Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E08: spegnere l'autotune
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Pioveranno venerdì S02E08: spegnere l'autotune

11-17 marzo 2023: metafore, "canzonine" e fritture vocali
i 100 gecs in livrea Louder

Ciao Louder,

Questa settimana c’è tantissima musica di cui parlare (lo dico sempre, eh) quindi se per te va bene, andrei velocissimo con l’intro. Dico solo che a questo giro, tra i tratti d’unione dei dischi e singoli ascoltati, ho notato una sorta di desiderio comune di spegnere l’autotune. Come ho detto tante volte, non ho nulla contro l’uso artistico di autotune: ho qualche riserva per l’uso della pitch correction per far suonare bene gli scarsi, ma questo è un altro discorso. Non so se questo parzialissimo abbandono possa essere considerato un trend, probabilmente no. Sicuramente arriviamo da un decennio abbondante di abuso del mezzo, e ci aspetta almeno un quinquennio di risacca. Parafrasando quello che ha spiegato John Seabrook nel suo classico libro The Song Machine, il pop produce i contenuti virali e i suoi stessi anticorpi: dopo averci convinto strenuamente che l’uso di autotune non implica una minore “verità” della canzone, ora temo che (progressivamente) proverà a convincerci del contrario. Lo vedi nel proliferare di (revival di) generi considerati “autentici”: punk; emo; bedroom pop. Molti degli stessi artisti mainstream che cinque anni fa volevano portarci nel futuro, ora vogliono frenare e mettere la retromarcia. Noi non facciamoci sbatacchiare troppo di qua e di là, e pensiamo a cosa suona bene, a cosa ci provoca una reazione nell’intelletto o anche solo nelle orecchie: che sia di moda, oppure no.

Tu intanto metti su la playlist (su Spotify e su AppleMusic) e noi cominciamo.

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 28 album, 8 ep, 97 singoli

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Yves Tumor, Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)

Le prime parole pronunciate da Yves Tumor nel suo terzo album sono “Sometimes it feels like there’s places in my mind that I can’t go”: per i restanti 37 minuti di ascolto ci tocca scoprire se davvero questi luoghi proibiti sono inesplorabili. La risposta è no, al contrario: Sean Bowie (il vero nome dell’artista) ha la precisa missione di visitare questi luoghi protetti dal tabù e dal trauma. L’esperienza di una relazione sessuale con una persona amica, e la paura che questa desideri qualcosa di più (Lovely Sewer); la rassegnazione alla propria meschinità quando si scopre che un minimo successo cambia davvero le persone, con un’insistenza molto sincera e urticante sulla domanda “ma chi ti credi di essere?” che invita a sederci a tavola con questo dubbio (Parody); il falso senso di sicurezza che cerchiamo nelle relazioni (Operator; In Spite Of War); la co-dipendenza sentimentale (Echolalia). 

Musicalmente parlando, Praise a Lord è trascinante, Parlare della contaminazione di generi diversi nella musica di Yves Tumor (trip-hop; noise; hard rock; new wave; etc) può essere epistemologicamente pericoloso, perché il suo non è solo un arazzo di timbri, o un collage infantile. Prendi il finale di Lovely Sewer, che apre il martellare ossessivo post-punk; o, viceversa, prendi Meteora Blues, dove la continua promessa di apertura del refrain di chitarra (Do - Sol - La minore) viene smorzata in un loop infinito e frustrante. Il capovolgimento della spinta non è casuale: la prima canzone parla di un desiderio soddisfatto; la seconda descrive in modo impressionistico un desiderio che da fantasia generica promette di realizzarsi nel concreto. Insomma, l’artista sa maneggiare le nostre aspettative. Sa creare un dittico sul fuoco accompagnandoci in una marcia post-punk (Fear Evil Like Fire) e poi abbandonandoci dentro una selva oscura dove riecheggia un beat soul mutilato (Purified By The Fire). Ossessionato dall’immagine del paradiso (Heaven To A Tortured Mind era il titolo del disco del 2020), Yves Tumor ci accompagna nei gironi di un purgatorio dove la beatitudine è sempre a un passo, finché non ci si guarda allo specchio. Ma, pure in questa ragnatela di sensi di colpa, a questo album riesce anche una risoluzione finale, Ebony Eye, un cataclisma di cori, archi e bassi discendenti (con qualche rimando al Kanye di My Beautiful Dark Twisted Fantasy) come non se n’erano mai sentiti nei dischi di Yves Tumor.


M83, Fantasy

Ho la netta impressione che sul mercato della coolness, dichiararsi fan o ascoltatori assidui dei M83 non vanti grandi quotazioni. E capisco chi arriva a questa conclusione: con una carriera poco più che ventennale, che ha avuto un successo gigantesco 12 anni fa e poi sostanzialmente un lungo giro d’onore con due dischi dimenticabili e tanti contributi alle colonne sonore di film, serie, videogame. Fantasy però è un altro discorso: è un disco della madonna. Elettrizzante, massimalista senza particolari filosofie, un disco sempre in crescendo e in salendo, se si potesse dire.

Armato di decine di sintetizzatori Anthony Gonzalez ha dipinto con i suoni, andando dove molti non vogliono più avventurarsi: su quel piano in cui la musica ti fa venir voglia di agitare le anche (Fantasy) ma anche chiudere gli occhi e abbandonarti, mentre ti senti portato in braccio da una brezza di glitter, in sella a un fortunadrago (Deceiver). 

Gonzalez ha dichiarato di aver pensato ai live mentre preparava questo disco, e per una volta non sembra un luogo comune. Diciamo che se c’è una dimensione di ascolto in cuffia fantastico (del tipo che la prossima volta che vi dicono che il produttore di moda del momento è un maestro del sound design fategli sentire questo disco e mollate la conversazione), però c’è anche una precisione e un focus nel trattare ogni brano come un microcosmo che ha bisogno di coerenza in termini di timbri, anche quando la composizione va per i fatti suoi in mille movimenti (Laura), che gli dà l’aspetto di qualcosa arrangiato per essere riprodotto su un palco e non solo creato in studio.

Del resto questo disco può anche leggersi facilmente come un lavoro di gruppo: con Gonzalez hanno collaborato il solito musicista e produttore Justin Meldal-Johnsen (con M83 dai tempi di Hurry Up, ma di recente anche co-responsabile del bellissimo singolo dei Jimmy Eat World che abbiamo messo tra i migliori brani in assoluto del 2022), ma anche i componenti di quello che il progetto M83 diventa dal vivo, come Joe Berry e Kaela Sinclair (che è anche artista featured della canzone Kool Nuit). O la brava artista shoegaze americana Kristina Esfandiari.

E nonostante una certa densità nel DNA di questo disco, Fantasy non ti chiede mai di affidargli la salvezza della tua anima o la spiegazione definitiva dell’universo, non è la metafora di nulla né la chiave per nessuna porta: i suoi testi non hanno senso, si potrebbe dire, sono parte dell’arazzo; l’unica cosa che pretende da te è distrarti per un’oretta e lasciarti trasportare ovunque vada. (Si va in alto, comunque, nessuna paura). E nonostante questo, definirlo una “fuga” sarebbe riduttivo. Amnesia è uno dei pezzoni da far rizzare i peli sulle braccia del 2023, non credere a chi vuole convincerti del contrario, e sarà quasi certamente uno dei singoli dell’anno. Te lo abbiamo già consigliato, però, quindi in playlist entra la title-track.


100 gecs, 10,000 gecs

Il nuovo disco degli 100 gecs, 10,000 gecs, si apre con l’effetto sonoro della THX, quello che si sente al cinema per intenderci. Subito dopo arriva un riff thrash metal, a ricordarci che nulla va preso troppo sul serio. Il secondo album del duo americano composto da Dylan Brady e Laura Les è anche il primo a uscire per major (Atlantic, gruppo Warner): e allora mettere subito in chiaro che la bolgia non è finita ha una funzione importante, è una rassicurazione per le masse di strambi come loro che li seguono da anni, che hanno abbracciato l’estetica del loro caos. Ma è anche un biglietto da visita per chi li incontrerà per la prima volta. 

Ma solo perché nulla è sacro non significa che i profani siano persone poco serie. Brady e Les sono due appassionati onnivori di musica che non vedono l’ora di condividere con qualcuno la loro collezione di CD masterizzati, e dimostrargli quanto spacchino pop-punk, nu metal, ska e così via. Lo fanno come persone che te ne vogliono far apprezzare i lati migliori, non quelli peggiori sanciti dalle mode che un tempo li coronarono come punti di riferimento della cultura pop. Ad esempio, come generi fallocentrici, totalmente anti-autoironici e inconsapevoli delle loro stramberie (ma viceversa perfetti per ghettizzare tutti gli ascoltatori di “altra musica”).

In parte è una storia che abbiamo sentito nell’ultimo decennio post-PC Music: il pastiche non è mai fine a sé stesso, è un buffet carnivoro composto dal quinto quarto di una bestia troppo a lungo sfruttata solo per le bistecchine, magari saporite (non sempre) ma raramente nutrienti. Come non morirai se provi la trippa o le cervella, così non ti succede niente se usi l’energia circense di un Les Claypool per sottolineare un’assurdità esistenziale. E se pensi di avere uno stomaco troppo debolo per ingerire questo pop, 10,000 gecs a mio parere trova un gusto più vasto e universale: lo fa moderando l’uso di glitch e di tutti quegli stilemi hyperpop che più di tutti disorientano l’ascoltatore millennial. Non direi che si tratti solo di una commercializzazione del loro stile (avrei difficoltà a definire questo album “commerciale”), mi sembra piuttosto un lavoro profondo di riconsiderazione delle priorità e del senso di quel che si fa. Ad esempio, l’autotune e la modulazione del pitch sono molto meno frequenti qui rispetto ai lavori precedenti, principalmente perché Les lo ha utilizzato di meno: in passato la musicista transgender aveva dichiarato che questo strumento l’aveva aiutata a fare i conti con la disforia di genere, ma aveva anche dichiarato di aver preso lezioni di canto per superare questa dipendenza. E il risultato si sente in diversi momenti focali dell’album (Hollywood Baby; Frog On The Floor; mememe che ti consigliai già nel lontano 2021 e solo per questo non finisce in playlist) dove la sua voce priva di effetti si esprime senza timore di non sembrare sufficientemente femminile (qualunque cosa significhi). In questo senso viene meno una delle premesse dell’hyperpop, la fiducia nella tecnologia come ariete per abbattere costrizioni sociali, culturali e di genere. Laura Les ci dimostra che esistono altri strumenti, che la ricerca del sé non può esaurirsi nell’esistenza digitale, che ha tanti pro quanti contro. Per questo ho trovato un interessante collegamento tematico (non sonoro) con l’album di Miss Grit, Follow The Cyborg, di cui ti ho parlato qualche settimana fa.

Detto questo, il pastiche non ortodosso di generi continua a essere il pane quotidiano dei 100 gecs: come niente fosse, passi dalla glitch (757) al death metal (Billy Knows Jamie), a un coacervo di entrambi, con un passaggio di basso slappato (One Million Dollars); puoi trovarti davanti un sample dei Cypress Hill incastrato senza riverenza alcuna dentro un riddim giamaicano deturpato (The Most Wanted Person In The United States); una ballad rock può precipitare in uno ska da fiera di paese (I Got My Tooth Removed). Eppure, una volta che la polvere sollevata torna a posarsi a terra, resta in aria il bisogno disperato di trovare un senso nel post-disastro, sentimento che non potrebbe essere più attuale per chi naviga nel mondo di oggi con un minimo di scetticismo e relativismo. Nella moltiplicazione continua, esponenziale dei “gecs”, siamo progressivamente tutti coinvolti nella perdita di direzione; siamo la rana che non si sa da dove sia arrivata nel mezzo di una festa universitaria e per la quale sarebbe carino se tutti le lasciassero lo spazio e il tempo di capire dove deve andare; siamo la più stupida ragazza al mondo, che chiede non fiori ma emoji sulla sua lapide, e tuttavia ha l’intelligenza infinita di vedere i propri limiti. I 100 gecs sono semplicemente qui per ricordarcelo, e spassarsela mentre lo fanno.


U2, Songs of Surrender

Il senso dell’operazione Songs Of Surrender degli U2 è chiaro: Bono aveva un’autobiografia da lanciare e tutto sommato poca trazione rispetto a (che so) un Bruce Springsteen, e quindi aveva senso mettere insieme al libro e al tour per presentarlo una revisione “minimalista” dei grandi successi (un brano per ogni capitolo del libro). La quarta ruota di questo ingranaggio commerciale perfetto è la residency a Las Vegas in autunno (piuttosto discutibile, vista l’assenza di Larry Mullen Jr). E così gli U2 hanno trovato un modo tutto sommato intelligente per dare una rinfrescata al catalogo, che ai più nerd e a quelli (come me) che non hanno mai nutrito un’antipatia precostituita (e scema) per la band permette di scoprire a ritroso il meccanismo compositivo di The Edge: in sostanza, cosa sono le sue parti, senza delay? Purtroppo quasi tutti i singoli pubblicati in attesa del disco erano delle mezze ciofeche: ho preferito Beautiful Day rispetto a Pride, With Or Without You e One, ma sono tutte e quattro poca roba. E invece in questo quadruplo album ci sono canzoni interessanti, e ora ti metti qui e con buona pazienza me ne lasci parlare: 

  • Where The Streets Have No Name è la mega-hit che dovevano tirare fuori prima della release, perché in questa versione da organista depresso ha una gravitas che all’originale manca

  • il delay di Bad è l’unico che riesce a essere tradotto con un arpeggio scheletrico e incredibilmente tattile 

  • nel secondo ritornello di Walk On c’è un piccolo arpeggio di pianoforte che tira su tutti i peli delle gambe

  • Red Hill Mining Town grazie agli ottoni sembra più un affare di paese e non la menata di quattro ricchi ragazzini che parlano di scioperi dei minatori inglesi

  • in Dirty Day il basso di Adam Clayton e il drone di The Edge sono sostituiti con un quartetto d’archi ma molto di gusto 

  • in The Fly il pianoforte ruba il posto del basso e ne accentua enormemente il riff, nel break alla fine del ritornello, e fa entrare il pezzo in una dimensione un po’ Tom Waits

  • Desire a mio avviso è più blues così che nella versione originale, perché ti lascia da solo con il giro di accordi, trasformando il riff in una specie di soundscape ambient

  • All I Want Is You resta stucchevole nel testo, ma è un pezzone di per sé e (come il pezzo precedente) tira fuori qui la sua radice americana, diventando una specie di alt folk di buon gusto

  • Stay (che tra parentesi ha uno dei versi migliori degli U2 e del pop in generale, “dressed up like a car crash”), in questa versione pianistica e con il registro più basso possibile di Bono, starebbe molto meglio sopra il video di Wim Wenders rispetto all’originale

  • Two Hearts Beat As One trasforma la new wave punkereccia in uno swing da discoteca, ma acustico, e dimostra per l’ultima volta che quando si parla di U2, “arrivi per Bono e The Edge, e resti per Mullen e Clayton”

Ecco, se avessero pubblicato anche solo queste, magari pure “40” e due mega-hit, sarebbe stato un disco da 8.5, e invece niente da fare. Perché alcune canzoni sono dimenticabili, e altre hanno un problema a monte: The Edge non è un chitarrista che compone sull’acustica e poi aggiunge gli effetti; gli effetti sono parte integrante del processo creativo. E non a caso i pezzi che (nell’originale) si affidano troppo al delay, o dove gli accompagnamenti sono basati su bordate, pennate e ostinati, si sgonfiano. E va bene così: bisogna arrendersi al fatto che siamo nell’era della musica registrata; che “se una canzone funziona chitarra e voce allora funziona dappertutto” è una massima da biscotto della fortuna; che la musica si crea e si produce, non è più roba da spartiti e partiture. Almeno una lezione si porta a casa, da questo ascolto ESTENUANTE.

Gli altri album, in breve

Questa settimana il disco italiano più bello è Le canzonine di Enrico Gabrielli. Il primo disco a proprio nome per un musicista che ha suonato praticamente tutto e con tutti (Mariposa, Afterhours, Calibro 35, PJ Harvey, Mondo Cane, etc) è una collezione di composizioni per bambini, iniziata da Gabrielli in piena pandemia per ragioni personali, cioè per avere filastrocche e ritornelli da cantare alla propria prole. Si è trasformata in una celebrazione della paternità non tossica grazie alla partecipazione di mezzo mondo indie italiano: I Cani, Dimartino, Brunori Sas, Cosmo, Giovanni Truppi, Alessandro Fiori, Andrea Laszlo De Simone, Francesco Bianconi, Giacomo Laser, Roberto Dell’Era. I papà possono essere teneri, possono occuparsi della crescita emotiva dei loro figli: non scontato in un’epoca dove spopolano le narrazioni politiche delle famiglie tradizionali, dei ruoli di genere marcati in modo rigorosamente binario, e altre idee ottocentesche. Trovo questo disco irresistibile: perché nella semplicità delle sue rime baciate e delle sue melodie a trottola parla di ambiente (La notte di Natale; Prima c’era; La stessa città), società (Una volta a Carnevale; Social-dramma) e perfino filosofia (Sopra qualcosa), senza guardare i bambini dall’alto al basso, ma trovando un linguaggio comune. Come si fa nei migliori albi illustrati, o come si faceva nella tradizione scomparsa della canzone d’autore per bambini, quella di Endrigo e De Moraes. E in questo riesce a essere un lavoro più contemporaneo, più profondo e più erudito di qualsiasi PENSIERINO™ scarabocchiato da un cantautore “serio”.

“C’è un po’ di Italia” (per modo di dire) anche nel nuovo disco di Emilíana Torrini con l’ensemble belga The Colorist Orchestra, Racing the Storm, il secondo dopo il quasi eponimo The Colorist & Emilíana Torrini del 2016. L’artista islandese ha pubblicato un bel disco di pop, dove più che un filo del discorso devi osservare l’intera tela: il lavoro con gli otto musicisti belgi - ha spiegato Torrini - parte dall’improvvisazione, e grazie al grande baule di strumenti e suoni dei Colorist, la cantante usa la voce per far vivere caratteri e stati d’animo su un piano che va oltre la logica. Anche l’Orchestra ci mette il suo nei suoni raffinati ma tutto sommato moderni di un progetto così “alto”, che restituiscono l’impressione dei sentimenti ambivalenti di chi sta combattendo con qualcosa più grande di sé. Roba rara, anche perché ho l’impressione che ne parleranno in pochi: e invece vale la pena anche solo per sentire che suono fa la flapamba, in dotazione alla band, una specie di kalimba molto grande, ma con le barre di legno, che suona come una marimba molto bassa. La puoi sentire (credo) nella traccia finale Lonesome Fears

Less dei deathcrash è uno di quegli album con le chitarre grosse che però ti mette in ginocchio a piangere: la tensione emotiva del nuovo lavoro della band londinese si gioca tutta sulle dinamiche (piano vs forte) e sul tempo, fluttuante. In un pezzo come Duffy’s il tempo sembra così aleatorio da farti mettere in dubbio l’esistenza degli orologi per affidarti solo al battito cardiaco, finché non ti accorgi che ovviamente il cuore non è una macchina perfetta, almeno non secondo il canone matematico di perfezione che siamo abituati a usare nelle nostre valutazioni. E che in quanto tale non esiste e non serve. Come il centro, come un punto. Less è un disco che non cerca il centro, non cerca il ritmo, non cerca il punto, ma vive di pura emozione, in forma di eruzioni e poi di singhiozzi, specie nel finale Dead, Crashed che se fossimo in altri ambiti culturali ed estetici si potrebbe tranquillamente definire una suite. Una meraviglia. In playlist ci va Duffy’s, pubblicata un mese fa ma che colpevolmente mi era sfuggita.

In The Store dei Lost Days è un meraviglioso disco indie in miniatura, 10 canzoni di 1 minuto, 1 minuto e mezzo, che però ha tutte le cose che servono: distorsioni fischianti e cambi armonici alla Dinosaur Jr o Guided By Voices (Another Day); spicchi di anni ‘70 fra Lennon e Crosby (What’s On Your Mind); riflessioni sul suicidio alla Elliott Smith (Pass The Time). Nello stile (e nella durata delle canzoni) c’è tutta l’impronta di Tony Molina, musicista e cantautore di San Francisco, un artista che da un decennio a questa parte dimostra che chi si è fatto le ossa con l’hardcore sa costruire gioielli pop meglio di chi ha una dieta di sola musica leggerissima. Questo progetto comprende anche Sarah Rose Janko, con la quale Molina si è incontrato alla cerimonia di commemorazione per un comune amico. Da queto incontro è nata una sintonia fatta di notti passate insieme a suonare la chitarra e bere vino a casa di Sarah. Si sono trovati nell’amore per i Byrds e nella voglia di esprimere il lutto in forma di canzone. Il titolo deriva dal negozio di alcolici dove i due si recavano regolarmente per rifornirsi di vino.

C’è anche un nuovo album degli Unknown Mortal Orchestra, si intitola V (nel senso di “cinque” dato che è il loro quinto album): molto piacevole da ascoltare, abbastanza facile da dimenticare in sottofondo. Il tema conduttore dovrebbe essere il bisogno di scappare dalla realtà, e grazie al ca’, come dicono in Nuova Zelanda. Il ciclo di questo disco è iniziato addirittura nel 2021, con singoli come That Life che - dice Ruban Nielson - è stata ispirata dalla serie di libri “Where’s Wally”. La canzone I Killed Captain Cook (che ti avevo già consigliato, ai tempi) è una bella contaminazione tra rock e musica hawaiiana. E se cerchi il miglior verso, lo trovi nella canzone Guilty Pleasures, un pezzo deliziosamente random che a un certo punto dice ”you were hotter than an old cheap laptop”, intraducibile in italiano. In playlist ti metto The Widow, che a mio avviso ha il miglior giro e presenta il miglior compromesso tra jam e canzone. Ma non ho molto altro da dire.

Venerdì è arrivato anche uno dei dischi sulla carta più ridicoli ma che segretamente aspettavo con più curiosità, cioè On Top Of The Covers di T-Pain: un disco di cover senza autotune dal più amato e poi più odiato esponente dell’R&B/rap con autotune. Com’è? Decente, in media. La scelta dei pezzi sembra fatta apposta per consentire a T-Pain di dimostrare la sua capacità di cantare anche senza il plug-in (in compenso ci sono secchiate di riverbero e altri trucchetti, e va benissimo così, come sai non sono un purista). E sostanzialmente il cantante fa una bella figura, però concentrandosi troppo sulle prove da fenomeno incappa in una tracklist senza senso, che accosta il classico (A Change Is Gonna Come) con la patacca smielata (Sharing the Night Together) e la canzone del canone R&B con cui misurarsi (That’s Life, dove comunque T-Pain fa prevedibilmente peggio di Aretha e di James Brown). In realtà, il contributo più interessante - non originale, ma valido - sta negli arrangiamenti JAZZ che riscrivono le progressioni armoniche: si sente nel bridge di Don’t Stop Believin’; nel finale di Stay With Me; in tutta la parte post-break di War Pigs, che incidentalmente è la canzone migliore del disco, e non venirmi a dire che lo dico solo perché è dei Black Sabbath. In realtà si tratta di un pastiche geniale con la versione dei Faith No More, ma anche con Epic dei Faith No More se fai caso alla tastiera nell’intro che è praticamente identica a quella di Roddy Bottum.

Parlando di progetti il cui valore prescinde dal semplice ascolto, è uscito un EP dell’artista fittizia Ni’Jah, che arriva dalla nuova serie TV creata da Donald Glover e Janine Nabers intitolata Swarm (su Prime Video). A cantare c’è quasi sempre KIRBY, la persona a cui dobbiamo Four Five Seconds, e c’è anche un pezzo in cui Glover veste i panni di Childish Gambino, ma non è eccellente, come del resto ci si può aspettare da canzoni fatte per non essere canzoni. (A proposito, vogliamo prendere in esame un po’ di “musica pop omodiegetica” cioè creata nei mondi d’invenzione di un film o una serie da un personaggio? Dimmelo nei commenti!)

Poi è uscito un micro-EP di tre tracce di Hozier, e la title track Eat Your Young è carina, se ti piace il suo folk soul: confesso che per Hozier ho un debole, sarà che quando l’avevo intervistato tanti anni fa si era dimostrato di una simpatia devastante. Altro EP consigliato è BAD PREMONITION della colombiano-canadese Tei Shi, una via di mezzo tra Mariah Carey e Kate Bush (forse no). C’è un EP anche dei californiani FIDLAR, che in una delle tracce inedite On Drugs citano Where’s Your Head At dei Basement Jaxx: il pezzo gira bene, quindi questa interpolazione è solo un cartellino giallo. E in generale è un buon disco per quando vuoi prendere qualcosa a calci.

Sempre abbastanza punk, ma da turista (o meglio da ex metallaro redento), c’è l’EP di Salmo con la sua finta band hardcore Le Carie. Non è nulla di che, ma risulta più ficcante quando Salmo punta il dito contro qualcuno (Tu x me) rispetto a quando Salmo se lo punta contro sé stesso (Bugiardo, una specie di cover degli Alice In Chains), perché è la solita solfa degli ultimi due album, quindi comincia a puzzare pesantemente di narcisismo. Puzza di narcisismo anche il nuovo album dei Van Pelt, leggendaria band post-hardcore: si salva la title track, Artisans & Merchants.

Infine una menzione speciale per Episode 1: Love, secondo album della cantante e chitarrista coreana So!YoON! (anche componente della band SE SO NEON) che fa slalom tra dream pop e R&B luciferino (EXIT), e ancora city pop in botta, EDM storto, bedroom pop in hangover, e che presenta molte intersezioni con il k-pop più mainstream, tipo la presenza di Park Ji-yoon, e soprattutto di RM dei BTS nell’imprevedibile Smoke Sprite. Sono premesse che rendono il suo progetto qualcosa da tenere d’occhio per capire come potrebbe evolvere e crescere la musica di Seoul nei prossimi anni.

Tra gli altri dischi italiani usciti questa settimana c’è AD MAIORA di ORLVNDO, una collezione principalmente di singoli già usciti in stile graffiti pop (come si dice quel mischione di indie pop, nu soul, rap sostanzialmente post Frah Quintale), che ha alcuni spunti geniali (Dopo di te che ti avevo consigliato di ascoltare l’anno scorso; Confessione che è un finale inquietante) e alcune cose più pigre e scontate (Piano bar). due punti degli oodal è un disco musicalmente affascinante, con un suono dream pop notturno e labirintico, che talvolta punta dritto al post-rock e shoegaze (Inizio). Onestamente ho trovato alcuni testi un po’ macchinosi, ma se non ci si fa troppo caso, è un bell’ascolto.

Più convincente nel complesso è CUPIDO EMO SPAZIALE dei bergamaschi UFO BLU, bel lavoretto di un indie pop malinconico, che porta avanti un suono spossato come il ricordo sbiadito di un evento che ti lascia senza voglia di vivere. Ovviamente è pieno di accordi di settima, quelli che appena li senti gridi “INDIE!”, ma con il buongusto di usarli un po’ tutti (settima di dominante, minore, maggiore, e credo anche diminuita, per i più nerd), il che porta il sensibile vantaggio di non suonare banali, per quanto molto molto familiari. L’ha prodotto la band con Daniele Capoferri degli ISIDE, e contiene pezzi che vogliono richiamare il dream pop (Ladri di bici) e altri più jangle pop (Cresci bambino), un pezzettino costruito su una batteria anni ‘80 che sembra pescata da Ci vorrebbe un amico (2017), ma anche ballate più rotonde (Polvere). Il tutto, dicevo, prosciugato di energia. Ma in senso buono, giuro.

Come sempre, se in playlist non trovi qualcosa è per due ragioni: o il disco funziona nel suo genere, ma è un genere con il quale ho pensato di non ammorbarti (tipo l’hardcore violento dei GIDEON); oppure il disco l’ho ascoltato e preferisco non parlarne per non sembrare un hater (è il caso degli All Time Low). Una menzione particolare va al mixtape di Dani Faiv, Teoria del contrario vol. 2: ci sono molti spunti interessanti, in particolare la volontà esplicita di andare controcorrente a livello testuale e musicale in un momento in cui il conformismo premia; ma non ho trovato nessun pezzo che davvero spiccasse in assoluto. Magari mi ricrederò, tu prova a sentirlo.

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I singoli

Ti do un consiglio spassionato: non fidarti di chi usa la frase “X è la metafora di Y”. Tipo, Milano è la metafora dell’amore, titolo del nuovo singolo dei Baustelle che non ho messo in playlist, perché non posso fare questo alla band che ha scritto Un romantico a Milano e ora ci indica con il dito i peggiori luoghi comuni come se di Milano non ne potessero più. Sentimento peraltro condiviso da molti, di questi tempi. Ma l’ottimo tempismo non giustifica la mezza ciofeca.

Parlando di singoli che invece troverai in playlist, vado a razzo sugli italiani: Machweo torna a fare il producer di musica da ballare, dopo la parentesi Bautista, con Nolo Gospel che dice molto di più su Milano di quella cosa dei Baustelle (come dici? è un pezzo senza parole? appunto); FOGG ha pubblicato un editoriale contro il pubblico e il mercato musicale intitolato (S) Hit; un altro pezzo disco-pop con il tiro è Par Nu Suonn di ALE; le I’m Not A Blonde hanno un bel singolo synth-liquido, anzi fluido visto che usa la schwa nel titolo (con buona pace della Crusca). Tutte queste canzoni le trovi in fondo alla playlist, nel privé della musica da ballare, dove peraltro ci sono l’immortale Alison Goldfrapp con un pezzo molto sexy e un nuovo singolo dei Chemical Brothers, No Reason, a quattro anni dall’ultimo album e due dagli ultimi pezzi.

Ma molti altri italiani ci sono anche nella parte non ballabile: Aliante di Gregorio Sanchez e Astronave Giradisco di Lucio Corsi, per il cantautorato che si solleva da terra; LaHasna a cui Mancan le parole nel suo pezzo più storto di sempre (quasi microtonale), molto ipnotico; Proprio tu dei Tropea che ha un che di Pixies; Tutta la vita di Drast (senza autotune); Milano dannata di Chiello (non eccelsa ma meglio della Milano dei Baustelle); e ancora Lieve, i bnkr44, Brucherò nei pascoli, Apollo Quattro; e infine Elodie con una cover di Confusa e felice (solo su Apple Music) che mi fa sperare in una sua prossima era Joanne.

Rapidamente, ti dico qualcosa anche sui singoli internazionali (sai, quelli che ancora si possono caricare su Instagram). Abbiamo un altro singolo dalla collaborazione tra JPEGMAFIA e Danny Brown, si intitola Lean Beef Patty ed è un pezzone e mi fa sperare bene per l’album, Scaring The Hoes, che esce il 24 marzo. What It Is di Doechii e Kodak Black è una canzone che non aspetta altro che il mash-up con No Scrubs delle TLC. Borrow Trouble di Feist è una canzone in crescendo con un urlo come non ne sentivo da tempo dalla cantautrice canadese. After Midnight dei Phoenix con Clairo mi ha fatto capire che forse Alpha Zulu non era così un album medio come mi era sembrato. E poi è tornata Belinda Carlisle con un pezzo scritto da quel genio del pop che è Diane Warren (che meriterebbe un episodio a parte): si intitola Big Big Love e lancia un album che arriverà a maggio e sarà il primo di materiale originale da 25 anni. E spacca.

C’è tanta altra roba, tra cui i singoli di Tinariwen e Drugdealer che trovi in alto perché sono tra i migliori della settimana. Ma chiudo con Run A Red Light degli Everything But The Girl: nel nuovo pezzo del prossimo album Fuse c’è un bel contrasto tra il senso di urgenza dell’espressione (traducibile come “buca i semafori”) e la sospensione innaturale del pezzo, dove sono solo i “vocal fry” e in generale il timbro di Tracey Thorn a farci sentire il cuore che batte per l’agitazione. Mi piace finire con questa segnalazione perché mi permette di completare il discorso dell’intro: il “vocal fry” è considerato un segno di assoluta umanità di una voce, che quando sfrigola sulle frequenze basse sta introducendo del rumore, che però ha significato, un errore, quanto di più umano. Eppure, il “vocal fry” ricorda anche il suono di un robottino, come e più dell’autotune, come questo meme ci ricorda bene. Ciao Louder.

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