Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E05
0:00
-30:53

Pioveranno venerdì S02E05

18/24 febbraio: "Dove sono gli artisti? Vedo solo populisti"
il periodo tenda-verde-ambasciatori-di-Holbein del pop italiano

Ciao Louder,

Tante cose nella musica sono difficili da spiegare, dal gusto per l’armonia al senso di un testo. Potremmo dire, ad esempio, che “il nostro amore appena nato è già finito” è un’immagine che resta grazie all’antitesi, figura retorica che ci permette di osservare in un sol colpo due condizioni opposte - non è l’ossimoro, affascinante più per chi lo scrive che per chi lo legge, ma “fa il suo”. E allora potremmo dire che Maurizio Costanzo (morto venerdì a 84 anni) è entrato nella storia della canzone italiana grazie a un’antitesi. Oppure possiamo valutarne l’eredità, ad esempio prendendo due canzoni uscite nelle ultime settimane che chiaramente ne sono discendenti. Prima Elodie con “E se ci pensi il nostro amore è nato appena ma è già finito male” (Due), dove la frase è ripresa quasi alla lettera con un ἀπροσδόκητον sul finale - cioè l’inversione dell’aspettativa. Poi venerdì è arrivata Francesca Michielin con “La nostra storia iniziata da sempre e deve ancora cominciare” (Verbena), dove si capovolge il valore degli addendi, ma per ammirare la stessa contraddizione. E allora mi chiedo, se una canzone scritta senza velleità da una persona la cui carriera stava da tutt’altra parte può lasciare tutte queste tracce, perché gli artisti che di mestiere non fanno altro che gli artisti (e gli influencer) non pongono la stessa attenzione ai particolari?

Si sente che è stato un release day particolarmente faticoso? Probabile. Ma ora tu metti la playlist (su Spotify e su AppleMusic), e preparati, ché oggi è luuuunga. 

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati: 25 album, 3 EP, 80 singoli

Gorillaz, Cracker Island

Cracker Island è nato un po’ per caso: in linea teorica i Gorillaz avevano in sospeso il secondo capitolo della Song Machine, ma quando Damon Albarn si è trovato un giorno a suonare nello studio di Greg Kurstin (produttore di Adele, ma anche dei Foo Fighters), il proverbiale tasto REC è stato schiacciato, e ne è nato un disco. Che sarebbe dovuto diventare anche film su Netflix, se Netflix non avesse - tipo - distrutto il suo settore animazione. La prima traccia nata è stata Silent Running (un singolone che ci porteremo dietro di questa era), e nella sua piacevole normalità anticipa il tono del resto del disco. Il suono di Cracker Island non è quello stortignaccolo e inimitabile dei primi Gorillaz, ma non credo sia soltanto una perdita di ispirazione, la scelta di fare le cose come le altre popstar. Perché è da più di un decennio che Albarn vuole far passare il messaggio non tanto dal timbro, dal “come suona”, quanto dalla coerenza della scrittura, dal “cosa dice”. E allora giudicare la discografia dei Gorillaz diventa una questione di quanto sia o meno a fuoco Albarn, e - a meno di colpi di testa assoluti - il massimo che possiamo aspettarci è un disco pop dei Gorillaz, che può essere comunque un piccolo miracolo: Plastic Beach ne è un esempio; Cracker Island per certi versi gli si avvicina.

Se allora ci chiediamo “cosa dice” Damon Albarn, direi che “il male di vivere” sia la risposta più azzeccata. I Gorillaz sono un laboratorio di considerazioni sul perché soffriamo quando contempliamo insieme il falso e il vero dell’esistenza, quando le cose si dimostrano altro rispetto a quel che sembrano (è, in questo senso, la coda dei Blur). La “band virtuale”, quindi, è una forma di catarsi. Purtroppo Albarn si trova - come noi - a vivere in un mondo nel quale queste domande non vengono poste, ma piuttosto esorcizzate a colpi di ottimismo (in genere del capitale). Così, faccio fatica a non leggere una velata critica a certe idiozie del nostro tempo, come gli NFT Bored Ape Yacht Club (che peraltro diversi fan avevano considerato un plagio bello e buono dei Gorillaz) in Skinny Ape, una canzone che ci pone di fronte alla tristezza di un Pinocchio che vuole diventare bambino in un mondo di bambini che vogliono diventare Pinocchio. Il brano, peraltro, è lo snodo musicale del disco, il tour de force che per 30 secondi diventa punk e poi si ricompone, e uno dei punti più interessanti in un disco melodicamente molto soddisfacente: insomma, non sarà la hit, quella forse è Baby Queen, ma non importa: la metto in playlist.

L’isola dei “cracker” è l’isola delle persone che ritengono di avere tutti i mezzi per dominare l’alfabeto digitale (cracker nel senso informatico), ma che si scoprono essere dei miserabili servi bianchi (cracker nel senso sociologico dello slang). Ecco allora il Tired Influencer che si chiede dove sia il vero amore, la vera comprensione, non quella dei suoi follower. Ecco la principessa thailandese cresciuta di Baby Queen, che - Albarn si chiede - sarà ancora nel profondo la stessa persona che faceva stage-diving al concerto dei Blur nel ‘97, oppure no. Ecco in Silent Running la ricerca inutile di senso nella navigazione silenziosa: quella dei sottomarini, nel gergo militare, altro richiamo a Plastic Beach; e la navigazione che facciamo contemplando muti i nostri telefoni. E potremmo andare avanti. Insomma, Damon Albarn pensava di dire chissà quale grande verità sull’essere umano mettendo alla berlina la società di MTV, e in questi 25 anni gli sono esplosi tra le mani i social network. Ma comunque riesce a non sembrare un vecchio nonno arrabbiato, mentre ne parla. Forse sono io indulgente, forse è il fatto che quando ti parte un 6/4 di botto (New Gold con Tame Impala e Bootie Brown), devi solo ringraziare che esistano progetti pop come i Gorillaz.

Che fanno cose normalissime (quasi banali, se parliamo della produzione di questo disco) e piccoli miracoli in un sol colpo. Tipo cavare fuori una delle tue hit da un pre-set, come ha raccontato Albarn a un incredulo Zane Lowe (incredulo perché non ha mai letto la pagina wiki di Clint Eastwood).


Algiers, Shook

Fin dalle prime note e dai primi versi di Everybody Shatter - una versione rieseguita da zero di un classico delle strumentali hip-hop, Subway Theme, la musica; un cahier de doléances di crimini dello Stato americano contro i cittadini di origine africana, il testo - si capiscono le coordinate di questo album, che va interpretato come estensore di un’eredità politica e storica. La lotta per la giustizia - ci dice Shook - è una storia, un racconto condiviso che precede e motiva la lotta oggi. Il bello delle band che si impegnano fino in fondo nei temi che esplorano è che questi argomenti non restano belle dichiarazioni poggiate sul livello superficiale della musica. Al contrario, in questo album ogni riferimento musicale è un richiamo storico, un campanello che ci avvisa a prestare attenzione: dal blues al post-punk, dal soul della Georgia al garage rock del Michigan, dall’elettronica dei pionieri come Moroder a quella degli artisti (culturalmente) dissidenti come la producer e vocalist egiziana Nadah el Shazly, dal rap delle origini a quello underground di Backxwash. Tutti questi spunti (e i mille altri che sono intessuti in queste composizioni mostruosamente dense) ci ricordano che la musica popolare può essere liberazione, una rivoluzione esplicita o inconsapevole, come lo è stato a proprio modo ciascuno dei generi e degli artisti menzionati.

L’altro principio-guida di Shook è che la lotta non si fa da soli: questo è l’album con più collaborazioni nella storia del gruppo di Atlanta. Ciascuno degli ospiti contribuisce con una particolare dose di energia, ciascuna voce agisce come una sveglia che invita a considerare con urgenza il bisogno di far parte di questo sforzo collettivo e di questa lunga tradizione. Dalla quale ovviamente deve nascere qualcosa di nuovo o di inatteso, un nuovo modo di ribellarsi.

Allora le interpolazioni si intrecciano alle partecipazioni, le testimonianze tramandate e quelle di persona diventano un unico dialogo: così per esempio senti i coretti che cantano Nuclear War dell’anarcoide Sun Ra sullo sfondo di Out Of Style Tragedy mentre interviene Mark Cisneros, un altro ribelle come ex chitarrista dei Make-Up, che in realtà suona in diverse tracce ma emerge solo qui tra i credits dichiarati. La tracklist intera, di fatto, è una lettera-manifesto, firmata brano a brano dalle altre voci in corteo: Zack De La Rocha dei RATM sull’incazzatissima Irreversible Damage; Samuel T. Herring dei Future Islands e la vocalist e musicista Jae Matthews sulla caracollante I Can’t Stand It! Vedere questa massa incazzata è anche un invito ad agire, con la rassicurazione che non siamo in pochi a vedere che le cose nel mondo stanno andando a rotoli. E del resto gli Algiers questo elenco di nomi l’ha voluto proprio spiattellare sulla copertina.

Le radici solide dei predecessori e l’incazzatura dei contemporanei non esistono però nel vuoto: così questo disco cerca di mettere in scena un presente caotico e vivo, con gli spoken-word degli ospiti o del cantante Franklin James Fisher e con le registrazioni ambientali (non proprio la cosa più comune nei dischi di oggi). Come se le canzoni fossero una sintesi che emerge trionfante dalla foschia di informazioni.

Shook è insomma un disco contro l’indifferenza. E qualsiasi viaggio personale tu stia attraversando, che ti interessino i fatti di cronaca o meno, gli Algiers ti invitano a sentire il grido degli ultimi, dei calpestati, degli umiliati. Se ci aggiungi il fatto che questo appello è eseguito in modo musicalmente travolgente, con groove vorticosi, tastiere terrificanti e chitarre infernali, restare impassibili è davvero difficile. Difficile anche scegliere una traccia da inserire in playlist, visto che i singoli già pubblicati li abbiamo consigliati praticamente tutti. Ma comunque è l’album della settimana, quindi tu lo ascolterai per intero.


Francesca Michielin, Cani sciolti

Ci sono due cose che mi piacciono molto di Cani sciolti di Francesca Michielin: il primo è che suona bene, meglio del pop italiano medio, e questo è merito suo perché stiamo parlando di una vera musicista e produttrice, oltre che di una cantautrice; il secondo è che nonostante il nome possa lasciar intuire una certa scioltezza narrativa (o un amore per i Sangue Misto), in realtà è forse il disco più coeso della sua decennale carriera. 

Per parlare del suono voglio citare il fatto che Cani sciolti contiene probabilmente più accordi di tutto il resto dei dischi che ho sentito questa settimana: ovviamente la quantità di accordi non è di per sé un segno di qualità, ma se sai cambiare scenografia o disegno luci alla tua messa in scena, ti stai dotando di un’arma che qualcuno invece ignora (volutamente o per ignoranza), perché in fondo conta solo il giro, quei quattro accordi da ripetere all’infinito (cioè per due minuti). Esiste una parola tipicamente milanese per descrivere uno che gira sempre in tondo su sé stesso: pirla. Ecco, non essere un pirla: osserva dall’alto quel che stai facendo, e inserisci una variabile impazzita. Fai sgranchire le gambe alla tua canzone, perché poi quando arriva una progressione come quella intorno al ritornello di non sono io la tua solitudine nessuno può far finta che non smuova qualcosa dentro. Insomma, chiaramente Cani sciolti è un disco pensato, curato, ma non cervellotico: per questo mi ha ricordato Tapestry di Carole King, perché combina un’immediatezza quasi irruenta di espressione lirica a una forte consapevolezza del progetto.

La seconda cosa, la coesione tematica, mi sembra ancora più affascinante: la scorsa settimana prevedevo un album post-crisi, cioè un album che fa i conti con una serie di disavventure e difficoltà, le quali anziché essere trasportate tal quali (quello sarebbe un album di crisi) vengono usate per riconsiderare sé stessi, per ridisegnare i contorni del proprio mondo. Ed è così, con questo disco, che sembra un elastico tra Milano e il Veneto, tra essere soli e stare con qualcuno, tra l’adolescenza e l’età adulta. Il punto di vista è spesso retrospettivo, cioè ci si guarda indietro, ma non c’è quel sapore morboso di nostalgia: ad esempio la bella un bosco non idealizza le cose com’erano quando le preoccupazioni erano poche e si era liberi da impegni e casini, ma ne considera la fragilità, la caducità.

Il disco è coeso grazie anche a un ottimo flusso della tracklist. L’arte della sequenzialità nella tracklist non è apprezzata dalla maggioranza delle persone, ma io non sono la maggioranza delle persone. Perciò io vado in sollucchero se mi porti per mano nel tuo viaggio. Qui ad esempio posso partire da occhi grandi grandi, che parla di lasciarsi andare, e arrivo alla celebrazione del lasciarsi andare che si aveva una volta (un bosco). E mo’ che mi hai preso per il collo, siamo nel ricordo della provincia_ padova può ucciderti più di milano parla della lotta tra il luogo in cui nasci e il tuo senso della morale; e allora che bello sarebbe avere un ghetto perfetto (scritta con Fulminacci) un luogo ideale dove ci si riconosce tutti in alcuni valori fondamentali comuni, dati per certi. Hai detto “certezze”? Mi spiace, eccole che si sgretolano in quello che ancora non c’è, o forse si può sperare di ricostruirlé (e ricostruirsi) in piccola città, focalizzarsi su quella felicità che invece in bonsoir va presa di petto. Insomma, ci siamo capiti: Cani sciolti è “tracciato” molto bene.

Sono felice che esistano dischi così, cioè che per qualcuno fare musica pop non vuol dire sparare in basso, verso il minimo comun denominatore, che esista un senso di responsabilità. Che non vuol dire credersi migliori di quello che si canta, o migliori di chi ascolta. Significa crescere, insieme. 

Francesca Michielin è alle prese con il tour per celebrare il decennale della sua carriera, che è iniziato il 22/2 a Bassano e finirà il 22/4 a Napoli. Qui tutte le date ancora non sold out.


Lil Kvneki, Crescendo

A proposito di crescere… In tanti anni di interviste a musicisti ho pensato che errore grave comune a molti di loro fosse la scarsa curiosità di ascolto, la voglia di esprimersi più che di sentire altri farlo prima e poi provarci con qualche modello in più. Lil Kvneki non ha problemi a farci sapere che ha ascoltato e sta ascoltando un botto di Strokes e Interpol, e che crescendo queste influenze stanno prendendo il sopravvento. Penso che già gli PSICOLOGI dovessero molto all’indie rock di inizio millennio, ma stavolta Kvneki se l’è studiato, e ha messo in pratica quelle che prima sembravano reminiscenze. Ci sono pezzi dove le chitarre sono prese di peso da Is This It: Solo come un cane è un esempio; Regolare pare quasi un mash-up di Someday e Last Nite.

Ma non dà la sensazione del cosplay. Da una parte Kvneki non rinuncia a cantare come sé stesso (rinuncia solo all’autotune). Dall’altra si lascia lo spazio per espandere ulteriormente questa fase, come si sente in Umore a spirale che ricorda la disillusione alla Arctic Monkeys di Tranquility Base più che la scanzonata disperazione Y2K. Insomma, c’è qualcosa.

Lil Kvneki & The American Boyfriends saranno in tour a marzo: al Viper Theatre di Firenze il 16; al TPO di Bologna il 17; all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 23; alla Santeria Toscana di Milano il 24; al New Age Club di Roncade (TV) il 25; al Largo Venue di Roma il 31.


Miss Grit, Follow The Cyborg

Miss Grit ha preso il titolo del suo disco (Follow The Cyborg) da un classico del femminismo post-umanista Manifesto cyborg di Donna Haraway. Ovviamente l’artista Margaret Sohn non si riconosce nel concetto transumanista mainstream che ci è stato venduto da quei miliardari che vogliono congelarsi il cervello e vivere in eterno. Anzi, canzoni come Lain (Phone Clone) sono una critica netta alla versione mercificata e cinica dell’esistenza aumentata digitale: Miss Grit vuole avere indietro la memoria, l’attenzione, l’emozione, quelle qualità umane che abbiamo progressivamente appaltato ai nostri dispositivi digitali. Dopotutto fin dal primo EP Impostor, la polistrumentista esplorava le parti più scomode della psiche, come la sindrome dell’impostore vissuta in conseguenza del suo essere coreano-americana. Ugualmente, Follow The Cyborg esplora le cause del disagio non tanto per un’indagine fine a sé stessa, ma come motivazione per cercare un’esistenza più piena dentro quei nuovi confini, e rifiutare un umanismo digitale fasullo, dove il binarismo di genere (i pronomi di Sohn sono they/she) e l’ottimismo tecnologico ti intrappolano. Insomma, sembra fantascienza ma è intimismo rivoluzionario. Ah, e le canzoni hanno queste eco Byrne/Eno (Like You) e tante aperture melodiche e strumentali che aiutano il disco a respirare, a sottolinearne le caratteristiche umane più che robotiche. In The End, ode erotica di un’intelligenza artificiale alla persona che la sta usando, il timbro vocale è assolutamente umano, non una modulazione digitale da barzelletta. Un’altra trovata geniale del brano, che ne accentua l’umanità: il chiasmo (!) tra il crescendo dinamico e il ritardando, cioè il volume si alza ma il tempo rallenta, sul finale. In playlist metto l’ultima traccia, Syncing, che è tipo una break-up song di un avatar con il suo amante reale, ed è una delle canzoni d’amore più toccanti che ho sentito quest’anno, ma è ovvio che ti sto consigliando di recuperare questo bellissimo ascolto


shame, Food for Worms

Food for Worms dei prolificissimi shame (terzo album in 5 anni) vuole costringerci a fare i conti con il nostro destino di - appunto - cibo per vermi, la consapevolezza che almeno alla fine qualche utilità ce l’abbiamo tutti, e in generale che ogni gesto futile così come ogni pensiero altissimo andranno a finire nello stesso posto. Si apre con un pezzo fortissimo, che vale il proverbiale prezzo del biglietto: Fingers of Steel ha quella caratteristica di certe canzoni rock dove tutto sembra ti stia crollando intorno, e tu sei accanto alle persone di cui ti fidi di più al mondo a gridare, a viverti la catarsi del frangente: il fatto che la canzone sia stata ispirata dalle click farms dove tanti artisti major si comprano gli stream, dà a questo senso di catastrofe un sapore ancora più dolce. Il resto dell’album non tiene sempre questo ritmo, ma la qualità non cala, anche quando la tracklist esplora colori e tempi non sempre in linea con l’idea di post-punk inglese che ci siamo fatti negli ultimi 5-10 anni: sicuramente c’entra aver coinvolto un produttore super-veterano come Flood (The Downward Spiral dei NIN, Pop degli U2, Mellon Collie degli Smashing Pumpkin, Any Minute Now dei Soulwax). I testi hanno trovate adorabili: c’è la canzone che ha per protagonista Napoleone (Six-pack), quella che dice “ti voglio senza tutta la tua pelle” (Yankees), c’è quella che dice “eravamo turisti dell’adolescenza, amanti regrediti” (Orchid). E poi Adderall, dove Charlie Steen, il frontman, parla di psicofarmaci in modo abbastanza diretto. Metto in playlist proprio questa traccia e sfido chiunque a dire che la metto solo perché vi partecipa anche la mia amatissima Phoebe Bridgers. In realtà trovo originale il suo flow, che avvicina il recitativo post-punk inglese agli acuti strillati post-hardcore: diciamo che qui si sente quell’influenza dei Fugazi, spesso dichiarata dagli shame.

Gli shame suoneranno al Circolo Magnolia di Segrate (MI) il 23/3.


Model/Actriz, Dogsbody 

Dogsbody dei Model/Actriz è un disco affascinante (di cui ti avevo già segnalato un mese fa l’ottima Crossing Guard). L’intenzione della band newyorkese e del suo frontman Cole Haden era parlare dell’esperienza di crescere, non però nella maniera consolatoria di - che so - un teen idol, dove anche le sofferenze sono tappe di un passaggio dall’io adolescente all’io adulto. Qui non c’è nessuna costruzione, ma c’è il resto: panico, tremarella, ossessione. La pubertà come esperienza che ti sviscera e ti lascia lì a raccogliere i pezzi. Se ci metti che Haden ha quella capacità di intrigarti e intimorirti con una voce insieme sexy e psicopatica, un po’ alla Trent Reznor per intenderci, il gioco è fatto. Peraltro a tratti la loro musica si potrebbe davvero descrivere come il post-punk suonato dai Nine Inch Nails, saranno quelle drum machine trapananti. E come quei dischi di Reznor, ti fomenta, ma ti devasta anche: ci sono clangori industrial (Amaranth) e poi ballate post-rock (Sun In). Capisco chi definisce la loro musica (specie live) come qualcosa di religioso, perché effettivamente solo il culto riesce contemporaneamente a elevarti dall’umana esperienza e sotterrarti nella tua insignificanza.

Share

Gli altri album in breve

Questo è stato un venerdì di nepo babies. Oltre a Leo Gassman, c’era anche la figlia di JJ Abrams (Gracie). Quest’ultima ha pubblicato Good Riddance (che nessuno al momento canta in un parco), anticipato come un capolavoro bedroom pop, anche grazie allo zampino dell’ormai onnipresente Aaron Dessner dei National: musicalmente sopra la media, ci sono arpeggi di chitarra ben fatti (Amelie); purtroppo i testi sono solo PENSIERINI™. Quando lo ascolti ti senti in apnea, anche perché i pezzi non aprono mai. Ma abbiamo anche avuto il nepo daddy, Rob Grant, padre di Lana Del Rey, che non trovi in playlist perché dai...

Passiamo a dischi che mi sono piaciuti, tipo Rotten Bun For An Eggless Century, titolo meraviglioso dell’album di debutto di questa artista dream pop chiamata mui zyu, all’anagrafe Eva Liu, britannica nata a Hong Kong. Il disco è uno strano sogno ritmato da una drum machine e suonato da tastierine malate, irresistibile nella sua anarchia.

Shapeless dell’australiana di origine filippina daine è una contaminazione di pop elettronico d’avanguardia e hardcore melodico, sicuramente debitore di esperimenti come Sawayama, dove l’amore palese dell’artista per certo rock e metalcore (Turnstile, Code Orange) diventa una giustificazione morale per cantare a cuore (e polmone) aperto. Poi i concetti sono molto dalle parti del PENSIERINO™, però la musica li eleva.

Bless This Mess di U.S. Girls è una celebrazione della mancanza di senso ultimo della vita, e quindi una celebrazione della vita. E celebra talmente tanto che è praticamente dance pop, con tante tastiere e tanto funk, più che indie rock. Meghan Remy l’ha fatto nel mezzo della pandemia e a cavallo di una gravidanza gemellare, circostanza che in particolare l’ha ispirata ad abbracciare il disordine della vita (nell’ultimo brano ha anche campionato il suono del suo tiralatte, eccellente basso) e la stranezza (in playlist c’è una canzone dal punto di vista di uno smoking). Non sono titolato a parlare di maternità, ma da ascoltatore datemi cento album che ne parlano così, piuttosto che i dischi da neopancine.

Thanks For Nothing, il quarto LP della cantante e rapper Tink, è un break-up album R&B che ti consiglio di mettere tra un riascolto di SOS di SZA e l’altro. Freschissimo il disco del rapper Maxo, Even God Has A Sense Of Humor. Islands in the Sky delle Death Valley Girls, è psichedelico, surreale e vintage, ma con la cazzimma californiana: ci sono dentro le loro solite influenze stoner/sabbathiane, ma anche tanti B-52’s (All That Is Not Of Me), e alla fine, se non ti importa troppo delle velleità cosmiche, è un disco divertente con il tiro (la title-track, When I’m Free, e così via).

Nature Morte dei Big|Brave è un disco di musica pesantissima e catartica: loro sono un trio canadese che si trova da qualche parte tra doom metal meditativo e il post-rock disperato. In playlist metto la chiusa The Ten Of Swords che potrebbe essere la colonna sonora del finale di Red Dead Redemption 2, se mai riuscirò a finirlo.

Abbiamo anche due dischi jazz influenzati, in modo molto differente, dall’R&B. Da una parte Who Are You When No One Is Watching? (sarà un omaggio a Willie Peyote?) del sassofonista e cantante Braxton Cook, che è un’oretta di jazz suonato e cantato come se volesse vincere il Grammy. E poi, su un gradino superiore, Cookup di Sam Gendel, anche lui sassofonista, ma che l’R&B lo risuona coverizzando Beyoncé (Crazy in Love) come Erykah Badu (Didn’t Cha Know) o i Boyz II Men (Waters Run Dry), con uno stile non modaiolo ma molto cool. Nel senso dell’aggettivo e del genere di jazz. Metto in playlist la cover di Aaliyah Are You That Somebody, trasformata in uno spoken-word di un profilo di appuntamenti online sopra l’hook ripetuto allo sfinimento, ed è geniale.

C’è un nuovo album di Logic, College Park anticipato da un bel singolo (Wake Up) che è stato un cavallo di Troia, perché a parte qualche bel boom-bap e featuring nella prima parte (RZA; Norah Jones), dove i testi però sono più scemetti, la seconda ha testi profondi ma musicalmente è una piaga.

Italiani ne abbiamo eccome, oltre a Michielin e Kvneki. Tipo i Fiumi, la band formata dalla cantante Sarah Stride, dal chitarrista Xabier Iriondo (Afterhours), dal bassista Andrea Lombardini e dal batterista Diego Galeri (ex Timoria), che ha pubblicato un omonimo album molto anni Zero, suonato bene, con i testi forse troppo enfatici, ma lì son gusti.

Per sentirci nel 2023, invece, PANORAMA20 è un micro-EP di tre brani di Tripolare, artista che ti consigliai a ottobre per il singolo Coccinelle nere: mi piace in particolare l’ultima, Colori, una specie di esperimento psicanalitico sul senso dei ricordi, e che nella musica dissonante ma a suo modo trionfante riesce a evocare lo sconforto e la meraviglia delle memorie che riaffiorano.

C’è un interessante disco di elettronica strumentale, Tríptiko dei Fernweh creato per celebrare le opere di Hieronymus Bosch in occasione dei 200 anni del Museo del Prado.

Infine ho ascoltato Strange Dance di Philip Selway, che mi ha ricordato i primi album di Peter Gabriel. E con questo chiudo, ma se frughi nella playlist trovi altro.

Leave a comment

I singoli

C’è stato un bel movimento di annunci e singoli anche questa settimana. Kali Uchis ha pubblicato Moonlight annunciando a sorpresa l’arrivo dell’album Red Moon In Venus, che uscirà la prossima settimana. Kali è anche nel disco di Don Toliver Love Sick di cui non ho parlato ma di cui ho incluso una traccia con James Blake perché, vabè, ma anche 4 Me con Kali è divertente. E quella con Brent Faiyaz. E quella con Charlie Wilson. E Company pt.3. Ed Encouragement. Insomma, è un disco che vale un ascolto se sei in vena di un R&B abbastanza avanzato e rappuso.

Ci sono le mie solite selezioni dal mondo (anche il ritorno di Jain, te la ricordi?). Ma soprattutto tanta roba italiana, un elenco di nomi a metà tra il MI AMI e un bel Sanremo indie. Dente, con Cambiare idea, continua a far uscire dei singoli pregiati, sono molto curioso del disco che arriverà. Sicuramente in primavera ci sarà il disco di Colombre, che ha pubblicato Durerebbe un’ora, più graffiante ed espansivo e marcio rispetto alla sua produzione finora, con la melodia che rallenta alla fine del ritornello. Tanta roba.

Bello il singolo di LA NIÑA con l’inglese Mysie, intitolato Blu, vagamente in stile FKA twigs a questo giro. Mentre BLUEM, che seguiamo da tempo, si avvicina all’hyperpop nel nuovo singolo angel (e infatti - dice il comunicato - “si è avvalsa nelle fasi finali di produzione del collega e amico Arssalendo”). A maggio uscirà il suo album, di BLUEM, nou, e siamo in attesa.

Altro artista che abbiamo incontrato ai tempi è Vipra: il suo nuovo singolo si intitola Musica dal morto - Martini, ed è una critica aperta al mondo della musica della stampa musicale, che se lo merita. E - ultimo throwback a un’epoca in cui le interviste le mettevamo sulle Storie e quindi niente link - gli ISIDE hanno pubblicato un singolo malinconico, arrabbiato, stralunato, intitolato Funerale.

In playlist ci sono diversi altri brani italiani (anche Ma che hit di Big Mama perché è indubbiamente divertente), ma menziono Branchie di PONY che anticipa un album dal titolo bellissimo, Canzoni mostri: ballata lo-fi quasi naif; e Petrolio di Babele, che ha alcune cose che non mi fanno impazzire, ma il suo giro di accordi che sa di Radiohead. Ed è tornata la nostra adorata cmqmartina che anche in questa canzone (mi ami davvero?) si dà della stupida: insomma Marti, basta.

C’è un nuovo singolo dei The National (quando Aaron Dessner non è occupato a pagarsi il mutuo), e ti lascio indovinare come si intitola lasciandoti qui sotto la foto di una maglietta appena inserita nel loro negozio online

Hanna Jadagu, di cui ti avevo già consigliato una canzone nel lontano settembre, è tornata con un nuovo singolo e l’annuncio dell’album che il 19 maggio pubblicherà per SubPop, intitolato Aperture: la tengo d’occhio. Yaeji invece continua la marcia di avvicinamento all’album With A Hammer (7 aprile) di cui si parla molto bene.

In fondo, come sempre, si trova la roba da ballare e l’elettronica: tra cui un brano dal bell’EP di Channel Tres, Real Cultural Shit. Tu fammi sapere cosa stai ascoltando questa settimana e - se ti fa comodo - guarda qua sotto alcune date live degli artisti citati.

Ciao Louder

Dove beccare dal vivo questa gente, in Italia

I Big|Brave suoneranno a: Circolo Dev di Bologna il 30/4; al Dong di Piediripa (MC) il 2/5; al Circolo Gagarin di Busto Arsizio (VA) il 4/5.

cmqmartina è in tour da qualche giorno, prossime date: all’OFF di Modena il 4/3; a Le Cannibale [at] BASE a Milano il 10/3; allo sPAZIO 211 di Torino il 18/3; ai Giardini Luzzati di Genova il 25/3, ai Mercati Generali di Catania il 10/4.

Dente suonerà - verosimilmente il nuovo album - in primavera: al Locomotiv di Bologna il 4/5; al Monk di Roma l’11/5; al Viper di Firenze il 12/5; al Festival MI AMI; all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 9/6.

Vipra sarà l’opening act dei Viagra Boys al Rock Beach Festival di Bellaria Igea Marina (RN) il 20/8.

Colombre suonerà in primavera, quando verosimilmente l’album sarà fuori, al Monk di Roma il 15/4; al Locomotiv di Bologna il 21/4; all’OFF TOPIC di Torino il 27/4; al Lumiere di Pisa il 28/4 e a maggio al Festival MI AMI.

I Fiumi sono già in tour: prossime date a Villa Albrizzi Marini a San Zenone Degli Ezzelini (TV) l’11/3; al Gasoline di Brescia il 17/3; all’Apollo di Milano il 30/3.

0 Comments
Louder
Pioveranno venerdì
Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché