che - ad esempio - un artista ci dà delle particolari vibes quando la sua musica ci raggiunge metaforicamente con un certo livello di senso e non altri, significando certe cose che siamo pronti a ricevere e non altre, analogamente alla vibrazione (appunto) di un’onda marina che colpisce la scogliera a una certa altezza. Insomma, quando diciamo che un disco o un film “ci dà delle vibes di [inserire altro soggetto culturale]” stiamo non soltanto usando una similitudine, ma stiamo mettendo al centro dell’interpretazione la nostra percezione, le impressioni che quest’opera lascia su di noi, e non su altri. Perché faccio questa premessa? Siamo finalmente diventati una newsletter di semiotica? No, le ragioni sono due.

Prima di tutto, questa settimana ho visto un saggio su YouTube (questo qua sopra) che ti consiglio di guardare, quando avrai tre quarti d’ora liberi. La videosaggista, Lily Alexandre, parla delle aesthetics (specificamente nel mondo dell’arte, ma il suo messaggio si può applicare alla cultura in generale). Una aesthetic è - di fatto - una mood board, un trend composto da un insieme sparso di spunti visuali che dovrebbero definire una corrente (appunto) estetica; ma, nell’accezione digitale attuale, queste aesthetic non si basano su determinati canoni (visivi/lirici/sonori/etc.) stabiliti o concordati dai creatori dei prodotti che vengono accomunati, ma su un’associazione soggettiva basata sul gusto dell’osservatore. In questo modo le aesthetics non definiscono una corrente, semmai circoscrivono un’impressione personale. Sono una vibe, e come tale non contribuiscono alla produzione di nuova cultura, ma danno una lente (incredibilmente soggettiva) solo per trovare senso nel caos. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che tra sovrapposizioni di categorie e invenzione di trend subatomici, si finisce per introdurre più caos di quanto ve ne fosse in principio. Eppure queste etichette circolano regolarmente: weirdcore e Y2K sono già stabilmente parte del linguaggio degli operatori culturali con cui ho a che fare (colleghi giornalisti, influencer, uffici stampa), e altre etichette come normcore sono praticamente ormai archeologiche. E solo in alcuni casi (tipo vaporwave) rispecchiano una scelta specifica degli artisti. Nel resto dei casi sono vibe.

Quindi, seconda ragione di questa intro, penso che ogni volta che parliamo di musica dobbiamo interrogarci su quali etichette stiamo usando, se sono frutto di una nostra semplice vibe o di un’esplicita e consapevole scelta dell’artista in questione, se contribuiscono o meno alla comprensione, e anche se gli artisti stessi vi aderiscono per convenienza o no. Questa settimana abbiamo ad esempio un rapper che non fa un disco rap, ma che verrà comunque definito rap da molti per comodità e per le vibe che restituisce; e viceversa abbiamo (almeno due) dischi costruiti con una precisissima estetica in mente, per assomigliare alla musica di un certo periodo e prodotta da certi artisti. Bisogna saper distinguere queste cose, prima di tutto per rendere chiare le proprie considerazioni a chi sta leggendo o ascoltando.

Qui trovi la playlist con tutte le uscite di venerdì 3 marzo (su Spotify e su AppleMusic) e come dice uno più bravo di me, “cominciamo”.

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati: 32 album, 2 EP, 129 singoli

slowthai, UGLY

Ascoltando e riascoltando il nuovo album di slowthai ho pensato allo spaesamento che deve aver provato un comune recensore di musica alternativa che, dopo 15 anni di chitarre chitarre chitarre, nei primi anni 2000 si è trovato davanti dischi pieni di tastiere e drum machine. Deve essere stato uno shock, per chi non si era fatto le spalle larghe ascoltando anche altro. Bene, penso che alcuni colleghi che nell’ultimo decennio si sono nutriti soltanto di rap avranno qualche difficoltà a recensire UGLY. Con l’aggravante che slowthai ha sempre corteggiato altri generi, e la sua estetica (wink wink) raramente si è allineata a quella dei suoi contemporanei che fanno generi profondamente identificati con il rap, come drill o grime. UGLY è per il 90% un disco post-punk, cioè un disco fatto di recitativi disperati, bassi ostinati e secchi, batterie asciutte e martellanti, tanti staccati.

Ma anche definirlo così è riduttivo, perché dentro ad esempio c’è anche molta elettronica, con evidenti ispirazioni bigbeat inglese, house cazzuta, techno rave: sempre roba poco rap. E va bene così, è dal 2018 (Doorman) che slowthai sembra altro, e sembra altro anche nella mancanza totale di indulgenza con cui devasta la propria autostima, con cui mostra in modo disgustoso i propri difetti. Insomma, il contrario di quei presunti dischi di autoanalisi che ogni tanto gli artisti di oggi ci vogliono spacciare. Qui non c’è nessuna pietà, e fortunatamente il tiro è sempre alto e quindi non abbiamo un momento per crogiolarci in questo mare di merda nel quale slowthai si fa due belle bracciate: le melodie di pezzi come Ugly, Happy, Tourniquet sono forti, ti tirano in mezzo. E il fatto che l’artista inglese le canti “male”, o meglio in modo poco educato, non fa altro che contribuire al senso di verità di un disco sporco in un mondo di pitch-correction e voci tutte uguali.

Un piccolo capitolo se lo merita la canzone che ho selezionato, Sooner: tra gli autori del brano si leggono Pace-Panzeri-Pilat (anche se Amadeus non vorrebbe che leggessimo solo i cognomi). Insomma, “c’è un po’ di Italia” - come dice il TG1 - perché la canzone questo piglio garage rock lo prende direttamente alla fonte. Che non sarebbe la canzone di partenza, Uno tranquillo di Riccardo Del Turco (peraltro canzone anti-swag per eccellenza, anche se non mi sento di definire “tranquillo” Tyron Frampton), ma la versione inglese della band Tremeloes, intitolata Suddenly You Love Me, anno 1968 (peraltro accompagnata da un video stupendo, molto britpop).

Non sono riuscito bene a capire se il credito sia per un sample (gli “uh-uh” all’inizio?) o per una generica ispirazione, che ormai nessuno si scorderebbe di accreditare per com’è diventata la giurisprudenza dei diritti d’autore. Comunque, i Tremeloes sono passati alla storia come la band che i discografici della Decca preferirono ai Beatles, una storia di sbagli senza alcun tipo di redenzione. Proprio come questo disco di slowthai.


Kali Uchis, Red Moon In Venus

Premetto che non so nulla di astrologia e oroscopi, e mi va benissimo così. Nel senso che un po’ mi irritano le persone che giudicano il tuo comportamento in base al tuo segno zodiacale (conosco una persona che mi ha detto che per questa ragione sono “un tipico Leone” e a questa persona dico, ciao Ludo, mannaggia a te). Mi spiace però non avere il contesto sufficiente per comprenderne l’uso che se ne fa a fini artistici o culturali, come nel caso di Kali Uchis che - a prescindere dalla sua adesione o meno ai dettami astrologici - ha usato il simbolismo della Luna e di Venere per scrivere un disco sull’amore in totale prospettiva femminile. (Vedi che alla fine qualcosa la so...). Mi spiace anche perché non potrò mai apprezzare la sua funzione di linguaggio delle minoranze (un discorso che esiste da almeno 50 anni). Quindi, non potrò dire molto del livello tematico del disco. Provo a dire qualcosa sulla musica in senso stretto, che è comunque eccellente

Per certi versi Red Moon In Venus è un ritorno alla Kali di Isolation: un pezzo come After The Storm ci sarebbe stato benissimo in questo album, e la generale attenzione ai suoni e alle maniere dell’R&B rispetto al pop latino ne fa un nuovo capitolo nella peculiare discografia di un’artista in grado di operare una sorta di code switching efficacissimo tra la sua identità colombiana e quella americana. Non a caso Kali, arrivata finalmente a una notorietà mainstream grazie a telepatía, ha promesso che nel 2023 avrebbe pubblicato un album principalmente in inglese e uno in spagnolo. Questa è la prima metà di quella promessa, ed è mantenuta in modo eccellente. Se il primo brano I Wish You Roses o la collaborazione con il suo compagno Fantasy sembrano prevedibilmente più in sintonia con le sensibilità pop (urban) del momento, altrove si fa un lavoro archeologico per raccogliere spunti lontani fra loro e riscrivere una tradizione R&B originale, che rispecchi la natura di Kali, un’artista in ugual misura diva glamour e ragazza di borgata. Una canzone come Worth The Wait con Omar Apollo presenta un blend davvero convincente del ruvido e del raffinato, del groove ancorato ai bassi e dell’etereo delle armonie vocali, scegliendo di unire in un solo solco la Stax Records, ma anche il Philly Soul e i Soulquarians. Nota anche il modo in cui la rilettura dei Tempress (Love… Can Be So Wonderful) in Love Between lasci spazio a stacchi strumentali chitarristici così tipicamente Daptone Records. O ancora i rimandi slow disco di Endlessly. Insomma, è veramente un disco da ascoltare e riascoltare per cogliere la vibe di Kali (oops). Forse non c’è la hit, ma chi se ne frega della hit, per una volta.


Kate NV, Wow

Wow di Kate NV è un disco talmente gioioso che non posso non consigliarti di ascoltarlo se la tua giornata o la tua settimana è stata penosa. La prima cosa che penserai quando lo metterai su è “vecchi videogame”. E senza dubbio la musicista, al secolo Ekaterina Shilosonova, raccoglie molto dal mondo delle console 16-bit (Super NES, Neo Geo, Sega Mega Drive, Game Boy): i suoni, cioè i timbri, senza dubbio; ma in generale il modo di creare armonie e melodie complesse in un contesto a bassa (o nulla) polifonia, cioè quando non puoi schiacciare più di una nota alla volta. Così l’impressione è di trovarsi in uno schema di Zelda musicato da un Philip Glass con uno spiccato senso dell’umorismo (Confessions At The Dinner Table). Contrappunto e minimalismo (nel senso della corrente musicale) fanno convergere Wow con il mondo videoludico: in tutti e tre, detto in modo supersemplice, le note si sovrappongono e si inseguono, e dall’apparente caos emergono pattern, strutture riconoscibili. Ma chiaramente questo non è un disco da retrogaming. Anzi, è un disco di esplorazione, letteralmente: la musicista testa le capacità delle sue macchine, sonda i suoni e li modifica in corso d’opera mentre i loop sono già partiti (senti quella specie di muggito in Nochoi Zvonok (Night Call) che poi all’improvviso scompare). In una parola: gioca. Gioca prima di tutto con i sample di strumenti malfunzionanti o di rumori caotici: clarinetti stonati e trombette di gomma in Early Bird, cucchiaini che cascano in Mi (We); e sta alla direttrice di quest’orchestra senza senso trovare una direzione, trovare un senso nel caos. L’esito è divertente, ovvio, ma non è tutto qui. Lo dimostra il fatto che non sempre le tracce sono esattamente easy listening: come Razmishleine (Thinking) un mantra che esige astrazione e attenzione; o Flu con un flauto imbizzarrito che ha qualcosa del free jazz. Non sono dettagli da poco. In un’intervista a Crack Kate NV ha dichiarato di essersi posta la domanda se pubblicare musica così gioiosa fosse troppo straniante in un’epoca tanto oscura, e si è risposta che c’è differenza tra careless e carefree: il gioco è un atto politico di liberazione, non necessariamente una forma di escapismo. Anzi, è un appello a diventare creatori di realtà alternative, possibilmente pacifiche, demiurghi nel disordine. In playlist metto la prima traccia, perché ha un basso slappato troppo carino. Ma ascolta tutto il disco, ne vale la pena.

Peraltro Kate NV fa parte anche del duo Decisive Pink di cui troverai un singolo. Entrambi i progetti saranno alla fine della playlist dove sta tutta la roba dance ed elettronica. A proposito, dovrei smettere di comporre così la tracklist? Mi sembra più comodo per chi ascolta, ma magari no. Fammi sapere.

Share

Gli altri album, in breve

Forse raggiungiamo il record di tracce della playlist (ma comunque poi si ritrova tutto nella playlist Archivio, non dimenticarlo: su Spotify e su Apple Music), perché è stata una settimana densa. Non con la stessa qualità media della scorsa settimana, e infatti ho scelto di fare il focus solo su tre album. Ma tanta tanta roba alla quale vale la pena dare un ascolto.

Tipo, in modo inaspettato, un disco shoegaze brasiliano intitolato olhar pra trás della band terraplana. Ti ho messo la traccia finale, me encontrar, che ha un trasporto contagioso.

Goodnight Neanderthal è il secondo album del progetto australiano Gee Tee, creazione dell’artista incappucciato di Sydney che di nome fa Kel Mason. Con meno di 20 minuti di durata e un buzz che ronza nell’orecchio dalla prima all’ultima traccia, non si può definire se non come un disco punk, di quelli che sembrano registrati su troppe cassette. In realtà, tutto si sente come e dove si deve sentire, soprattutto le tonnellate di hook pazzeschi, ora nelle tastierine sghembe (Stuck Down; Cell Damage), ora nelle melodie vocali che molti artisti pop venderebbero la mamma per avere (Rock Phone), ora in entrambi (Goodnight Neanderthal). Alla bassa definizione di questo garage rock sputato in faccia corrisponde un’alta tensione quasi cartoonesca dei testi: macchine veloci, battaglie mortali, ma in Warhammer 40,000 (40k), uova marce e mazzate in testa che non fanno male. Se non hai problemi con i dischi che fanno bzzzz, è straconsigliato.

Brothers & Sisters di Steve Mason, quinto album a suo nome per il musicista scozzese di lungo corso (Beta Band, Black Affair, King Biscuit Time). Ha due pezzi belli con il cantante pakistano di Bollywood Javed Pashir, ma te li abbiamo già consigliati in passato (No More; Brixton Fish Fry). Ci sono un paio di brani, Let It Go e Travelling Hard, che mi hanno fatto pensare ai Police - ma saranno sicuramente solo vibes (non se ne esce!). In generale è un disco che riesce a raggiungere un equilibrio tra materialistico e spirituale, entusiasta e disincantato. Molto interessante.

Interessante anche Field Of Appearances, degli Object of Affection, una band creata da quattro artisti provenienti da altrettante band della scena hardcore e post-hardcore principalmente californiana, che una volta uniti hanno prodotto un suono con rimandi alla new wave (Laying Claim) o all’alt-rock anni ‘80 americano alla Pixies e Hüsker Dü (Buried), e diverse aperture melodiche (Run Back), che ne fanno un ascolto non pesante.

Altre chitarre in Do Ya? di meija, e Idiot Paradise dei belgi DIRK.: bel carisma, il primo; gran bei suoni il secondo, davvero una piccola sorpresa per quanta emozione, rabbia, commozione tiri fuori. A proposito, un bel disco punk con il cuore grande grande è Walk The Wheel dei Truth Cult, saltuariamente strillato, sempre esageratamente melodico.

Masego di Masego è piacevolissimo, come al solito, nel suo mescolone di hip-hop, soul, stavolta anche un po’ afrobeat. Peraltro in Remembering Sundays c’è lo zampino di Braxton Cook di cui ho parlato la scorsa settimana per il disco in cui c’era lo zampino di Masego. Metto in playlist What You Wanna Try che riutilizza un pezzetto di melodia di Tom’s Diner e un pezzetto di What’s Your Flava, dimostrando come si fanno le interpolazioni.

Non mi è arrivato invece l’hype per Gumbo di Young Nudy (il cugino di 21 Savage, nepo cousin): bellissimi beat (Shrimp in particolare), ma solita lirica maschia che BOH. Mi è sembrato più originale, in ambito rap (inglese), Somebody’s Child, primo album di Chunky, MC di Manchester con radici in Zimbabwe. Belle produzioni che scompongono il grime e lo fanno interagire con un’elettronica sensibile ai sound della diaspora africana. Il che si accorda bene al tema: la ricerca di identità di un ragazzo sospeso tra mondi diversi. Tanto interessante che qui ti metto una traccia e in playlist ne metto un’altra.

Tra i dischi super popolari, è uscito il nuovo album solista di Macklemore, Ben. La traccia migliore l’avevamo già condivisa, si intitola Heroes feat. DJ Premier. La seconda traccia migliore è quella che viene subito dopo, si intitola Grime e ha un basso che slappa. Il resto è una poltiglia.

Tra i dischi assolutamente non popolari, c’è Ignore Grief degli Xiu Xiu, che è ovviamente distopico, brutale. Ci sono tantissimi archi, tremendi racconti di omicidio e prostituzione, droga e violenza: un ascolto difficile, ma catartico, che per questo ti metto alla fine della playlist. A proposito di cose non proprio per tutti, c’è un nuovo album degli Haken, il primo per la band prog metal londinese dopo l’avvicendamento alle tastiere di Diego Tejeida con il membro fondatore Peter Jones. Si intitola Fauna e la prima traccia, Taurus (che in realtà era già uscita come singolo) ha un bel tiro. Poi ovviamente si dilunga, che vuoi fare, è prog metal…

Nell’intro parlavamo di adesione completa a un canone? Ecco due esempi. Games of Power, del duo canadese Home Front, suona come Echo & The Bunnymen, al limite Joy Division (End Transmission pensavo fosse una cover): pura ortodossia post punk, quasi filologia. Stesso discorso con Love Lines dei Nuovo Testamento, progetto italiano di base in California di Andrea Mantione e Giacomo Zatti, con i testi e la voce di Chelsey Crowley: puro pop anni ‘80 genere italo disco, con richiami evidenti a Raf, Spagna, Ryan Paris.

Passando al lato più poetico e teatrale, c’è un album dei neozelandesi (ma di base a Londra) The Veils, intitolato …And Out Of The Void Came Love, che come il titolo può lasciar intendere è enfatico e filosofico. Perfino un po’ pomposo, tra Berninger e Cave, ma Finn Andrews ha una voce che si lascia ascoltare. Nebbioso e quasi lynchiano è How Do You Find Your Way In The Dark della francesce Cleo T., dream pop di pianoforti, moog e archi, con elementi di Lana Del Rey e di Enya, purtroppo più sfilacciato del necessario.

Restando in Gran Bretagna, il disco dei Lathums, From Nothing To a Little Bit More è destinato a debuttare in posizioni alte nella classifica UK, eppure è abbastanza insulso. Tranne per una canzone uscita da mesi: io la metto così - se vuoi - puoi risalire al disco e dirmi se la pensi come me. Altro nome inglese con hype è quello di Ruel che ha pubblicato il suo primo LP, 4TH WALL, una specie di concept sulla messinscena della nostra vita sui social. Su di lui RCA ha investito lanciando sei singoli, ma per me sembrano tutti dei PENSIERINI™: segnalo la prima traccia, Go On Without Me, che potrebbe piacerti se sei fan dei 1975.

Senza hype è Foreground Music di Ron Gallo. La title-track l’abbiamo segnalata l’anno scorso, e il disco intero mantiene la promessa: garage rock grezzo ma con tante aperture melodiche e vestiti armonici country, soul, psych. “C’è un po’ di Italia” (due volte in un episodio!) perché suona e produce anche la moglie di Ron, abilissima bassista, violoncellista e artista featured di una traccia. La voce di Ron è spesso in soffitta e questo aumenta la distanza utile per la satira, perché questo è un disco che - ora con più dolcezza, ora in modo urticante - critica aspramente capitalismo, xenofobia, America, maschi. E non ho nulla in contrario.

Un disco con un certo peso concettuale-politico è anche I Am The River, The River Is Me dell’australiana Jen Cloher, che cerca di tenere insieme la cultura Maori da cui discende (la madre è neozelandese, delle nazioni Ngāpuhi e Ngāti Kahu) con la sensibilità di una persona cresciuta nel privilegio che cerca di educarsi e crescere. Ci sono tematiche LGBTQ, ecologiche, anticolonialiste, ma senza salire in cattedra o buttare tutto al rogo. Il titolo, che traduce un proverbio Maori, piuttosto potrebbe sembrare “hippie”, ma ci sono anche frangenti amari e disillusi, come Protest Song. Nonostante alcune debolezze naif, è un buon ascolto.

Di italiani abbiamo La Belle Époque di LefrasiincompiutediElena, che regala momenti di chitarra vibranti. Una menzione non può non averla i mostri col c***o che si nascondono sotto le lenzuola di ciliegia suicidio. Non ho idea di chi sia, non so assolutamente nulla di lui, e forse non voglio saperlo, ma il suo è il disco più vicino al concetto di outsider music che ti capiterà di sentire questa settimana. Non vorrei osare un paragone con Daniel Johnston, però è tanta roba.

C’è anche un album di Gianni Morandi, con singoli vecchi e nuovi: si intitola Evviva, ha una title-track con l’ormai inseparabile Jovanotti (vogliamo scommettere su un tour in due GianniJova?). Lo cito per osservare che bisogna davvero aver toccato il fondo - come società, dico - se si esulta per il semplice fatto di essere vivi.

A proposito di essere vivi, Willie Nelson è ancora tra noi e ha pubblicato una raccolta di canzoni di un’altra leggenda del country, Harlan Howard. La mia traccia preferita è Busted, che è un blues di cui esistono versioni adorabili anche di Ray Charles e Johnny Cash (e insieme, che è la meglio). Ma non inserisco niente in playlist, perché non credo ti piaccia il country, Louder. E comunque lui non ne ha bisogno. Però poi non venire a piangere quando, inevitabilmente, zio Willie ci lascerà.

I singoli

Come sempre arriviamo ai singoli con l’acqua alla gola. Dimmi, Louder, dovrei dedicare meno spazio agli album? In ogni caso, in Italia questo venerdì è tornato Diodato: Così speciale è la title-track dell’album che uscirà il 24 marzo, ed è come sempre una spanna sopra al resto del pop per concezione, esecuzione, densità. Per tanti versi è un seguito di Fai rumore, non solo perché fa i conti con la solitudine che abbiamo vissuto subito dopo la vittoria del Festival di Sanremo 2020. Ma ha proprio una costruzione simile a Fai rumore: la voce apre le danze (può permetterselo), segue un accompagnamento essenziale ma con piccoli tocchi unici (il coretto a bocca chiusa nel pre-chorus) che preludono alle aperture successive. Ottima la coda strumentale alla fine, che spero tantissimo abbia un ruolo non solo esornativo ma narrativo nell’economia del disco.

Di nuovo è stata una settimana ricchissima per la musica italiana. Avere fede di Erio, primo singolo del suo primo progetto in italiano in arrivo il 28 marzo, rivela una sensibilità melodica che potrebbe gareggiare con quella di Diodato, ma con più “sporcizia”. Ninfa Aliena della nostra adorata Nava è il rave sotterraneo a Teheran di cui abbiamo bisogno (sta in fondo come tutte le cose danzerecce, no disrespect). Spettro di Gaube mi ha ricordato Iosonouncane, il che promette bene per l’album Kulbars (10 marzo). In Addio sogni di gloria Giuliano Dottori fa i conti con una domanda difficile, cioè “che senso ha fare musica?”, facendola sembrare una domanda esistenziale (perché la è) e non una forma di narcisismo.

Ma a volte, l’abbiamo capito, restituire una vibe (anche vecchia) serve per piazzarsi sul mercato, o servire un preciso intento comunicativo: così ‘O DJ di Liberato, per la colonna sonora del film Mixed By Erry, è un lavoro attento a restituire la pacca della dance che certamente sarà circolata su cassette pirata.

Per finire con gli italiani menzione speciale per averci fatto sentire di nuovo degli under-30 a Mobrici, con la canzone Figli del futuro: una canzone allegra e presa male come non se ne fanno a un po’. Di buon gusto anche la ballad di Bais e Galeffi, Venezia. Segnalo anche Appartamento di ceneri, che ha una voce confidenziale effortless. Bene anche Lovegang126 e Leon Faun e il primo singolo da solista di Federico Dragogna dei Ministri, Dubbi.

Passando alla musica che nessuno in Italia sta ascoltando, innanzitutto c’è un nuovo singolo di Yves Tumor dall’album con il titolo lunghissimo che esce il 17 marzo, e che come in tutte le sue canzoni ha l’ineffabile qualità di sembrare proveniente da un’altra dimensione. Poi, c’è un nuovo singolo delle boygenius, Not Strong Enough, che prevedibilmente è abbastanza perfetto perché cita i Cure e ha la decenza di presentare diversi elementi di un pezzo dei Cure, tipo la chitarrina super-riverberata, e per il verso “always an angel, never a god”. A proposito di rimandi, Miley Cyrus ha pubblicato il demo di Flowers, voce e piano elettrico, e fa assomigliare la sua hit a un inedito di Elton John. Ci sono nuovi singoli di Arlo Parks e Ashnikko che - perdona la mia scarsità nel gossip - ho scoperto stare insieme. E a proposito di tenerezza, su Stereogum c’è un profilo di shalom, che ha pubblicato un bel singolo intitolato Lighter, e nel profilo l’artista sostanzialmente chiede ai lettori di trovarle un lavoro. Ma ci pensi?

Finalmente gli U2 hanno pubblicato una auto-cover migliore dell’originale, dal loro progetto Songs of Surrender. Beautiful Day di cui non avevo mai amato la produzione enfia, è molto più interessante con questi suoni. Non entra in playlist invece la cover non dichiarata di Lumidee fatta da Nicki Minaj. Giù il cappello invece per la cover di ‘Cello Song suonata dai Fontaines D.C. per una compila in onore di Nick Drake in arrivo a luglio.

Poi se dovessi dirti qualche altro nome da andare a cercare in playlist ti direi: waveform*; Califone; Drug Church; Dijon; Sessa; Youth Lagoon; Shygirl feat. Tinashe. Ma tanto lo sai, Louder, la playlist contiene solo cose belle. Tipo il video che gli inossidabili Sparks hanno fatto con Cate effin’ Blanchett.

Ultima nota: la discografia dei De La Soul è finalmente tutta in streaming, tristemente a pochi giorni dalla morte di Trugoy the Dove. Se non li hai mai ascoltati, rimedia adesso.

Per finire, una notizia pazzesca e una lettura

In questo episodio ti ho già consigliato un paio di interviste e qualche approfondimento video lungo. Forse dovrei fare una newsletter solo di “link abbastanza belli” (CIT.): fammi sapere. In ogni caso, venerdì è uscita questa storia su Bloomberg che è semplicemente p a z z e s c a. Pras Michél, un terzo dei Fugees - cioè forse il primo fenomeno mainstream globale del rap, 18 milioni di copie vendute con The Score, 2° posto nella classifica italiana, 1° in mezzo mondo, un Grammy - e quello di Ghetto Supastar, è coinvolto in una storia di spionaggio internazionale. Dopo essere finito nei casini per aver ricevuto donazioni da un miliardario malese avrebbe contrattato la liberazione di un prigioniero con il governo cinese, senza l’autorizzazione del governo americano. E ora rischia di passare decenni in carcere, che al confronto l’evasione fiscale di Lauryn Hill sembra poca cosa. Spero che qualcuno ne tragga un film, o un documentario, perché è assurdo. Tu la puoi leggere qui.

Un'altra lettura: come l'intelligenza artificiale di Google sta cambiando il modo in cui vengono identificati i sample nei beat, cioè le canzoni da cui quei sample sono stati estrapolati. E chi usa WhoSampled per fare causa e fare cassa.

E con questo ho detto tutto. Che vibe hai trovato in questo episodio? Fammelo sapere, magari possiamo coniare un’estetica “Louder caotico”.

Ciao Louder.

Discussion about this podcast

Louder
Pioveranno venerdì
Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché