Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E16 | the comeback kid
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Pioveranno venerdì S02E16 | the comeback kid

venerdì 16 giugno 2023: Sigur Rós, Home Is Where, MAN ON MAN, Killer Mike
il poeta

Ciao Louder,

Per citare il poeta, eccomi qui. No, non sono scomparso. Maggio è stato un mese abbastanza crudele, ma ora ci sono perché altrimenti come faresti a sapere quali canzoni estive ascoltare e quali no? In realtà mi sto già rovinando con le mie stesse mani, perché presto uscirà una puntata speciale per le canzoni dell’estate, quelle che ci meritiamo e quelle che no. Pioveranno venerdì parla di album, principalmente. E da oggi lo farò in un modo un pochino diverso: nella newsletter continuerai a leggere le recensioni dei dischi che mi hanno interessato/sorpreso di più o che mi sento più caldamente (avverbio appropriato) di consigliarti. Tutti gli altri album, di cui puoi sentire selezioni nella mia playlist New Music Louder, saranno commentati in breve ma solo nella versione podcast dell’episodio. Ci sarà sempre spazio per qualche riflessione e qualche notizia, a cui si aggiungeranno i consigli pregiudiziali sui dischi del venerdì che viene (domani, per intenderci): visto che ascoltare 40-50 ore mi fa sempre arrivare al giovedì dopo con la puntata, tanto vale approfittarne e far piovere i venerdì tutti insieme, prima con uno scroscio e poi con una sgrullata. Quindi, per fare ordine, qui nella newsletter troverai: intro + focus su 3/4 album + elenco degli album ascoltati di cui parlo nel podcast + singoli e altre notizie + cosa ascolteremo domani. Ma a proposito di ascoltare, la playlist è tra noi, quindi - se stai leggendo - mettila su ché ti dico due cose. [Come sempre sta su SPOTIFY e su APPLE MUSIC]

Come sai, è successo qualcosa di epocale, nel periodo “non collegato”: esatto, è finito Succession. Ah no, quell’altra cosa: è morto Silvio Berlusconi. Ho provato - un po’ per gioco - a mettere insieme un’eredità musicale del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, ma non è venuta fuori tantissima roba memorabile: canzoni di protesta ce ne sono state, nel suo trentennio di politica, da Caparezza a Daniele Silvestri, da Carmen Consoli ai Modena City Ramblers, dalla Famiglia Rossi a Fedez. Le canzoni che hanno cercato in qualche modo di contrastare questo modello egemonico di società-cultura-politica, insomma, ci sono state: eppure, nulla si è appiccicato abbastanza o con sufficiente tigna alla coscienza italiana, nessun grande successo, nessun coro unanime, nessuna approvazione di pubblico e critica. Sono andate meglio, semmai, le canzoni che piuttosto denunciavano quanto tutto facesse schifo e tutti i politici fossero dei ladri schifosi: non dico che le forze politiche non-berlusconiane e i loro esponenti siano stati tutti irreprensibili, e senz’altro lo scherno è meritato; ma per essere una personalità così “divisiva” (aggettivo inflazionato), Berlusconi ha avuto molta compagnia, nelle canzoni. Insomma, in questo contesto era difficile che dalle nostre parti si replicasse quanto era accaduto in Regno Unito dieci anni fa, alla morte di Margaret Thatcher: allora, la canzone Ding-Dong! The Witch Is Dead (dal film Il Mago di Oz) era stata trascinata al secondo posto della classifica dei singoli. Da noi invece è successo questo: forse per il LOL di chi l’ha condivisa senza intenzioni celebrative, forse per autentica nostalgia degli anni Zero (dobbiamo parlarne, perché è fuori controllo), forse per sincero desiderio di omaggiare il Cavaliere, la canzone Meno male che Silvio c’è è schizzata al primo posto della classifica Viral 50 di Spotify Italia, dove ancora adesso risiede (22 giugno, 9 giorni dopo).

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fonte: @itparade_ (twitter)

Ecco, secondo me il succo della cultura pop italiana degli ultimi 30 anni sta tutto qui: certo, la Viral 50 misura soltanto il numero di condivisioni, non il numero di ascolti (e nella Top 50 questo fantasmagorico inno non pare abbia fatto capolino), ma fossero anche tutte condivisioni ironiche, il punto è che nessuna canzone che restituisca il senso di chi si è opposto (fuori dai palazzi) al regime dominante avrà mai lontanamente la medesima popolarità di Meno male che Silvio c’è. Perché, che si rida o che si pianga, l’uomo forte non stanca: anzi, se uno cercasse nel rap italiano le menzioni di Berlusconi, troverebbe molti paragoni lusinghieri e una celebrazione del suo modo di vivere e dei suoi obiettivi nella vita: i soldi e la figa. Ti lascio la ricerca, Louder, divertiti - si fa per dire. Ma prima che qui sembri di stare in un’agenzia pubblicitaria milanese, cambiamo discorso e cambiamo tono.

Quindi adesso ti elenco alcuni dischi usciti nell’ultimo mese che mi sono piaciuti: The Age of Pleasure di Janelle Monae, che senza i legacci del concept perde un po’ di funk e diventa più commerciale, ma anche più libera e godibile (e Champagne Shit è la hit dell’estate); Space Heavy di King Krule, che scrive musica per momenti tristi senza solleticare il tuo narcisismo; e ancora Girl With Fish dei feeble little horse, Good Lies degli Overmono, Tracey Denim dei bar italia, Aperture di Hannah Jadagu, Gag Order di Kesha, And Here We Are dei Foo Fighters, e Ticket To Fame delle Decisive Pink, che mi son sembrati tutti dischi con una certa urgenza di dire quello che avevano da dire. E tra gli italiani Il segreto di Venerus per chi vuole cambiare senza perdere la strada; Disco X di Daniele Silvestri per chi vuole incidere sul racconto del reale; e ancora Jalitah di Paolo Angeli e Iosonouncane, nou di BLUEM, giovane cuore di ETHAN. Trovi alcune tracce di questi dischi nelle playlist Archivio Louder 2023 [su SPOTIFY e APPLE MUSIC]. E adesso, parliamo delle ultime uscite.

Sigur Rós, ÁTTA

L’ultimo album dei Sigur Rós, Kveikur, risale a dieci anni fa. Se hai più o meno la mia età e provi a pensare a quanta roba è successa in questi dieci anni, quanta roba orribile per lo più, ma non soltanto, puoi immaginare lo stato in cui erano i Sigur Rós quando hanno iniziato a lavorare a questo disco, prima della pandemia ma dopo un sacco di fattacci. Dopo l’addio del tastierista Kjartan Sveinsson e un disco peso in trio che non è proprio piaciuto a tutti (alla critica sì, al pubblico un po’ meno), gliene sono capitate di ogni, come dicono in questa intervista al Guardian. Nel 2018 la band ha prima dovuto fare i conti con il fisco islandese e poi con le accuse di molestie sessuali al batterista Orri Páll Dýrason, che per questo si è subito allontanato dalla band. Nel frattempo, Jónsi si è mollato con il partner con cui viveva da 16 anni, tanto per alleggerire la situazione. Sempre quell’anno, però, Sveinsson è andato a trovare Jónsi, hanno ricominciato a suonare un po’ e così è tornato il tastierista e arrangiatore d’archi, ma è tornata anche la voglia di fare un disco insieme. Senza batteria e di nuovo con tutti quei dispositivi atmosferici (tastiere, archi) che hanno fatto la fortuna della band fin dal secolo scorso, Átta (che in islandese significa otto, perché è l’ottavo album, palese citazione dell’ottavo album dei Subsonica) suona per molti versi più vicino ai vecchi Sigur Rós, ma è chiaramente il lavoro di persone più mature, che cercano sempre di emozionare l’ascoltatore, senza scorciatoie. Se senti un pezzo come Klettur, uno dei pochi ad avere un beat, capisci come tutti i giri degli accordi sono guadagnati battuta per battuta, con un build-up più da dance che da rock, lasciando sì spazi vuoti ma non per rovesciarti addosso tutto il peso emotivo di un cambio di tonalità in un attimo: se posso usare una metafora atmosferica, è un disco fatto di graduali e improvvisi rivolgimenti di pressione e umidità più che di improvvisi acquazzoni. Il grande problema di questo disco è che l’assenza di percussioni da una parte crea un’esperienza davvero cinematografica, realizzando appieno, insomma, quell’aspettativa e quel giudizio che avevamo sempre avuto nei confronti della loro musica; dall’altra, toglie la spinta che - anche se non ci facevi caso - era fondamentale. I pezzi usano tutti i trucchi dell’armonia occidentale per instillarti quel senso di speranza nelle cose e negli uomini che i Sigur Rós si erano preposti di instillare. (Hai fatto caso alla copertina con un arcobaleno che brucia? Facci caso e buon mese del Pride). Benissimo, però questo rende necessariamente il disco un ascolto da svacco, che lasci andare per migliorarti una mattina in ufficio o per caricare di senso una passeggiata che fai senza mai guardare i social. Forse è giusto, dal momento che la musica oggi si ascolta così. Però noi, che siamo il pubblico dei Sigur Rós da decenni, non so se la ascoltiamo in questo modo o se ancora in un disco cerchiamo altre cose: punti fermi e ancoraggi, movimenti trascinanti e crescendo impazziti, le discese ardite e le risalite. Qui si fluttua molto, diciamo, e specie un pezzo vicino alla fine come Fall sembra aver ingaggiato una partita di “the floor is lava” (cosa peraltro plausibile in Islanda) per come fa galleggiare gli accordi. Il già citato Klettur e il finale 8 secondo me si portano sulle spalle il resto del disco che non è mai brutto, anzi, ma è come se non circolasse sangue o linfa al suo interno. Scommetto che anche tu tornerai su queste tracce più spesso che sulle altre, a meno che tu non ti prenda il legittimo momento di ascolto-svacco per trovare nuova fiducia nel mondo, negli altri, in te stesso. Cosa che comunque dovresti fare.


Home Is Where, the whaler

Diamo per assodato che l’11 settembre abbia avuto un significato (o più significati) per tutti. Guardando le torri venir giù ci siamo cagati sotto, abbiamo pianto, siamo rimasti a bocca aperta, abbiamo gridato e corso per strada pensando che il mondo stesse per finire. E poi il 12 siamo tornati tutti a scuola, o al lavoro, insomma alle solite vite. Cioè, di fronte a una tragedia immane abbiamo vissuto lo shock e la catarsi, provata in prima persona e ribadita dalla televisione e da un internet in fasce, alimentando paranoie e politiche estere, più o meno giustificte. Ma non c’è stata nessuna illuminazione: non abbiamo avuto ricostruzioni post-belliche, rivelazioni generazionali. A dirla tutta il mondo sembrava che si stesse già disintegrando per conto proprio. Quindi, senza sicurezze e con l’ansia del futuro, ci è stato chiesto di continuare come se niente fosse successo, business as usual. Si può dire che quello sia stato il primo iper-ciclo notiziario-emotivo del nuovo millennio, qualcosa a cui oggi siamo molto abituati mentre passiamo dall’esultanza per un risultato sportivo alla commozione per un disastro nel giro di due tweet.

La band emocore revival di quinta ondata floridiana Home Is Where ha pubblicato venerdì uno degli album dell’anno, senza dubbio. L’ho introdotto parlando di 11 settembre perché the whaler sembra un concept non tanto sull’evento, ma sul concetto che “ogni giorno sembra un 11 settembre”, titolo della canzone al centro della tracklist, e sul fatto che il giorno dopo, “il 12 settembre 2001, tutti siamo tornati a lavorare”. Cioè, è un disco sull’abitudine alla tragedia e sull’apatia. Per chi deve fare i conti con la persecuzione delle persone transgender in molti stati americani, come appunto la Florida, “ogni giorno sembra un 11 settembre”. Qualcuno può anche prendere le tue parti, ma la vita per lo più prosegue come se niente fosse successo: tutto è virtuale, come sostenere che “cis” (nel senso di cisgender) sia un insulto, e negare che le persone transgender esistano sopra un social network. Brandon MacDonald, che è una donna transgender ma che è anche una conoscitrice profonda del lessico hardcore, sa che incazzarsi contro chi priva lei e tante altre persone di diritti non basta, sa che la vera missione è svegliare le coscienze assopite, scuotere un mondo (davvero non solo americano, in questo senso) assuefatto alla violenza, che la prende come un gioco di posizionamento e non come qualcosa di viscerale. 

the whaler è una serie di istantanee scattate al confine (labile) tra umano e disumano, degno e indegno: fino a che punto puoi resistere a un abuso? fin dove arriverai per recuperare la tua dignità? E soprattutto, cosa farai quando ti accorgerai che lo stesso fatto di assistere a una spoliazione di umanità strappa un po’ di umanità anche a te? Questi interrogativi sono lanciati dritti contro le orecchie dell’ascoltatore, la maggioranza silenziosa che viene invitata in un ambiente sonoro che “sa” di catastrofe: gli ottoni strazianti e (tonicamente) calanti della prima magnifica traccia skin meadow; il suono marcio dei nastri tagliati manualmente per creare loop stranianti; certi pianoforti sdentati e armoniche sfiatate. La situazione è disastrosa, e solo chi ha grande controllo dell’espressione musicale riesce a comunicarlo senza farti sprofondare a tua volta nel disagio. E in questo the whaler riesce alla grande, perché nulla è buttato lì per caso, e ti faccio un esempio: al termine del crescendo nuziale esplosivo di

yes! yes! a thousand times yes! (il primo eccellente singolo già consigliato in playlist), le chitarre si placano, si sente solo un’eco dell’organetto di prammatica stirare gli ultimi accordi fra pennate elettriche sincopate in palm-muting altrettanto rituali, a 3:03 precisi scompare tutto, ma proprio tutto ed entrano con una puntualità innaturale altre pennate di chitarra stavolta pulite e vitree, che accompagnano l’amaro finale. Non dico che sia difficile cucire due incisioni diverse, ma farlo con questa pulizia ha qualcosa di clamoroso: come quando vai a dormire che la casa è un disastro e al mattino trovi tutto pulito e in ordine.

La scrittura di MacDonald, molto hardcore nella passione per gli organi interni, ma anche molto dylaniana per i simbolismi che si intrecciano (balenieri, rituali sacri, figure pop come il comico Chris Farley), è lo strumento di redenzione finale: farsi sentire, gridare a gran voce che le emozioni ci sono ancora, sono le azioni più semplici per rigettare l’apatia, scuotere un’umanità raffigurata come il verme solitario di sé stessa. Ma questo non è un disco-pamphlet, perché la desolazione è reale. Non diversamente dal disco dei Wednesday, che ti ho consigliato e straconsigliato (Rat Saw God) anche the whaler dipinge un’America squallida, un luogo decadente e decaduto di finzioni e funzioni organiche, una nazione che ha costruito la sua storia con violenza e celebrando l’eccesso: non è una novità che la lingua lirica dell’hardcore (e di chi è venuto dopo) prenda spunto dalla medicina, ma questo lessico cosparso di fluidi interni rispecchia perfettamente un’umanità ridotta alla pura meccanica animale, ripudiata da una maggioranza al potere che - tanto per fare degli esempi a caso - riduce il genere o la genitorialità a ottuse definizioni biologiche da sussidiario. E MacDonald dipinge allora un’America altrettanto bestiale: dove i ragazzi ubriachi che si schiantano contro un palo mentre scambiano la strada per un circuito automobilistico sono paragonati agli animali spiaccicati sull’asfalto (Daytona 500); dove una persona cara si trasforma in cibo per vermi e piante (Chris Farley). E proprio come succede in Rat Saw God, nelle visioni apparentemente disgustose e ciniche di The Whaler si annida invece uno straziante amore per l’essere umano, quando questo non si arrende a potenze superiori, quando cerca un senso e, pur nello schifo, non cede all’apatia.


MAN ON MAN, Provincetown

Roddy Bottum (dei Faith No More, per intenderci) e Joey Holman avevano dato vita al duo MAN ON MAN un po’ per svago, un po’ per elaborare insieme dei lutti durante la pandemia, con l’idea di scrivere qualche canzone per descrivere com’è la vita e l’amore di due uomini adulti che stanno insieme, ma nemmeno da moltissimo, e che però si vogliono bene e decidono di imbarcarsi in alcune esperienze importanti insieme. Naturalmente c’era un po’ il sapore della gag, ma a conti fatti si può dire che nel nostro presente di musica, cinema, serie tv etc molto LGBTQ+ friendly, una cosa in comune è che se non sei giovane sei fuori dai giochi. Quindi, proprio come alcuni cantautori cresciuti ci tengono a raccontare com’è l’amore etero da 30-40-50enni, così è giusto che capiti con due artisti gay. Insomma, questo gioco è diventato un primo progetto acclamato dalla critica, e oggi arriva un nuovo album ed è bello. Ma bello. Provincetown è il nome della città in cui è stato registrato, ed è notoriamente un paradiso di tolleranza e accoglienza LGBTQ+, tanto che compare anche nella comedy di Billy Eichner che tipo nessuno ha guardato, Bros. E ora che la coppia sta insieme da 4 anni, le canzoni continuano a esplorare la gioia di essere gay in “questi Stati Uniti”, come a provare non vergogna per i bigotti, ma semmai orgoglio per queste roccaforti di libertà e fratellanza. Il disco è pieno di immagini giocose, celebrazioni della sessualità libera, frivola, amorevole di due persone che non riescono a togliersi le mani di dosso. Il pezzo migliore (ma il disco è da sentire fino in fondo, con un’ottima comparsata di J Mascis che fa fischiare la chitarra un po’ shoegaze) si intitola I Feel Good e parla di due che stanno scopando e non hanno paura di farsi vedere, perché non hanno nulla da nascondere: mi rendo conto che non è proprio un pezzo da parata del Pride, ma c’è tutto il Pride per come una persona eterosessuale può percepirlo. Mi piace come Holman e Bottum descrivono lo stile della prima traccia, Take It From Me: disco-grunge, come a definire non solo due mondi sonori ma due modi di vedere la realtà e la musica non esattamente aderenti che invece si aprono l’uno all’altro. Ecco, si potrebbe fare lo stesso esercizio per tutto l’album, dove gli elementi spigolosi trovano un modo di allargarsi all’ascolto dei più: non si cerca di ghettizzarsi musicalmente, si vuole includere, accogliere. Anche in un pezzo come Gloryhole, chiaramente shoegaze, il successo viene da come cerca un groove che faccia capitombolare tutti dentro la stessa gioiosa zattera: il senso del brano è proprio questo, peraltro, mettere insieme la gioia e la lotta, saper vivere come persone (queer, ma direi in generale) sia negli spazi del dibattito, sia in quelli dell’incontro, online e dal vivo. Il disco ha questa felicità diffusa, ma è anche serio: nel primo brano in particolare ma non solo si fa riferimento allo sfruttamento delle conquiste culturali della comunità LGBTQ+ che vengono regolarmente vampirizzate dal resto del mondo, qualcosa che accadeva nella musica (dalla disco alla house) ma non solo, e che accade regolarmente anche oggi, se solo pensi al successo di un film come l’ultimo Spider-Man animato o al rainbow washing del capitalismo. La cosa interessante è che questo senso della propria eredità intellettuale che scivola via dalle dita è quello che si prova anche quando si invecchia, e il disco ne parla eccome, consapevole che le persone che suonano e cantano non sono certo giovincelli: Kids è un po’ la Losing My Edge di questo progetto, con un sacco di empatia per i ragazzi che ora devono cambiare il mondo a loro modo, senza timore di sentirsi usurpati. Ed è proprio questa serenità che pervade tutto il disco a farne un ottimo ascolto per stare bene, lo senti davvero arrivare dalla musica: in Feelings cantano “piangi molto, ridi di più”, perché i tempi sono terribili e non devi assolutamente fingere che non lo siano, ma devi sapere anche qual è l’obiettivo, che non è solo sopravvivere ma essere felici. Almeno, questo è il sogno americano, e quando è così, villoso, orgoglioso, a petto nudo, viene voglia di crederci.


Killer Mike, MICHAEL

Mi pare che le testate musicali mainstream abbiano parlato poco del nuovo album di Killer Mike, il primo lavoro solista pubblicato da oltre un decennio a questa parte dalla metà più chiassosa dei Run The Jewels. Come chiaramente esposto dal titolo, con il suo nome proprio, e dalla copertina con una sua foto da ragazzino - entrambe mosse piuttosto tradizionali per chi voglia mettere un punto e a capo nella propria carriera - il materiale di questo disco è profondamente personale. A differenza di chi accumula pensierini sopra beat annacquati, MICHAEL è invece incredibilmente potente per lo storytelling autobiografico e per le tematiche sociali che vi si intrecciano; per la ricchezza dei flow che ribadisce lo status di Mike come uno dei più talentuosi rapper del 21esimo secolo; e per la ricerca musicale immersa nel funk, nel gospel, nel soul con ottimo gusto di Mike stesso e dei producer chiamati all’appello, No I.D. su tutti. Come nei progetti belli del Kanye di una volta, gli ospiti sembrano tutti al servizio del progetto: senti, ad esempio, l’introduzione del controversissimo comico Dave Chapelle in RUN e apprezzi meglio lo sviluppo di un pensiero e di un’immagine che reggono il pezzo, questa necessità di correre che contraddistingue l’esistenza degli afroamericani, che prima hanno dovuto correre per scappare dalle piantagioni, quindi hanno dovuto correre laddove ai bianchi è bastato camminare. Si incastrano benissimo anche le voci R&B e gospel che arricchiscono i brani: la già recensita Foushée in SHED TEARS e SLUMMER, dove si inserisce peraltro un eccellente sample di una versione gospel di We’ve Only Just Begun dei Carpenters e un intervento della band Jagged Edge; Eryn Allen Kane in NRICH e MOTHERLESS. La focus track del progetto portata avanti è stata SCIENTISTS & ENGINEERS perché ogni volta che André 3000 ci grazia con la sua presenza, non si può far finta di niente: in realtà questa traccia (che ha tra gli altri ospiti la già citata Kane e Future) è anche un bel momento di incontro dove un sound afrofuturistico stringe la mano a cori gospel, dove tre modi molto diversi di intendere il rap trovano un terreno comune; tematicamente, il pezzo dimostra come raccontare il proprio successo si trasforma in vittoria per tutti e momento di comprensione sociale comune quando colleghi la fame del ladro nei riots a quella del rapper, quando paragoni la severità con cui sono giudicati i giovani afroamericani all’indulgenza per i bianchi. Le trovate, le frecciate, le punchline si sprecano. Nella già citata NRICH, peraltro aperta da un frammento di brano dei Last Poets sugli inganni che la società bianca trama ai danni degli afroamericani, Mike parla dei modelli che i giovani neri dovrebbero seguire: non i soliti miti del cinema alla Scarface e Blow e New Jack City, gangsta tragici ed eroici ok, ma che falliscono e muoiono, ma piuttosto il piccolo Michael protagonista del film Fresh del 1994, che grazie alla sua scaltrezza riesce a sopravvivere alla street life di NYC. L’intelligenza più della simbologia, il talento più della presunzione, la verità piuttosto che il mito: e così va in pensione metà dell’immaginario rap (anche in Italia). Sono i valori con cui Killer Mike racconta la sua storia, ma secondo me sono anche delle parole d’ordine che sono da tenere in considerazione in un’epoca in cui il rap, dopo aver saturato il mercato, sta avvicinandosi alla china discendente. Non da noi, eh, ma magari un giorno anche qui.

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Gli altri album, in brevissimo

Nel podcast mi sentirai parlare anche di:

  • King Gizzard and the Lizard Wizard, Petrodragonic Apocalypse (etc.)

  • Queens Of The Stone Age, In Times New Roman…

  • GBRESCI, Giochi stupidi

  • Johnny Marsiglia, Gara 7

  • Fust, Genevieve

  • Boris & Uniform, Bright New Disease

  • Django Django, Off Planet

  • Deer Tick, Emotional Contracts

  • Kool Keith, Black Elvis 2

  • Jack River, Endless Summer

  • Rodeo Boys, Home Movies

  • Origami Angel, The Brightest Days

  • May Rio, French Bath

  • Clea, Idle Light

  • Kiana Ledé, Grudges

  • Donna Missal, Revel

  • Meshell Ndegeocello, The Omnichord Real Book

  • Nayt, Habitat

  • Lorelle Meets The Obsolete, Datura

  • Hand Habits, Sugar The Bruise (EP)

  • INVERNO, Cose da discutere (EP)

Non mi sentirai parlare, invece di Is It? di Ben Howard perché pur avendo registrato un’ora e un quarto di podcast, mi è sfuggita la recensione: è comunque un ottimo disco delicato e doloroso, facci un giro.

I singoli

La storia più importante tra le release dei singoli dello scorso venerdì è senz’altro quella degli Sparklehorse, il progetto del compianto Mark Linkous, il cantautore che dopo una vita piuttosto tragica si è tolto la vita nel 2010: il fratello e la cognata di Mark, Matt e Melissa, che già avevano lavorato negli Sparklehorse, si sono occupati dell’archivio di Linkous in questi 13 anni, archivio dal quale è uscita pochissima roba (fortunatamente). L’anno scorso abbiamo sentito It Will Never Stop e ora è venuta fuori questa (bellissima) Evening Star Supercharger con l’annuncio che queste due canzoni e altri 12 inediti rilavorati da Matt e Melissa usciranno nell’album postumo Bird Machine, il prossimo 8 settembre. Non voglio dire niente per non portare iella, perché i dischi postumi sono quasi sempre una truffa, e non aggiungono quasi mai nulla. Nel caso di Linkous e degli Sparklehorse staremo a vedere. E staremo a vedere anche quando uscirà la canzone inedita ancora senza titolo dei Beatles, ultimissima-lo-giuro-mamma, che Paul McCartney ha spiegato di aver ricostruito e realizzato, parlando alla BBC: apparentemente, usando una tecnica di pulizia dei nastri in cui John Lennon registrava demo, è uscita fuori la melodia bella pulita di un brano, e ora Macca ci ha messo mano. Secondo la BBC dovrebbe trattarsi di Now and Then canzone sulla quale i ragazzi avevano provato a lavorare al tempo della mega-release dei boxset Anthology tra ‘95 e ‘96, senza concludere nulla. Così, potrebbe essere avanzato anche del materiale inciso da Harrison, tanto per agire all’insaputa di due morti anziché solo uno.

Abbiamo anche un nuovo bel singolo dall’album di ANOHNI in arrivo il 7 luglio: lo segnalo perché ieri è stato annunciato anche un listening party del disco, che avverrà il 28 giugno in diverse città tra cui Milano (al Cinemino), ma in un giorno è già andato esaurito. Esperienza familiare per chi compra biglietti di concerti da un po’ di tempo a questa parte: grazie anche alle 26 persone (prestanomi?) che negli ultimi due anni hanno comprato e rivenduto 15mila biglietti di 278 concerti per lucrare sul mercato. Non so te, Louder, ma ultimamente solo il pensiero dei concerti, con quei costi e quelle ansie e quell’hype, mi manda in panico: penso che dovrò farci la pace, un giorno.

Io per ora sto facendo pace con le cover: in questa playlist ce ne sono diverse, comprese due che vengono da un medesimo progetto dedicato a Nick Drake che arriverà il 7 luglio, interpretate da Emeli Sandé e John Grant. Ascoltale. E ascolta anche Drive degli Incubus, cantata e suonata in acustico (più o meno) dall’attore Steven Yeun nella serie Beef (o in italiano, Lo scontro): lui è quello di The Walking Dead e Minari, tra mille altre cose, e aveva cantato questa canzone da ragazzino in uno spettacolo organizzato dalla sua parrocchia. Tutta la colonna sonora di Beef è una celebrazione dei primissimi anni Zero, e - se hai visto la serie che parla di due millennial frustrati - non è proprio una celebrazione gioiosa.

Sgomitando tra i singoli estivi, che sono diventati la specialità italiana, si trovano diverse buone proposte di connazionali: un pezzullo tenero di VV con Bais dedicato alle domeniche pigre; l’ennesimo pop di gusto dei Palmaria; i bei pezzi pop strani di Marta Tenaglia e Marta Del Grandi, da non confondere ma anzi da ricordare prima che vengano a spaccare tutto; e il necessario anti-tormentone di Colapesce Dimartino. A proposito di aspettative, c’è anche un bel pezzo nuovo di Doja Cat, Attention: l’artista ha detto che i suoi due album precedenti, Planet Her e Hot Pink sono spazzatura, dei raggiri per fare soldi, e con questo pezzo e i prossimi progetti cerca di mostrare le sue capacità di rapper e un gusto più raffinato. Chissà chi sarà il primo dei nostri artisti “urban” ad ammettere di aver fatto schifo solo per un po’ di soldi. Aspettiamo e andiamo a finire.

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Cosa devi ascoltare domani

Il 23 giugno non sarà tra i venerdì più intensi dell’anno, ma qualche disco interessante, specie tra gli internazionali, è in arrivo:

  • Militarie Gun, Life Under The Gun - per sentire musica disperata e incazzata

  • Portugal. The Man, Chris Black Changed My Life - ho amato e consigliato tutti i singoli, promette bene

  • Albert Hammond Jr., Melodies On Hiatus - “il chitarrista degli Strokes” ha già pubblicato metà di questo disco, ed è un vibe

  • Swans, The Beggar - a giudicare dai due singoli, sarà caotico e apocalittico ma sorprendendoti alle spalle

  • Kim Petras, Feed The Beast - da sentire per tastare lo stato di salute del pop; Unholy con Sam Smith era un banger, la poracciata Alone con Nicki Minaj costruita pesantemente sulla base della hit eurodance Better Off Alone molto meno.

  • Lunice, Open - disco elettronico hip-hop weird sul quale ho molte attese

  • M. Ward, supernatural thing - mi aspetto un disco di tulle con un cappellone a larga tesa per difendermi dal caldo

Dei singoli nuovi parleremo tra una settimana: tanto, domani esce la canzone che porrà fine al dibattito sul successo dell’estate, ovvero Bon Ton di Drillionaire con Sfera Ebbasta, Lazza e Blanco, per la gioia dell’algoritmo. E allora ne riparleremo.

Ciao Louder

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Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché