Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E07: l'alba del cringe-pop
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Pioveranno venerdì S02E07: l'alba del cringe-pop

4-10 marzo: cosa si ascolta nel multiverso di Everything Everywhere All At Once

Ciao Louder,

questa settimana non ho una lunga intro con la quale ammorbarti. Anche perché arriviamo tardissimo, di giovedì sera, giusto il tempo per farti fare un giro nella playlist (come sempre su Spotify e su AppleMusic). Però vorrei farti notare una cosa che ho trovato in comune tra gli ultimi album usciti e l’evento che ha chiuso definitivamente la stagione 2022 del cinema: la vittoria schiacciante agli Oscar del film Everything Everywhere All At Once.

Se non l’hai visto, non te lo voglio spoilerare, ma sappi che il tema principale è imparare ad amare le cose della propria vita che possono sembrare sbagliate, dolorose, scomode, se poste a confronto con le proprie aspirazioni o anche solo le infinite possibilità della vita. Nella sua esagerazione pop, nel suo abbracciare gli sbagli, nella sua inclusione vorticosa delle complessità è in tutto e per tutto una celebrazione dell’anti-cinismo, possibilmente inseribile nel genere hopepunk (tanto per citare una corrente estetica affine a quelle di cui parlavamo la scorsa settimana). Nell’ultimo ventennio, l’epoca dei commenti taglienti sui social e dell’engagement costruito sulle divisioni ideologiche, degli estremismi e dei personalismi, esprimersi in modo disincantato e cinico è diventato il linguaggio universale di generazioni sempre più ossessionate dal ricevere un upvote su Reddit, dal sembrare le persone più intelligenti nella stanza. La musica non ha sempre seguito questa tendenza, anzi il pop è stata una riserva di innocenza, a costo di aggrapparsi a dei cliché, talvolta. Questa settimana sono usciti almeno due dischi che incarnano un rifiuto del cinismo, una celebrazione della complessità e del grottesco, dello sbaglio e dell’amore, e lo fanno sul terreno che più di tutti divide le genti tra sentimentalisti e razionalisti: l’amore, l’argomento dove il cringe può sbocciare più facilmente. Ecco, al cringe questi dischi sono totalmente immuni, anzi sono quasi un antidoto. Non perché neghino che ogni giorno ci si imbatta in situazioni imbarazzanti che ti fanno arricciare il cervello. Tutt’altro, perché ogni cosa è imbarazzante, e quindi dobbiamo dosare con molta attenzione il nostro disgusto. Alcuni di questi temi sono presenti anche nei ragionamenti intorno all’album di Caroline Polachek, uscito un mese fa: il 2023 sarà l’anno del cringe-pop? Vedremo. 

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati: 24 album; 9 EP; 157 singoli

Fever Ray, Radical Romantics

Nella raccolta di poesia Esercizi di potere Margaret Atwood parlando delle relazioni tra due persone dice  «Una verità dovrebbe esistere,/ non andrebbe usata/ così. Se ti amo/ questo è un fatto o un’arma?» (trad. Silvia Bre). Ascoltando Radical Romantics, il terzo album di Fever Ray, mi son tornati in mente questi versi che descrivono l’amore come un equilibrio instabile da portare avanti con fatica, una tensione tra esigenze e desideri che non si risolve nei momenti più glamour. Anche quando non parliamo di abusi o relazioni tossiche, l’amore è una bestia vorace e pericolosa, un’impresa paradossale come il supplizio di Sisifo, e un modo molto originale per parlarne è descrivere nei dettagli come orrore e piacere possono coesistere. Radical Romantics scende in questi dettagli, parlando dell’amore erotico ma non solo, anche quello per la propria prole, o più in generale il collante sociale delle relazioni interpersonali (un amore platonico, in senso stretto). 

E come Waymond ed Evelyn si affacciano sul terrore esistenziale che si cela dietro la loro vita normale, banale, così Karin Dreijer toglie la crosta e guarda cosa c’è sotto, affrontando ciascuno di questi aspetti. Ci sono pezzi sensuali come Kandy e Shiver dove il piacere è descritto come terrificante e lisergico. Even It Out dove l’istinto di proteggere le proprie figlie dal bullismo si trasforma in una preoccupante fantasia di vendetta (con un’andatura alla Teenage Kicks che rivela come certi stati di rabbia siano circolari, nell’adolescenza come nell’età adulta).

La voce di Fever Ray tramuta nelle sue tipiche rimodulazioni androgine e surreali non per cercare l’estasi o l’epifania, come nell’eccellente Plunge; piuttosto, è come una maschera che cambia costantemente (stile Rorschach) per rivelare i picchi e gli abissi emotivi ma anche i ruoli fluidi nel teatro delle esperienze umane, in particolare quelle più triviali (ad esempio in New Utensils, una farsa oscura di vita domestica). La necessità di trovare un senso alla pulsione ad amare è la missione della voce narrante in questo disco: riesce a intuire che l’amore sia insieme tossico ed essenziale alla vita (la similitudine dell’anidride carbonica in Carbon Dioxide è fin troppo calzante), che sia tanto velenoso quanto curativo, come nelle antiche accezioni della parola pharmakon, ma non riesce ad arrivare a un perché. Riesce a capire cosa è necessario accettare per sentirsi amati, ma non da dove nasca questa necessità.

Fever Ray non ha una parola definitiva sull’amore: forse il verso più significativo è l’ammissione all’inizio di Looking For A Ghost, “We don't come with a manual”. 

E non c’è un manuale nemmeno per capire interamente la musica di Radical Romantics. Posso elencarti i produttori con cui ha lavorato, oltre all’immancabile fratello Olof: ci sono Trent Reznor e Atticus Ross (Even It Out; North); c’è Nídia nella tropicale Looking For A Ghost. Posso dirti che il finale, Bottom Of The Ocean, fu scritto un decennio fa per uno spettacolo teatrale di Ingmar Bergman.

Hai capito qualcosa in più? Non so, per me si capisce di più altrove. Ad esempio quando scopri che Karin avrebbe costruito la melodia di Carbon Dioxide su quella di Baby Elephant Walk di Henry Mancini, che ha descritto come la melodia pop perfetta. Bene, è in questo universo imperfetto e gigantesco che si muove Radical Romantics: tutto il resto è troppo piccolo per contenerlo.


Rareş, Femmina

La prima volta che ti ho consigliato una canzone di Rares, avevamo a malapena una playlist. Nell’Archivio Louder 2021 trovi già tre pezzi. E non ho smesso di raccomandartelo, perché quando passa dal pop italiano qualcuno con la curiosità e la voglia di allargare lo sguardo, bisogna assolutamente farci caso. Femmina è il suo nuovo album, e vale sicuramente una segnalazione per il modo crudo, visionario e massimalista con cui parla dell’amore e lo mette in musica. Per molti versi è un perfetto ascolto dopo Radical Romantics, nella misura in cui sviscera le parti grottesche ma essenziali della relazione tra due persone, che lascia tanta confusione quanta chiarezza. La voglia dell’artista di ravanare nel torbido si sente prima di tutto nella musica, che senza alcun ordine precostituito accumula art-pop, indie rock, acid house, trap, noise, musica leggerissima e pesantissima, per vagare in un luogo che sta da qualche parte fra gli Animal Collective e i 100 gecs: prendi un pezzo come Se piangi tu dove intorno al refrain fanciullesco (“se piangi tu piange tutta la tv”) passano in marcia una drum machine che batte in quarti, una chitarra acustica arpeggiata, un synth acidone, un basso funk latino, e alla fine tutto resta coeso. Tanti brani hanno un’attenzione particolare ai tempi e alle ritmiche, come se volessero presentarci l’artista non come una figura certa delle sue idee e dei suoi sentimenti, ma un vagabondo in cerca di sicurezze: senti come zoppica Como tu y yo, usando come assurda base del ritmo il sample capovolto di ottoni (da un pezzo di Chuck Berry, dice il comunicato) che si sente al principio; o il dembow reggaeton incerto di Fazzoletti; o i bpm fluttuanti di JK; o - ultimo esempio - il ritornello nell’inusuale 7/4 di Peggiore mossa

Passando alle liriche, le parole di questa specie di nadsat parlato da Rares, che accostano passato presente e futuro, il sostrato della lingua natale (rumeno) con l’italiano e l’inglese, il maschile e femminile, l’errore e la citazione, aprono strani squarci nel subconscio proprio come faceva la lingua creata da Anthony Burgess. In Iubi Kiss Me Iubi (“iubi” significa “amore” in rumeno) c’è la premura affettuosa e il desiderio sessuale, il nonsense e il bisogno di farsi capire. In You Be My la disperata voglia di dichiarare il sentimento ricorda il pop totalizzante degli anni ‘60, e allora la mezza citazione delle Ronettes (Be My Baby) funziona come una spia. Inoltre la tracklist ha un bell’arco: partendo dalle più concettuali e squadrate ruvida e Femmina le canzoni man mano si fanno sempre più caotiche e primordiali, culminando nell’ammucchiata di Tramacci, che sarebbe un finale molto difficile se non fosse seguito da Vasca, un brano senza base ritmica, vulnerabile come un serpente ferito più che come un tenero coniglietto, dove ogni parola e ogni suono si decompone e cambia pelle. 

Consigliare un brano di questo disco come se potesse essere rappresentativo è impossibile, quindi al di là di quello che troverai in playlist, fai il favore di sentire tutto l’album.


Sleaford Mods, UK GRIM

Devo ammettere che gli Sleaford Mods avevano smesso di entusiasmarmi da un po’: le loro formule rodate, il loro modo di tagliare corto sui (legittimi e spesso condivisibili) ragionamenti sociologici li rendevano sempre più simili a una di quelle pagine social di successo, tipo “GranBretagnafaschifo”. Che potrebbe essere peraltro un adattamento abbastanza fedele del titolo del loro nuovo album, UK GRIM, se vogliamo. Insomma, avevo paura di un progetto sempre più simile a B.H.S. e sempre meno a Tied Up in Nottz, vista la direzione dell’ultimo superpolitico album. E i singoli che hanno anticipato UK GRIM non facevano ben sperare: l’ultimo, che sarebbe dovuto essere il focus single da inserire nelle playlist di mezzo mondo, So Trendy, è una satira di grana molto grossa, cringe ma stavolta non in senso buono. Invece il resto dell’album rivela molto di più, una specie di corrente alternata che in una traccia è denuncia e nella successiva è empatia (ma mai simpatia): è come se dopo aver preso a bastonate il popolo britannico, il duo di Nottingham avesse avuto un attimo di pietà.

In particolare il finale Rhythm Of Class accomuna non solo i parlanti della lingua di Shakespeare, ma è piuttosto un ragionamento universale, non solo sul libero mercato e il consumismo, ma sul fatto che tutti quanti, nessuno escluso (anche nei paesi “dove pensiamo che stiano peggio di noi”), abbiamo le stesse sfide davanti. E qui e negli altri passaggi più universalisti ed empatici anche la musica addolcisce il martello punktronico di Andrew Fearn, quindi tutti possiamo capire.

Gli altri album, in breve

Comincio dall’album pop per eccellenza di questa settimana, che non merita un approfondimento perché non è bello: Eternal Summer Vacation di Miley Cyrus è mediocre, non all’altezza del singolo che l’ha anticipato. La prima metà dell’album svanisce proprio come le vacanze estive al 1 di settembre, altro che “endless”. La seconda parte, dove si sente la mano di Mike Will Made It (il co-autore di Bangerz, potremmo dire) in Violet Chemistry o nella pesantone Muddy Feet featuring Sia, gira molto meglio. C’è anche una traccia prodotta da e scritta con BJ Burton, il produttore che ha contribuito a cambiare in senso cubista il suono di Low e Bon Iver, ma che qui probabilmente ha solo preso un bell’assegno e non gliene faccio una colpa.

Questa volta passiamo subito alla musica italiana, perché c’è davvero tanta roba.

Come ho detto una settimana fa riguardo il singolo Muro, l’album di Gaube intitolato Kulbars mi ricorda per tanti versi Iosonouncane. Giustamente il disco viene presentato come erede del prog rock, ma il paragone con Jacopo Incani continuo a farlo per un paio di ragioni. Intanto, perché a prescindere dai generi e dagli incasellamenti, questo album mi ha fatto pensare agli aspetti più tragici e titanici della vita, come l’intera produzione di Iosonouncane. Poi ci sono ovviamente delle ragioni di tessitura del suono, con quelle voci tanto declamatorie quanto sparse negli angoli del mix; o quei riverberi esagerati e gotici; o ancora l’ingresso di chitarre o pianoforti che tagliano l’aria densa e nebbiosa. Ovviamente alcune di queste caratteristiche si possono riconoscere ai Pink Floyd, ma diciamo che se dopo Kulbars metti La macarena su Roma ti farai un bell’ascolto di rock italiano.

Hotel de la ville di Laurino è un album delicato e nervoso, di un pop alternativo che può pescare dal cantautorato indie come dal soul classico, e di conseguenza arrangiato con grande gusto per suonare senza tempo. Molto interessante anche la scrittura. Ci sono canzoni dove eventi del mondo reale influiscono sulla sfera intima (Funerale), e contiene alcuni versi geniali: “tienimi come le tue sigarette” (Barche);  “le poche spezie rimaste mi fanno viola” (Buddha). Questo è il pop esattamente come dovremmo esigerlo, e bisogna ringraziare l’artista veronese per questo.

Le ombre di Valentina Polinori merita un ragionamento simile: l’album dell’artista romana è dolcemente bizzarro, una celebrazione degli angoli oscuri della normalità, dove appunto si trovano normalmente le ombre. Ci sono alcuni ottimi spunti musicali, nonostante il minimalismo generale delle composizioni. E anche versi adorabili, come “Quando litighiamo anche il terrazzo sembra un seminterrato”: sarà per caso una rivisitazione del Cielo in una stanza?

Amundsen di Leo Pari parla di scrollarsi di dosso l’ossessione del primato e riscoprire non solo il piacere di cose normali, ma il piacere di cantarle. Alcune canzoni buttano pericolosamente verso il melodrammatico indie, però la title track e i singoli già consigliati, come Roma Est e soprattutto Giorni No, funzionano. C’è anche un EP di N.A.I.P., Dovrei dire la mia, un conciso messaggio sul bisogno a tutti i costi di dire la propria, che trovo associabile all’ossessione di arrivare per primi: ovviamente qui, conoscendo l’artista, si naviga nel non-sense che si produce quando si crede di dover sempre intervenire.

Canzoni mostri di Gabriele Bosetti, in arte PON¥, è un altro tipo di navigazione nell’oscurità. L’artista, che ha un chiaro debito nei confronti di Daniel Johnston (come dimostrano gli artwork dei primissimi singoli del 2021), sta all’opposto del tanto massimalismo sentito in queste nuove uscite. Al contrario, c’è un minimalismo horror nell’incedere slowcore di synth e chitarra riverberata in un pezzo come Alamo, o negli accordi funerei di organo in È successo qualcosa. Anche le parole sono centellinate, come se volessero portare rispetto al minuscolo confine in cui si muovono: una stanza, un letto, una scatola cranica. 

Altri consigli internazionali, al volo: Light Split Sparkle dei Double Wish, un EP senza skip; Manzanita di Shana Cleveland che è una coccola voce, chitarra e malinconia; Tusky di Robbie & Mona, che è dark wave sexy e perversa; Milk For Flowers di H. Hawkline è un bel disco lezioso e strambo; Sublimation di Shalom, per rivivere la rabbia e la disillusione dei vent’anni con una bella chitarra distorta e alcuni bassi grassi, ma scritto senza fingere di essere nel 1995 (non ricordo al tempo canzoni sulla voglia di non farsi vedere in pubblico, come Bodies; né canzoni d’amore preso male come Train Station o Mine First, basate però sull’importanza di mettere a fuoco sé stessi prima di definirsi in base al rapporto con un’altra persona).

Ducks di Nicholas Krgovich, un disco sulla solitudine che non ha nulla della disperazione che solitamente associamo a questa condizione. Sono 11 quadretti dolceamari, con quella contentezza di chi si lascia meravigliare dalle famigerate piccole cose, che si tratti dello scioglimento della neve o del cantare Alicia Keys in macchina. Non è nemmeno un oggettino naif: in Cup Full la voce narrante si chiede proprio se non stia facendo una cazzata, a vivere come vive. E allora devi arrivare fino all’ultima traccia per provare a capirlo, e forse il finale è prevedibile, ma ti fa anche male al cuoricione.

Il disco delle Meet Me @ The Altar, Past // Present // Future, è una delle prime cose del revival pop punk che non mi abbia fatto sbadigliare o imbarazzare. Diciamo che vendono al massimo e senza birignao il senso di ribellione adolescenziale associato al genere. Comunque, nulla spicca in modo assolutamente memorabile, nonostante il coinvolgimento di un veterano come John Fields alla produzione (Andrew WK, Jimmy Eat World).

Se cerchi qualcosa di più unico e con un’energia più selvaggia, c’è Post-American dei MSPAINT, band del Mississippi che incredibilmente non fa blues o trap. La loro musica è un rock strillato, intransigente, spigoloso, che riesce a essere sperimentale ma anche il contrario di snob: ad esempio, le influenze rap metal nel flow del cantato non possono essere casuali. Di base sono muratori del rock alternativo, che tirano su muretti a secco con i sintetizzatori e si scambiano strumentali piuttosto spettrali. Per chiudere il giro con il discorso iniziale, anche qui sento una ricerca di innocenza, ma in un panorama decisamente più hopepunk, cioè post-apocalittico. Solo che la fine del mondo è lo stato attuale delle cose nella società capitalista americana. Ti avevo già consigliato settimane fa la traccia Delete It con la band hardcore californiana Militarie Gun, probabilmente il pezzo migliore del disco insieme con la title-track, quindi ti consiglio Titan Of Hope, pubblicata già da un mesetto ma colpevolmente ignorata, e che troneggia nella seconda metà dell’album (decisamente più forte della prima).

Ricordo come sempre che alla fine della playlist c’è la roba da ballare, tipo l’EP di Nia Archives, Sunrise Bang Ur Head Against Tha Wall, che è il fenomeno di un revival drum and bass per il quale incredibilmente non c’è l’entusiasmo del revival pop punk.

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I singoli

Anche tra i singoli usciti venerdì scorso c’è tantissima roba italiana di ottima fattura: Rosso di Generic Animal, che anticipa un EP in uscita il 30 marzo, ed è una canzone delicata e ruvida. Poi c’è Joanne di Claudym, un pezzo pop fatto davvero a modino, e per nulla scontato. E Uno9999 di Ele A, che è il mio pezzo rap della settimana. C’è anche un bel singolo dei Sick Tamburo con Roberta Sammarelli dei Verdena, Per sempre con me, che ovviamente mi fa pensare a Elisabetta e giù i lacrimoni. Tra gli altri italiani che hanno pubblicato singoli che troverai in playlist: Gazzelle, Amalia, Nesta, Lucrezia, Amnesia, Maria Faiola, fil ricchiardi, Giovanni Toscano, Vinz, Milly>, ¥UMA e la nuova era di Roshelle (vedremo che direzione prenderà). Menzione a parte per i Crimi, band francese che scrive testi in un grammelot siculo-arabo e fanno una musica piena di groove, molto psichedelica ma per nulla arruffona.

Christine And The Queens ha annunciato il suo prossimo album, PARANOÏA, ANGELS, TRUE LOVE, che contiene diverse produzioni di Mike Dean (quello dell’anno scorso a nome Redcar non ci era piaciuto tanto) e collaborazioni tra cui tre tracce con Madonna (sì, lei) e due con 070 Shake. Il primo singolo si intitola To Be Honest, e ti piacerà molto. Il disco arriva il 9 giugno.

Tra i singoli migliori c’è Nothing’s Free di Angel Olsen (uno shuffle, cioè un 12/8, tà-tata ripetuto quattro volte in una battuta, non farti ingannare da chi dice che è un valzer) che anticipa l’uscita delle canzoni scartate dal suo ultimo eccellente e anzianissimo Big Time, intitolato Forever Means. Segnalo anche CooCool di Roisin Murphy, che sa farti agitare i fianchi come nessuno al mondo.

In playlist trovi anche diverse cover, perché è stato un venerdì così: Rufus Wainwright con Brandi Carlile rifanno Down in the Willow Garden, brano tradizionale americano reso celebre dagli Everly Brothers; Susanna Hoffs rifà Under My Thumb dei Rolling Stones; e soprattutto Florence + The Machine rifanno Just A Girl dei No Doubt per la colonna sonora della serie Yellowjackets. E poi c’è anche il progetto di sole cover Karaoke di Hello Mimmi, da Bomba Dischi, che è la serata del karaoke di Paolo Sarpi nel 2099, in uno stile hyperpop che grazie alle produzioni di VillaHarcore pesta sui bassi: c’è Splendido Splendente che diventa quasi techno; Almeno tu nell’universo che gioca continuamente con le nostre aspettative. Ma in playlist metto Del verde di Calcutta prima di tutto perché bisogna sancire il suo ingresso nel canone pop; e poi perché - senza voler dire una bestemmia - preferisco questo arrangiamento all’originale.

Per finire, in playlist trovi anche la canzone in gara a Eurovision per l’Austria (SPOILER: aspettati un approfondimento a breve). Il brano si intitola Who The Hell Is Edgar, è delle cantanti Teya e Salena, ed è un gioiello pop che nasconde una critica all’economia e alla cultura dell’industria musicale in questo sedicente rinascimento che stiamo vivendo. A proposito: hai saputo che Spotify è diventato come TikTok? E che, nonostante dica che sempre più artisti incassano più di 10k dollari all’anno da Spotify, in realtà ci vorranno più di 700 anni prima che questo modello possa diventare sostenibile e universale? Bello eh.

E con questo chiudo qui, che siamo lunghi. Di una settimana, quasi.

Ciao Louder

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Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché