Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E09: sì sì no, mo' me lo segno proprio
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Pioveranno venerdì S02E09: sì sì no, mo' me lo segno proprio

18-24 marzo: la critica non serve più a niente, se dai retta a Ed Sheeran
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Troisi e Benigni, secondo il solito Anton Corbijn

Ciao Louder,

Questa è una di quelle settimane in cui ti parlo dei dischi di venerdì scorso quando stanno già per uscire quelli nuovi. Abbi pazienza, è stata lunghissima (vedrai). E poi, quando stavo per chiudere, ho avuto una crisi esistenziale. Ed Sheeran dice che la critica musicale non serve a nulla: basta ascoltare il disco da soli e farsi un’opinione. Quindi, che faccio?

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In realtà, abbiamo già parlato della funzione della critica, non vorrei tornarci troppo spesso (già siamo abbastanza autoreferenziali, noialtri inutili). Sicuramente ti posso dire una cosa: se dovessi affidarti a me per la pura e semplice segnalazione delle cose uscite, tanti auguri. Ripeto: è giovedì. Magari però vuoi sapere qualcosa di più su quel che ascolti, hai ascoltato o ascolterai, senza dover perdere il tuo tempo a cercare quello che passo io le notti a indagare per te. Oppure, vuoi la compagnia di qualcuno mentre ascolti, non dico una guida, figuriamoci: immaginami come il tuo compagno di posto sul bus mentre vai in gita. Mi rendo conto, però, che tecnicamente molte cose che senti qui potresti trovarle anche da solo, se ti ci mettessi. Oppure potresti chiederlo a un’intelligenza artificiale, se ti fidi dell’opinione della maggioranza, di cui si nutre un’AI.

Insomma, è vero che ciascuno ormai può fare da sé, come dice Sheeran. Ma è meno divertente. Soprattutto se non consideri la musica solo come un prodotto da comprare (e recensire) su Amazon nella solitudine della tua testa, ma come qualcosa che può unire. In ogni caso, questo mi dà un’ottima scusa per non recensire il suo nuovo album. Così, almeno per quell’episodio, mi sarò alleggerito il lavoro.

Tu intanto metti su la playlist (su Spotify e su AppleMusic) e noi cominciamo.

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 42 album, 6 EP e 121 singoli

Depeche Mode, Memento Mori

Dopo 4 o 5 ascolti di Memento Mori mi sono convinto che questo sia il Blackstar dei Depeche Mode: come l’ultimo album di David Bowie, l’ultimo disco della band segna un contatto con la morte; presenta una combinazione matura e consapevole di stilemi antichi e nuove soluzioni timbriche e armoniche nelle stesse tracce, segno di un lavoro ispirato (ovviamente), ma anche di una produzione come testimonianza, quasi che Gore e Gahan dicessero “questo siamo stati, questo siamo e questo saremo per sempre”.

Ecco sì, perché l’ultima caratteristica comune è il presagio della fine: non ci sono prove che questo sia il capitolo finale della band, ma sicuramente la morte (o la fine) è una presenza che aleggia in molti testi. E grazie - dirai - i Depeche Mode ci giocano da sempre: aspetta un attimo, non è più così comune. Spirit (2017) era un album sulla ribellione opposta all’apatia; Delta Machine (2013) parlava in effetti di morte ma come metafora del cambiamento; Sounds of the Universe (2009) girava intorno alle pulsioni vitali, le passioni, le ossessioni che plasmano noi e il mondo intorno. Bisogna tornare a Playing The Angel (2005) perché il tema della morte sia altrettanto pervasivo, e così letterale quando compare. In Wagging Tongue si guarda morire un angelo; in Soul With Me (la più originale delle canzoni in tracklist, per come gira e per come suona) Gore si dichiara pronto per “le ultime pagine”. E cosa dicono queste ultime pagine scritte dai due DM rimasti? Ci sono un po’ di storie familiari, dialoghi con tinte noir alla Black Celebration (Caroline’s Monkey); serenate immerse nel fango (Don’t Say You Love Me, molto alla Scott Walker); pessimismo totale verso la realtà, un nulla, o un nulla più (Before We Drown). Insomma, tutto alla grande. Eppure qualche spiraglio di luce si vede, e non solo perché “le persone sono buone”, come in un atto di revisionismo storico ora i Depeche cercano di convincerci.

Il pessimismo della ragione va a braccetto con l’ottimismo della composizione e della produzione: nel modo in cui i synth disegnano fioriture di frequenze sugli armonici e i cori ci fluttuano intorno, nel desiderio di non esprimere un controllo ossessivo sulle canzoni, meno riff-centriche rispetto agli ultimi lavori (e non perché manchino i motivetti, ma perché i brani non si devono necessariamente chiudere con una risoluzione leziosa del tema), più volatili e lasciate quasi al caso (nota quanti brani sfumano in fade out, come se non esistesse davvero una fine), in tutto questo c’è la voglia di mettersi alla prova come non capitava da vent’anni buoni. Vedere se certi loop funzionano ancora (Ghosts Again, erede di Never Let Me Down Again, giustamente messa sul lato B in un’edizione 7’’), se la voce può ancora strappare (i cori di Never Let Me Go, volutamente imprecisi e umani come la chitarra che li accompagna), se il melodramma può di nuovo stracciarsi le vesti (Always With You): i Depeche Mode ci hanno riprovato, e ha funzionato. I pezzi suonano urgenti, autentici, anche grazie a un mix che non vuole nascondere la voce ma nemmeno creare singoli già pronti per le folle da stadio, che comunque già hanno comprato i biglietti. E qui il merito va a Marta Salogni, una delle professioniste dello studio più apprezzate al mondo negli ultimi anni, che dopo Björk, Animal Collective, Kelela, Black Midi etc può dire con orgoglio di aver lavorato al miglior disco degli ultimi 20 anni dei Depeche. La sua firma (insieme a quella del produttore James Ford e di Christian Eigner) sta sulla traccia finale, Speak To Me, quella che avrebbe convinto Gahan a tornare a fare un disco, e chiude in bellezza il lavoro: è tutta creata sui sintetizzatori modulari che pulsano entrando in risonanza e dissonanza con grande energia, nonostante la parvenza fantasmatica di ritmo, che cresce e si svela solo nel finale - puoi quasi vedere il suono che disegna uno spazio e Gahan che ci si muove dentro, come forse non aveva mai fatto prima in 40 anni di carriera. Per questo, metto in playlist due tracce: non puoi dirmi niente, faccio io le regole.


Lana Del Rey, Did You Know That There's a Tunnel Under Ocean Blvd

C’è un particolare della copertina del nuovo album di Lana del Rey che mi ha colpito: il muro di testo che incornicia la sua faccia (scelta non comune, te ne riparlo tra un attimo) contiene l’informazione apparentemente banale che questo è il nono disco dell’artista. Al di là del sapore tarantiniano della definizione, questo numero dice qualcosa sull’universo discografico di Lana (LDU): per arrivare a quella cifra bisogna contare tra gli album anche Lana Del Ray (scritto così), il primo, quello che nessuno ha ascoltato (e che del resto non sta né su Spotify né su Apple Music). Se anche tu consideri Born To Die come il suo primo album, non sei il solo: al di là del cambio di nome d’arte, niente nell’opera di Lana dell’ultimo decennio ci fa pensare che quel che è venuto prima di Video Games fosse degno di nota. Non questa volta, però, perché negli ultimi anni la cantautrice ha pensato molto alla morte, e come capita in questi casi è finita per farsi molte domande su di sé, su cosa ha lasciato e cosa lascerà di sé ai posteri. E se si vuole trovare una conclusione onesta a queste domande, non si può partire con una censura: nel tunnel sotto Ocean Boulevard ci sono scheletri sepolti troppo a lungo perché Lana possa continuare a ignorarli, la versione migliore e quella peggiore di sé non possono che convivere.

Did you know that there's a tunnel under Ocean Blvd è il disco in cui Lana Del Rey cerca il suo valore, partendo dal valore che gli altri le hanno attribuito. Sarà davvero una montatura, quest’artista, come molti di noi l’hanno vista per anni? Non che debba convincere nessuno in particolare, ma Lana ci tiene a dire che no: “se non credi in me, nella mia poesia e nelle mie melodie, sentilo a pelle: ho buone intenzioni” (Grandfather…). L’artista non accetta la caricatura che ne è stata fatta: “You wanted me sadder” (Fishtail), l’abbiamo dipinta come melancolica, fino quasi a desiderarne la tristezza “vera”, ma l’arte non è la vita. Pensare altrimenti è ridurre la sua identità a un nonnulla, indegna dell’amore letto in questo caso come validazione personale: lei non è la puttana americana di A&W (forse il capolavoro del disco); né l’oggetto del desiderio che carezza l’idea di farla finita (Candy Necklace); né il “corpo”, parola ricorrente che più di tutte segnala la distanza tra la percezione propria e altrui. Lana non ci sta: quell’amore è da cercare altrove, non nel pubblico né negli amanti sbagliati. E l’esempio più comune è l’amore disinteressato della famiglia (i Grants con i quali si apre l’album), quella famiglia che mostrandole il ciclo della vita (la nascita della nipote) e della morte (il suicidio dello zio), le ha permesso di intraprendere questo nuovo corso.

Ovviamente il fascino del disco sta nel fatto che la ricerca di Lana non è analitica: è un’intuizione, o meglio una serie di illuminazioni (“when you know, you know” è una specie di mantra che ritorna nel progetto). Le canzoni migliori cercano di imprimerci questa sensazione negandosi continuamente le soluzioni troppo quadrate e scontate. Ad esempio, nella collaborazione con Jon Batiste in Candy Necklace Lana fa qualcosa di inusuale per una popstar: canta una ballata davvero piano e voce, cioè libera dalle costrizioni del tempo dettato dal click e dalle abitudini mainstream - fai caso al rubato a 2:59, quando la battuta sembra iniziare con un respiro d’anticipo. O in Fingertips, dove si ha la dignità di cantare un flusso di coscienza senza interromperlo per un necessario ritornello. Non solo la ricerca non è analitica, ma è anche abbastanza fatalista: Lana crede che per risolvere il proprio dramma, sia destinata a doversi sporcare le mani, a sorbire l’amore degli altri per cercare l’amor proprio (title-track); a confrontarsi continuamente con la propria umiltà (Paris, Texas). Una conclusione però viene fornita: anche se la odi, va bene così (Taco Truck x VB); non importa se consideri insincere le sue intenzioni, o se la ritieni una sciacquetta, perché questo non la fermerà più, anzi, le permetterà di ripartire da capo con maggiore convinzione nella musica come nella vita. Così almeno leggo l’auto-citazione di Venice Bitch che chiude l’album.

Nilsson Schmilsson: Remastered and Expanded: Harry Nilsson: Amazon.it: CD e  Vinili}

E allora torno sulla copertina e chiudo: vediamo Lana in un ambiente intimo, forse domestico; è spettinata e non è in posa, sembra anzi vulnerabile, un po’ stufa; lo scatto è in un bianco e nero ovattato, slavato, un po’ sfocato; le scritte in bianco e giallo. Esiste un altro disco con una copertina così: Nilsson Schmilsson di Harry Nilsson, anch’esso un album sulla demistificazione di sé, sulle sfighe e sulle tendenze autodistruttive. Verso la fine di questo classico del ‘71 si sente Jump Into The Fire: “puoi scalare una montagna, puoi nuotare tutto il mare, puoi saltare dentro il fuoco, ma non sarai mai libero”, canta Nilsson. Credo che Lana Del Rey si riconosca in questo paradosso, ma anche nella sua parziale soluzione: “we can make each other happy”.


Diodato, Così speciale

Antonio Diodato è un cantautore e compositore di un’intelligenza e una sensibilità di cui forse non ci rendiamo conto, abituati da un decennio di mainstream ossessionato dall’idea di dare tutto subito. Così speciale invece è il classico esempio di un album che devi ascoltare almeno due volte se vuoi apprezzarlo in pieno. Non perché sia “difficile”: come e forse meglio che in Che vita meravigliosa, il cantautore ha perfezionato una scrittura che mette in evidenza i nodi emotivi dei brani. Ma necessariamente tra le righe c’è molto di più, ed è giusto tornare indietro per apprezzarlo: ci sono arrangiamenti ricchi eppure mai sovraccarichi, dosati al millilitro con l’aiuto di Tommaso Colliva, che ha lasciato ad Antonio il tempo di ponderare ogni scelta. Si potrebbe perdere una giornata a parlare di come il canto e gli strumenti si compenetrino, ad esempio, quindi te ne dico una semplice: senti in Ormai non c’eri che tu come la voce si sovrappone agli archi cambiando timbro e dinamica nella prima e nella seconda strofa; stesso discorso per gli ottoni secchi e strappati e il quasi-rap delicatamente rauco di Che casino.

Nulla di tutto ciò è “difficile”, ma sicuramente è “speciale”. La sua musica è tradizione italiana nel senso più espansivo e progressista che si possa intendere: prendi un pezzo come Buco nero, che parte Lucio Battisti, apre alla Domenico Modugno, si finge Raf per qualche secondo, e chiude con uno dei tanti splendidi momenti strumentali (le tastiere di questo album sono di una qualità che - ci scommetto - non troverai in altri dischi italiani quest’anno). Ovviamente per apprezzare tutto ciò serve pazienza ed empatia: bisogna calarsi nei panni di quello che ci sta cantando nell’orecchio, e non solo considerarlo uno che ci fa passare 3 minuti senza pensare. Trattarsi da esseri umani, che è poi il “miracolo” (un po’ cristiano, un po’ montaliano) che Diodato invoca nella traccia d’apertura, che è quello che ci aspettavamo da noi stessi quando cantavamo Fai rumore alla finestra, quasi esattamente tre anni fa.

Gli altri album, in breve

La musica uscita venerdì scorso è stata talmente tanta e quasi tutta di qualità che devo relegare a brevi considerazioni quelli che sono in realtà i miei due album preferiti di questo giro.

Il primo è GOOD LUCK di DEBBY FRIDAY: l’artista nigeriana di base in Canada ha pubblicato singoli eccellenti nella fase di lancio, com SO HARD TO TELL, probabilmente una delle tracce più memorabili di questi primi tre mesi del 2023. Ma le perle non erano finite in questo che - non si direbbe - è un break-up album: Safe e Let U Down hanno batterie da prendere a testate i muri; Heartbreakerrr è quel che succede se molli le Sugababes al Berghain; What a Man ha un basso incredibile. I generi sono mescolati con grande intelligenza: industrial, hip-hop, tech-house, dark wave contribuiscono a creare una cappa paranoica, un sogno crudele dal quale cerca di svegliarsi a forza di schiaffi (“wake up” è una frase che ritorna nei testi) e cercando di convincersi che il suo vero amore è per l’amore stesso (Pluto Baby).

JPEGMAFIA & Danny Brown hanno pubblicato Scaring The Hoes che è un delirio di album, l’incontro ideale tra due delle intelligenze più originali del rap underground americano. In un panorama musicale (specie rap) nel quale tutti cercano di somigliare a qualcun altro, di confondersi nella massa sperando di riuscire a entrare nel privé se non si distinguono troppo, Peggy e Danny celebrano la stranezza, l’unicità, l’impopolarità: “scaring the hoes”, che potremmo tradurre con un equivalente italiano come “scacciafiga”, è l’attitudine (anche decisamente bastian contraria) di chi vuole fare le cose a proprio modo, a ogni costo. Ad esempio, mettere da parte la workstation audio digitale e comporre il disco usando esclusivamente lo storico campionatore Roland SP-404, come per superare un ostacolo che nessuno ti ha imposto, a parte forse te stesso. Questo è l’ethos del disco, che ovviamente porta avanti la ricerca in fatto di schemi rimici e flow dei due artisti, lasciando che si divertano sopra una serie di beat che - soprattutto nella prima metà dell’album - vede un JPEGMAFIA in stato di grazia: Burfict! ha gli ottoni di un peplum; Fentanyl Tester deforma Milkshake di Kelis e la traduce in una qualche lingua dimenticata, forse il sumero, prendendoti a pedate con il tempo di una marcia dei bersaglieri. In diversi brani in realtà i due mostrano quasi un contegno al loro caos: Shut Yo Bitch Ass Up / Muddy Waters ha un beat switch perfetto, che non cerca di inchiodare per fare il fenomeno, e allo stesso tempo ha una disposizione a strati di strumentali che non fa sentire la mancanza di nulla senza però sembrare afflitta da horror vacui. E poi c’è la perla assoluta, Garbage Pale Kids, che mette una filastrocca cantilenata da un coro di bambini sopra un basso larghissimo, e a metà tira fuori dal cappello uno dei migliori suoni di chitarra dell’anno (vorrei sapere da dove viene il sample). Potrei andare avanti, ma mi fermo qui e ti obbligo moralmente ad ascoltare questo disco.

Cambiando genere, un altro disco per il quale nutrivo una certa attesa era The Art of Forgetting di Caroline Rose, anticipato da tre singoli eccellenti: Love / Lover / Friend e soprattutto Miami e Tell Me What You Want, caratterizzate da partenze soft e aperture (ora di archi, ora di synth) davvero epiche, come a testimoniare il fatto che una canzone non debba per forza scegliere un registro, se ha una buona ragione per cambiarlo nel mezzo (chiamiamolo il “paradigma A Day In The Life”). In questo caso, ce l’abbiamo eccome, perché il tema conduttore del disco è la scoperta, quel momento in cui una teoria si verifica, quando la soddisfazione appaga lo sforzo. Stiamo parlando di scoperta di qualcosa in sé, di scoperta di sé: e quindi tutte le canzoni custodiscono una lezione appresa faticosamente, che Caroline ci rivela senza pretese didascaliche, ma con grande affabilità, e talvolta un tocco di disperazione. Fai caso all’urlo “you've gotta get through this life somehow” (Miami) e ti verrà da annuire. Già, in qualche modo bisogna cavarsela. Caroline se la cava alla grande: i suoi album precedenti, Loner del 2018 e Superstar sfortunatamente uscito a marzo 2020, non avevano il respiro di questo disco se non in rari momenti (Jeannie Becomes a Mom; Feel The Way That I Want), eppure erano già ottimi. Questo è un passo avanti: le canzoni hanno vita propria, sono minuscoli racconti con un inizio, uno svolgimento e una fine. Forse l’espressione massima (quasi eccessiva) è nel finale: le due tracce Jill Says e Where Do I Go From Here? divise in movimenti, che giocano tra lucidità e allucinazione. E in particolare la traccia di chiusura fa dei salti in alto che ti lasciano a bocca aperta e nel mantra finale, che ti invita a imparare a volerti bene, svela lo scopo di tutte queste piccole scoperte.

Drag On Girard dei Purling Hiss è un disco per nostalgici dei Dinosaur Jr più sbrindellati: ci sono le chitarre che fischiano a frequenze altissime; ci sono le melodie agrodolci; ci sono i riferimenti evidenti al Neil Young distorto (Shining Gilded Boulevard mi ha ricordato gli infiniti assoli di tre note su Live Rust); c’è la costante sensazione che qualcosa si stia disintegrando. Un pezzo come Out the Door contiene tutto, comprese quelle svogliate ripartenze. Non si inventa nulla, e son 15 anni che questa band di Philadelphia lo fa (o non lo fa). Al massimo puoi ammirare un pezzo come la title-track dove a furia di pestare per sette minuti e mezzo alla fine ci senti gli Stooges. Ti sfido a non prenderti bene, sentendolo.

Passando un attimo all’Italia, c’è Disco Due di Bais: l’artista vive in uno spazio che nella musica indipendente italiana aperto da Giorgio Poi, l’avamposto surreale di un autore con i piedi per terra. Lungi dall’essere una copia di Poi, Bais si è aperto un varco in questo multiverso. Sarà questa sua voce che sembra venire da un altro tempo, saranno le evidenti eredità del pop italiano anni ‘70 e la voglia di groove. O sarà il fatto che i suoi testi fanno movimenti unici: oscillano e poi scendono in picchiata sulla nostra quotidianità, come in Faccio il morto dove elenca le cose che ti fanno venir voglia di fingersi morti, tipo i fascisti; o quando al ristorante ordina un origami, e si augura che non esistano reincarnazioni (Vita stupida). Gran talento.

Come sai, ogni settimana ti parlo anche di qualche disco che non è proprio nei giri del mainstream. Questa volta si parla di jazz cantato ed è Mélusine di Cécile McLorin Salvant. Si tratta di un concept costruito sulla figura mitologica della melusina, personaggio da bestiario medievale di cui la cantante americana inventa una storia che ha qualcosa della fiaba di Amore e Psiche: un uomo s’innamora della melusina e con lei ha molti figli, ma infrange il divieto di vedere l’amata nel giorno in cui assume il suo aspetto chimerico (mezzo donna, mezzo serpente d’acqua) e quindi lei si trasforma per sempre in drago immortale; il disco è il racconto di questa vicenda, esposto dalla melusina molti anni più tardi ai figli ormai vecchi. Musicalmente contiene tanti collegamenti con la chanson e la musica creola (McLorin è di origine per metà haitiana e per metà francese), ma c’è tantissima roba: l’organico e il sintetico (D’un feu secrets); il Brasile (Aida), il rinascimento (Mélusine), perfino qualcosa di afrobeats (Wedo). E ci sono cover inserite in una trama del tutto originale: Est-ce ainsi que les hommes vivent? di Léo Ferré; Petite Musique Terrienne dalla rock-opera Starmania di Michel Berger. In questo caso è appropriato definire “sovrumana” la voce di Cécile.

A proposito di figure mitologiche, i Lankum prendono il loro nome dai Lamkin, spiriti del folklore inglese, entrati nella tradizione irlandese. I Lankum sono in effetti irlandesi, e False Lankum - titolo del loro nuovo album - viene da uno standard del genere folk gaelico. Ma non è molto standard, il loro stile. Non tanto per come scrivono, ma per come suonano: nel mix epidermico che sotterra certi volumi e poi li apre a tradimento, per agghiacciarti con uno strappo (Master Crowley’s) o con il fluttuare della voce di un poveraccio che si è imbarcato in mare ed è sempre più lontano (Newcastle). Mettici questo, e il modo in cui arpeggiano, e capisci l’accostamento a certo post-rock mesmerico, di cui condividono l’attitudine esistenzialista e fatalista, peraltro già connaturata al folk. Consiglio: guardati Banshees of Inisherin, se non lo hai già visto, e poi metti su questo disco, possibilmente con buone cuffie e con un servizio streaming che offra qualità hi-fi (non Spotify).

Altro ascolto non facile è YIAN di Lucinda Chua, violoncellista e cantautrice inglese di origini cinesi e malesi che cerca le sue radici guardandosi dentro, anziché indietro, alle tradizioni ormai perdute. Come fotografia di chi vive una diaspora è perfetto.

Altri dischi ascoltati questa settimana, che ti consiglio a razzo:

  • See You In The Dark delle canadesi Softcult è shoegaze dai bassi grossi e marci, che parla degli errori che facciamo come specie umana (Drain) o come individui (la già consigliata Dress o Spoiled);

  • Surf or Drown di Hit-Boy, già noto come produttore della serie King’s Disease di Nas (che ricambia il favore nell’ottima The Tide), per i nostalgici del primo Kanye (consigliate anche Slipping Into Darkness e Composure pt. 2);

  • Ways Of Knowing di Navy Blue è un altro bel disco rap, ma stavolta molto più influenzato dal jazz, anche se in una maniera che non fa suonare vecchi i beat;

  • Raw Lessons di Spectacular Diagnostics, rap alla vecchia, cioè fatto di sample, scratch e versi socialmente consapevoli;

  • Cool Change dei Connections, power pop sciallo e chitarroso che ti fa sentire nello spazio senza che tu ti debba togliere le Converse dai piedi;

  • Kill The Pain delle Kill The Pain, duo composto da due ex voci dei Nouvelle Vague ma con il 100% di fastidio in meno, anzi ha un bel groove new wave funkettone con rimandi tropicali e afro beat;

  • Celebrants dei Nickel Creek, trio americano in giro da 30 anni, è un disco country senza pick-up e birre e notti sotto le stelle, piuttosto con riflessioni amare sul fallimento delle tradizioni, delle preghiere, del sogno americano;

  • Exodus The North Star è un’appendice dell’ottimo album del 2022 dell’americana Yaya Bey (già consigliato), R&B vaporoso ed etereo che si lascia contagiare da jazz ed elettronica non per appesantire ma per planare.

Buoni ma molto imperfetti gli album di:

  • Kele Osereke (noto anche come voce dei Bloc Party), che con The Flames pt. 2 si concentra molto sul suono spigoloso e aspro della voce e della chitarra, finendo per stancare;

  • Yours Are The Only Ears, all’anagrafe Susannah Cutler, che con We Know The Sky fa quello che ci si aspetta da un’artista indie folk, cioè cantare come un angelo e accarezzare l’acustica, arrivando talvolta al kitsch (in un paio di tracce si sentono gli uccellini cinguettare…); molto meglio quando spezza la routine (Stained);

  • 6LACK che con Since I Have a Lover ha presentato il disco di nuovo R&B più atteso della settimana, ma che ha il difetto di chiamare troppi produttori (ne ho contati 17 in tutto) per poi usare più o meno sempre lo stesso template di pezzo, con megabassi e megabatterie molto forti ma senza nerbo.

No comment per l’album dei Fall Out Boy, deludente quasi come quello dei loro compari All Time Low della scorsa settimana, a parte rarissimi lampi.

Ma italiani, oltre Diodato e Bais? Ci arriviamo subito:

  • Indaco di Drast funziona quando sembra una riproposizione di Multisala di Franco126, ma per il resto gira a vuoto alla ricerca di un compromesso tra la nostalgia italiana e il suono indie internazionale che non ingrana mai;

  • VANITAS di La Niña è già sentito, nel senso che molti singoli erano già fuori, e nel senso che quando prova a trovare una via partenopea cool al reggaeton non incide, mentre nei pezzi che guardano anche alla tradizione folk locale sbaragliandola con una dance non euclidea, allora sì che funziona;

  • Cambi stagionali di Nostromo è un disco che cerca (disperatamente) di unire la musica leggera e il cantautorato degli anni ‘70 all’indie di oggi, ma senza volerti spiegare bene il perché;

  • sweet milk dei sianlout fa qualcosa che buona parte del cosiddetto pop urban italiano ha paura di osare, tornare al funk, e anche se certi testi fanno venire i brividi sono contento per i beat;

  • neanche anch’io (bellissimo titolo) di centomilacarie (brutto nome) è un EP di indie adolescenziale ma sbracato, che non vuol fare il figo, che quasi si vergogna dei PENSIERINI™ esposti e si salva con certe chitarre distorte giuste;

  • Due in color di Andrea è una visione di jazz, ambient, drum’n’bass che convergono su un dancefloor dove si medita più che ballare, la colonna sonora di un mondo decelerato (e infatti c’è una traccia intitolata Remote Working).

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I singoli

Abbiamo tirato lunghissimo, quindi sui singoli non dico niente. In questo modo non devo giustificarmi per l’aggiunta in playlist del singolo di Noel Gallagher, che ha fatto centro dopo anni di uscite piuttosto noiose e non ispirate; e soprattutto di quello di Tommaso Paradiso, che dopo anni di ciofeche ha tirato fuori un pezzo che mi ricorda gli anni di Completamente, quando ancora dietro le liriche cringe c’era qualcosa.

Se devo segnalarti un paio di tracce che forse altrimenti ignoreresti ti direi Carme di Daniela Pes, brano prodotto da Iosonouncane, cantato in una lingua che potrebbe essere protoindoeuropeo e che prelude a un album di cui parleremo; il doppio singolo Panettiere/Accelerare di TOOLBAR che mi ha fatto pensare a un Ghemon surreale; il doppio singolo dei Bulgarelli, alt rock emo da piangere i lacrimoni. Fai caso anche ai nuovi singoli di: Wednesday; Dente; BLUEM; The National; Bernice; NAVA; GAIA; Worriers; Ilaria; Dirty Nice; Pentesilea

Altre particolarità: ci sono due cover della stessa canzone di Nick Drake (From The Morning) per due progetti completamente diversi; ci sono due tracce di power couple, Rosalía + Rauw Alejandro e Colombre + Maria Antonietta, e noi italiani ci facciamo una figura migliore.

Ti è stato utile? Vallo a dire a Ed Sheeran.

Ciao Louder

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Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché