Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E12: momenti Napster e momenti no
0:00
-28:34

Pioveranno venerdì S02E12: momenti Napster e momenti no

8-14 aprile: Feist, Blanco, Baustelle, Clementi/Nuccini e il timbro che non è tutto
la faccia di Kanye al posto di Gotye, quella di Playoi Carti al posto di Kimbra
Kanye vs Gotye

Ciao Louder,

Sei sopravvissuto allo streaming del Coachella? Hai saputo il gossip su Frank Ocean, la pista ghiacciata da pattinaggio e le ragioni per cui dopo mille anni è tornato con un concerto raffazzonato? E la notizia di oggi per cui salterà il secondo weekend?

Vabbè, passiamo alla musica incisa - proprio come dovrebbe fare Frank. Questo è un episodio lungo, sappilo. Per questo nell’intro ti cito soltanto la notizia della settimana (forse del decennio), ovvero che Universal Music Group ha pensato bene di bloccare per violazione di copyright la canzone generata da intelligenza artificiale con le voci deepfake di The Weeknd e Drake. Il brano, intitolato Heart On My Sleeve (quando agli artisti originali manca fantasia, cosa può fare un computer che li imita?), aveva raccolto 15 milioni di views su TikTok, 600mila riproduzioni su Spotify e 275mila su YouTube. Universal was not amused, e aveva diritto a protestare visto che - fino a prova contraria - l’AI istruita per imitare le voci degli artisti ha “studiato” su registrazioni di proprietà di UMG.

Qualcuno ha definito questa esplosione di cover impossibili generate da AI come un “Napster moment”: puoi sentire la bava gocciolare, di chi lo dice, ed è meglio che non abbassi lo sguardo in sua presenza. Queste persone mi spaventano: sono ottimisti tecnologici, convinti che la disruption porterà progresso per l’uomo (e la donna, e la persona non binaria) della strada, ai danni del leviatano capitalista. A me il paragone con Napster ricorda come andò la disruption degli MP3: certo, le discografiche subirono, ma dal momento in cui compresero i vantaggi della musica liquida, a pagare siamo stati noi ascoltatori, che subiamo un flusso diarroico di canzoni identiche, e gli artisti a cui tocca fare sempre più musica (uguale) per sempre meno soldi. Aggiungiamo che queste canzoni, al momento, sono poco più che meme sonori - non a caso il più bersagliato sembra sia Kanye, un meme vivente - e la merda (manzoniana, o in senso di shit-posting) ha vinto ancora. Desideri sentire più canzoni tutte uguali a ciò che hai già sentito? consideri sano che gli artisti trovino meno profitto nel lavoro della musica e debbano sperare di avere un timbro abbastanza riconoscibile da essere copiato? Questo futuro non mi piace tanto. Mi piace, invece, la musica della playlist New Music Louder.

Tu mettila (su Spotify e su AppleMusic) e parliamone.

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 49 album, 5 EP e 107 singoli

Feist, Multitudes

Leslie Feist non ci deve niente. Pleasures, nel 2017, era stato sorprendente in ogni angolino: ruvido dove ti aspettavi morbidezza, spietato dove ti aspettavi indulgenza. Eppure Feist ci è riuscita ancora, perché Multitudes ti stupisce fin dal primo momento, In Lighting, che ti consigliammo quando uscì. La genesi dell’album ben rappresenta gli ultimi anni che abbiamo vissuto tutti: nel 2019 Feist ha adottato una bambina, e non ha fatto in tempo a dedicarsi alla maternità che la pandemia è partita; a quel punto si è rintanata con sua figlia e suo padre, con i quali ha vissuto in lockdown in Canada; dopo un anno il padre è venuto a mancare. Come molti di noi ci siamo posti alcune domande sul senso della vita, così Feist si è interrogata sulle due forme geometriche che la descrivono: il cerchio degli eventi ricorrenti; la linea di ciò che nasce e poi muore. Multitudes rappresenta il tentativo di far combaciare queste forme, e il risultato è magicamente imperfetto, un incastro che crea rifrazioni - il motivo visivo dell’album - che poi siamo noi, la moltitudine nell’unità. I dischi buoni sono quelli che queste idee grandi le dicono ma soprattutto le suonano: nei disegni ricorsivi di un arpeggio; nei refrain che rotolano su sé stessi come cori rituali; in tutto ciò senti l’esperimento, rinchiudere il cerchio in una linea. I dischi eccellenti sono quelli che non ti fanno sentire il peso di queste idee grandi, che nascondono la teoria e la prassi nella poiesis, per dirla con Aristotele: Feist lo fa pronunciando certe melodie tragiche con delicatezza da ninna-nanna (Song for Sad Friends); riprendendo il suono con una perfezione tale da rendere sia il tocco materiale della pennata sulle corde, sia la stasi innaturale di uno studio che sembrerebbe privo di ossigeno. 

Se cerchi canzoni che parlano di morte (ci torneremo, oggi) senza banalità, vieni qui. La voce che si spezzetta nel mezzo di Become The Earth come un cordoglio digitale; il synth che squittisce negli spazi vuoti di Martyr Moves come una mano sopra i teli di plastica che metti sul divano di nonna dopo il suo funerale; i cori spettrali di Calling All The Gods che vivono in un tempo loro, diverso dal beat; la mancanza di riverbero di Of Womankind che parrebbe registrata dentro il cuore di una persona. Tutto questo è talmente prezioso e originale, in un tempo che non smette di elogiare le imitazioni a buon mercato, da dover essere sottolineato tre volte.


Blanco, Innamorato

Innamorato di Blanco non è un grande album, principalmente perché non sembra un disco di Blanco. Non di quello di Blu Celeste. Riconosci la sua voce, certo, ma se ti basta sentire quel timbro vocale e “mettimi le ali” per decretare la blanchità di una canzone, forse le cover generate da AI fanno per te. Invece, l’operazione sembra una normalizzazione dell’artista, e lo senti prima di tutto nella scrittura e negli arrangiamenti, che cercano il più possibile di piacere a tutti: comodi giri di quattro accordi; ballad sensibili piano e voce; entrambe le cose (Lacrime di piombo); esplorazioni turistiche di generi (disco-funk in Scusa) e artisti (Mina) che furono popolari una volta, come se si tentasse di consolare i papà che accompagneranno figli e figlie ai concerti. I testi forse non sono mai stato il forte di Blanco (ma chi delle popstar italiane attuali - e intendo star - scrive bei testi? Marracash e?), ma sentire di aquile che volano dietro il tramonto e serie infinite di rime baciate (“Respiro nell'aria magia, una melodia, e l'allegria di averti mia è una fobia”). Insomma, sembra di sentire il gemello buono del Blanco “pericoloso” di Notti in bianco: se mi permetti la parafrasi, è il contrario del contrario di un angelo.

Un briciolo di allegria, il tanto atteso duetto con Mina, è di una banalità immane nel testo e nell’arrangiamento, che riecheggia gli anni ‘70 senza crederci mai: la proverbiale montagna e il proverbiale topolino. La collaborazione è stata presentata come un colpo di testa di Blanco, che ha spiazzato il management. E ti credo, se questo è l’esito. Se confrontiamo Innamorato con L’amore (mamma mia quanta fantasia questi ventenni), è chiaro che pure fra i difetti di cui ho parlato in modo esteso, il disco di Madame osa laddove quello di Blanco riposa: e del resto, questi biglietti per i concerti negli stadi si dovranno pur vendere, tanto vale mirare al minimo comune denominatore. Se ti parlo di questo disco (sai che non amo stroncare) è perché tre pezzi dove ancora si sente il Blanco selvaggio ci sono: Ancora, ancora, ancora - una specie di parodia di The Weeknd, che regge nonostante “l’aquila che vola dietro un tramonto”; La mia famiglia - pieno di rime baciate, ma comunque, interessante come considerazione sul drogarsi di notorietà, e forse non solo quella; Raggi del sole - vibrante e caotica, nonostante “Instagràm” con l’accento sulla seconda a. Insomma, dall’artista che avrebbe dovuto rivoluzionare il pop italiano apprendiamo la lezione più polverosa del rock: il secondo album è il più difficile. Aspettiamo il terzo.


Baustelle, Elvis

Il nuovo album dei Baustelle, Elvis, si presenta come un ritorno alle origini della band tosco-milanese, reduce negli anni Dieci da una bella volata in direzione del barocco e dell’altissimo. Elvis invece si fonda su tre concetti semplici inanellati in un sillogismo: i Baustelle sono una band che suona; se suoni, sei rock; il rock è un teatro che racconta soltanto ascese e decadenze. Tutto questo c’è, nel disco: la nuova band di supporto ha sufficiente pacca per dare una rinfrescata ai riferimenti musicali (glam rock; Lou Reed; Rolling Stones) e per ripescare le ispirazioni delle ispirazioni (il soul); il concept della decadenza si adatta sia alla non-più-giovane-età dei Baustelle e del loro pubblico, sia all’ethos del nostro tempo idolàtra. Tutto bene, ma com’è il disco? Medio, mai grandioso. 

Milano è la metafora dell’amore è un affresco che nella sua didascalica satira oraziana e nelle sue piccole ovvietà (“Qui resta bellissimo perdеrsi”) impallidisce davanti allo specchio distorto di Un romantico a Milano o al dolore sepolto de Il liberismo ha i giorni contati; Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club è una cosa divertente che non ascolterò mai più; Il regno dei cieli è un omaggio carino al gospel, che però, accanto a una qualsiasi incisione di Mahalia Jackson sembra uno scherzo. Ci sono flash di perfezione, come splendide azioni di una partita di calcio che non terminano nel gol: ad esempio, alcuni versi di Andiamo ai rave, per come trattano con crudeltà i post-giovani, dichiarando che la loro caduta non ha nulla di eroico, proprio come la fine di Elvis. Un brano riuscito fino in fondo, e che inserisco in playlist, c’è: si intitola Los Angeles, ed un rock che corre sul posto come gli Strokes, disegna curve a gomito; cita poesia fuori dal suo contesto (Montale; Magrelli); cioè, assomiglia al personaggio cantato, che sognando di fuggire dimentica di respirare e muore annegato in un bicchiere. Tragico, la storia di un sogno che in realtà è una trappola. Come Elvis.


Emidio Clementi e Corrado Nuccini, Motel Chronicles

Se pensi che abbia preso troppo sul serio la mancanza di ispirazione e applicazione dietro “le aquile al tramonto” di Blanco, è perché so che un’altra strada è possibile. Motel Chronicles di Emidio Clementi e Corrado Nuccini è un esempio di musica che crede nel potere della parola. Paragone ingiusto, va bene, perché Clementi lavora da più di 30 anni su questo aspetto, e forse più di ogni altro autore in Italia: non sei uno come gli altri se ritraduci da zero un capolavoro  narrativo e poetico come Motel Chronicles di Sam Shepard. Ma mi è venuto in mente il confronto perché anche in questo disco si parla di volatili: quelli chiusi dentro una gabbia, correlativo oggettivo di un’incapacità di azione; quelli che si schiantano sull’asfalto di un parcheggio, a simboleggiare l’artificialità della vita umana. Insomma, sono immagini che ti permettono di domandarti “perché?”. E senz’altro la veste ipnotica e nebulosa intessuta da Nuccini e suonata da una band portentosa ci mette del suo per calarci nell’odissea di quest’America marginale. Dopo aver parlato dell’umanità perduta nelle città in Notturno Americano (del 2015, prima parte di un trittico proseguito due anni dopo con i Quattro quartetti di T.S. Eliot), Clementi e Nuccini ci portano su queste strade che non conducono da nessuna parte (Si era perso col camion…), in locali che raccolgono il meglio e il peggio dell’umanità (Portavo il ghiaccio a Nina Simone), dentro scuole suburbane dove il disagio esplode (Ricordo di aver cercato…), in una terra del jazz che profuma di letame, come la Kansas City di Charlie Parker (È una notte di delitti efferati). E qui, appunto, non bastano le parole di Shepard: la tromba imbizzarrita di Emanuele Reverberi; il basso terrificante di Stefano Pilia (Uomini che si pettinano…); la batteria parlante di Fabio Rondanini (Si era perso col camion…); e tutto converge nel suono dei synth modulari lanciati a 100 all’ora verso ovest. Mentre segui questi personaggi tra circhi ambulanti, aree industriali dimesse e pascoli immensi, ti scopri smarrito come loro. E ritrovarsi tutt’uno - ascoltatori, voce narrante, personaggi di finzione - è un’esperienza liberatoria per chi, come noi, vive dentro una cultura egoriferita. 

Share

Gli altri album, in breve

Quando uscì Ira di Iosonouncane, molti hanno pensato che profetizzasse un futuro lontanissimo, inattingibile. Venerdì è stato pubblicato un album che strappa un altro lembo del tessuto spazio temporale: si intitola Spira, lo ha scritto, composto, suonato, arrangiato e cantato Daniela Pes, artista gallurese classe 1992. In mezzo c’è anche Iacopo Incani, che ha contribuito alle sette tracce di questo pazzesco esordio come produttore e musicista (e in minima parte come compositore). Spira è arcaico e avveniristico: un dj set mistico che includesse Illa Sera non sarebbe strano; Ca Mira modella suoni ancestrali di ghironda e percussioni; Làira è una canzone dei Radiohead suonata da una civiltà postapocalittica. La lingua - un po’ come in Ira - è una creazione originale basata su italiano e gallurese: Pes canta parole il cui senso sta nella sensazione. La sua voce (pulita, filtrata, frammentata) ti guida in un labirinto misterico, ti fa balzare sopra le barriere culturali che per qualcuno là fuori ancora sono importanti. Chi ha scritto l’eccellente comunicato stampa cita le fotografie di Charles Fréger come plausibile sfondo di questo enigma antropologico a forma di album: è un suggerimento talmente azzeccato, che non posso finire questa recensione senza linkarti un suo libro (tipo questo).

Un altro disco interessante pubblicato da un’artista che compone, suona, canta è Pezzi di Pentesilea, cioè Valentina Mignogna. Un po’ come il mito da cui prende il nome, letto e riletto in mille modi diversi, così le trame delle canzoni di Pentesilea sono “reticoli di storie”. Le vicende hanno più significati, i sentimenti hanno più valenze: il terrore e l’eccitazione (Unica); la confusione e il rimpianto (Tutto quello che non c’è). Sono i famigerati chiaroscuri, le ombre che non esistono senza luce. E la musica accompagna bene questo concetto: i sintetizzatori sono all’idrogeno, le drum machine sanno di rumore bianco, la voce è gentile ma cavernosa. Straniante.

CRUSH di Giuse The Lizia non è un disco per me, nel senso di un 37enne che non esce mai di casa. Eppure mi attira: vuoi perché l’artista siciliano ha un timbro vocale riconoscibilissimo (e, come abbiamo capito, al giorno d’oggi il timbro è tutto), vuoi che ha avuto il buon senso di fare una collaborazione con un’altra delle voci più uniche (in senso figurato e letterale) cioè Fulminacci. O forse perché, se avessi 20 anni in meno, vorrei sentir parlare di intimità con la spigliatezza di Edwige Fenech anziché con la sboronaggine o la pruderie che dominano in giro. CRUSH è un disco strano, che va a segno dove le premesse parrebbero sbagliate: ad esempio, in Gocce sugli occhi featuring Altea senti l’errore già nel titolo (cosa sono le gocce sugli occhi? pioggia? collirio applicato male?), e invece il groove funky gira bene e giustifica la citazione testuale di Figli delle stelle, spesso piazzata a caso da altri colleghi. Giuse sa cosa sta facendo.

Vipra, modestamente, lo sostengo dall’esordio. Musica dal morto è il secondo album (escludendo i Sxrrxwland) di un artista ancora abbastanza emergente da farti dire “CHIII?!” quando ce lo troveremo a Sanremo. E la prima cosa bella di questo secondo album è che musicalmente non c’entra molto con lo street pop sgangherato di Simpatico, solare, in cerca di amicizie. Qui il punto di riferimento è il revival post-punk inglese, ma non solo, a riprova della cultura e sensibilità dell’artista: Vestito di Cristo è elettronica e industriale; Pugni e calci è stoner; i’m just a picture… sfiora lo slowcore; e dove le chitarre suonano più alla Idles (Orsetto abbracciatutti) c’è tanta veracità. Il concept è questo: ogni traccia è associata a un artista scomparso, non sempre stranoto al pubblico generalista (tipo Dimebag Darrell dei Pantera; Mark Sandman dei Morphine; Adam Yauch dei Beastie Boys); ciascuna figura simboleggia la fama e l’approvazione che arrivano post-mortem, e quindi il disinteresse che invece avvolge molti finché sono in vita. Tra frecciate sull’insostenibilità economica, citazioni di colleghi e accuse di vacuità, si legge bene la critica all’industria: la discografia cerca voci originali, ma poi le spinge alla banalità e al conformismo. Sotto questa lettura c’è un’allegoria più profonda sui modi in cui sprechiamo la vita, autodistruggendoci, annullandoci, procrastinando - forse il “mostro” della traccia Dai DRK è la depressione? Insomma, Vipra ha fatto un disco sulla morte in vita e sulla morte-morte. Bravone.

Dinner Party è il progetto di quel genio delle tastiere che è Robert Glasper, con il sassofonista Kamasi Washington, il multistrumentista e rapper Terrace Martin e il producer/dj 9th Wonder. Se mi mettessi a citare i curricula di tutti e quattro, non ne usciremmo più: diciamo - semplificando - che sono tra i maggiori responsabili della più recente wave jazz/fusion nel rap e (neo)soul; per intenderci, hanno tutti lavorato con Kendrick Lamar, e in particolare i primi tre sono la spina dorsale di To Pimp A Butterfly. Enigmatic Society è il loro secondo progetto insieme ed è sorprendente e creativo in ogni singola traccia. Storto, felpato, notturno. Che bello che questa scena abbia un pubblico nemmeno così piccolo che potresti incontrare nella Napa Valley o a Lido di Camaiore.

Yannick Diekeno Ilunga è il nome di Petite Noir, artista nato in Belgio, cresciuto in Sudafrica, con il passaporto congolese e un contratto con Roya (divisione “pop” della Warp Records). Il suo album MotherFather arriva dopo alcuni eccellenti singoli, ma soprattutto dopo una lunga gestazione della sua musica. Nei primi anni Dieci ha creato con l’allora moglie Rochelle Nembhard il movimento Noirwave, che proponeva un’identità e un’estetica africana che abbracciasse peculiarità nazionali e diaspora, con l’obiettivo di fornire un’immagine positiva e progressiva. Questi principi, sintetizzati in un suono che univa punk e trance, jazz e kwaito (variante sudafricana della house con elementi hip-hop e UK garage), erano nell’album d’esordio La Vie Est Belle del 2015 e poi nell’EP del 2018 La Maison Noir, che contiene un eccellente singolo con Danny Brown. Poi molte cose sono cambiate: ha divorziato; il padre, Sylvestre Ilunga, è stato per due anni primo ministro della Repubblica Democratica del Congo (sul serio); si è stabilito a Londra. E così è ripartito da capo, e infatti MotherFather ha un’altra marcia, sicuramente più elettronica ma non solo. Il motivo dominante è “un dialogo con dio”, visto come paterno e materno insieme. Le canzoni sono tenebrose ma pulsanti, come Best One; o viceversa, eccitanti mentre descrivono un conflitto, come Finding Paradise. L’ho trovato spirituale, politico, mai banale.

A proposito di orgoglio nero, è uscito anche Glorious Game, disco collaborativo di Black Thought, il migliore rapper in attività, e gli El Michels Affair, progetto strumentale “cinematico” del produttore Leon Michels. Suona come un omaggio all’arte del rap fatto bene. Il che sembrerebbe un discorso da tromboni, se nel frattempo il rap non si fosse trasformato in uno schema Ponzi. Tariq si definisce un inguaribile romantico, ma assomiglia più a uno spirito che ha infestato una casa discografica (That Girl). Tra flow e groove sopraffini, è tutto uno scivolare di figure ritmiche: Hollow Way e Protocol, oltre agli ottimi singoli, sono tracce da segnarsi. Se cerchi altra musica ondeggiante, è uscito Exotico dei Temples: Liquid Air è una delle migliori opening track dell’anno; Exotico una delle migliori title-track; Inner Space è il pezzo che non deve mancare dalla tua playlist chill acida estiva. Non ai livelli di Fantasy degli M83, ma ci sta. C’è anche un po’ di Italia, visto che una traccia si intitola Giallo (nulla di speciale).

Se vuoi rimanere “su di giri” ma con le scarpe tirate a lucido, c’è Lucidanotte di Alex Fernet. Un disco “disco” - nel senso del genere - con i bassi gommosi che rimbalzano dappertutto, i pianoforti di cristallo, le chitarre sciolte e qualche accordo speziato che ti farà sentire un estimatore del JASZ. Grandi capelli cotonati e ottimi spunti (Amiamoci di meno titolo eccellente), finché in Fuoripista - appropriatamente - l’album derapa in una italo house glaciale. Alla graaande.

Ipnotico e italo(-francese), è Clair Obscur dei Grimoon: nove tracce lisergiche, eseguite da spiriti fluorescenti guidati da Solenn Le Marchand e Alberto Stevanato. Dal vivo è accompagnato da un cortometraggio fiabesco in stop motion intitolato “Il viaggio di Alan”, che parla delle migrazioni (qui un video per farsi un’idea). Il progetto è a supporto della ONG Mediterranea, con un merchandising dedicato di cui parte dei proventi sarà donata per operazioni di salvataggio. La musica più è strana e ultraterrena, più invita all’empatia.

Se parliamo di musica ipnotica, c’è anche I Held the Shape While I Could, secondo album dei canadesi Bodywash. Era da tempo che non ti consigliavo un disco dream pop, e questo non è male. La voce di Rosie Long Decter è immersa nel riverbero come Achille nello Stige, e il suo tallone sono i brani a-ritmici tipo Dessents, troppo melmosi; Chris Steward si smazza i pezzi più grevi (Massif Central; Sterilizer). Per me i brani migliori sono quelli con un’anatomia elettronica, tipo Ascents o Perfect Blue, dove sbucano somiglianze con certo brit-pop acido.

Era un po’ anche che non ti consigliavo qualcosa di hyperpop: Speed Run dei Frost Children ha il range emotivo di un videogame, dalla massima sorpresa alla massima compassione, senza mai andare nel mezzo. Nelle trame di glitch, parossismi dubstep e ritmiche house ti sentirai come una persona sveglia da 48 ore grazie a una dieta di soli energy drink. Anche qui si trova umanità nell’assurdo: tra le tastiere di gommapiuma di ALL I GOT, che parla di esaurimento nervoso (per amore? per troppo tempo passato online?). Questo singolo lo avevo già inserito in playlist, quindi ti suggerisco un altro brano: non gli sberloni punk Obsessed e Serpent, per quanto efficaci; nemmeno Let It Be, per quanto sia ballabilissimo (se continui bere solo energy drink). Metto Wonderland che ha una dolcezza R&B amplificata dalla voce di May Rio. A proposito di elettronica surreale che cela dell’umanità c’è Crystals 3.0 di John Vanderslice, disco letteralmente acido (il titolo è un processo di produzione di LSD, mi dicono) che in brevissime sequenze di glitch e pernacchie nasconde canzoni indie pop.

Nell’ambito “intimismo” cito Big Picture di Fenne Lily, cantautrice inglese di base a New York. Le canzoni sono patetici tentativi di guardare dall’alto le cose che ci riguardano, e suonano soffici e aspre come ferite frizzanti di acqua ossigenata. Si soffre, ma poi si sta meglio: Map of Japan è una “break up song” dove la rottura porta a scoprire altre cose (e sé stessi); Dawncolored Horse prende in prestito da una poesia la bellissima espressione “breathing castle” per descrivere la persona amata come un luogo necessario per respirare, claustrofobico ma confortante; se segui il testo di Lights Light Up finirai in lacrime. In questa categoria di rock a voce bassa influenzato dal folk, c’è il disco omonimo dei Sweet Dreams Nadine. Consideralo una caccia al tesoro di riferimenti per solutori abili: tipo, la batteria del secondo ed eccellente brano, Indigo, è campionata da una canzone minore dei Fleetwood Mac, Prove Your Love. C’è da scavare, anche se pure un ascolto più superficiale restituisce molto: l’ipnotica e lynchiana Weird Love; la latineggiante e fumosa Make Good; quella frana al rallentatore che è Not Callin’ Out

Sono usciti diversi EP golosi, te ne cito tre:

  • Luna di miele, fine del mondo di Gregorio Sanchez, un cantautore e musicista che non smetterò di suggerirti finché non diventerà una star. Con questo EP si completa un disco in due parti iniziato l’anno scorso con Nelle parole degli altri. Prova a non liquefarti nel refrain di Trucioli, a non immedesimarti nel dialogo interno ed esterno della quasi-title-track. Oltre all’ottima scrittura c’è una produzione attentissima: i brani respirano nel mix, vivono in uno spazio fisico; i fiati sembrano il coro di una tragicommedia - bravo il sassofonista Francesco Panconesi, e bravi gli altri aiutanti Marco Giudici, Adele Altro e Generic Animal. Insomma, è una perla, voglio già il vinile.

  • Forever Means di Angel Olsen è una raccolta di scarti dall’eccelso album Big Time dell’anno scorso, quindi sono avanzi di lusso. Qualche esempio: quando arriva l’assolo di sax in Nothing’s Free ti si piegano le ginocchia; la voce nella title-track è incisa come se ne andasse della vita di Angel, e se pensi alla struttura melodica e lirica circolare (“forever” è l’inizio e la fine di ogni frase) capisci queste strane vibe da John Lennon (Lennon maestro assoluto della scrittura lasciata a metà che sembra finita, Paul l’avrà odiato per questo).

  • We Meet At Last di Kay Young è l’ennesima dimostrazione dello stato di salute del rap britannico, che può produrre zarrate drill e grime fino allo sfinimento, ma troverà anche spazio per le orchestrazioni soul, grazie in particolare alla versatilità degli artisti: Kay ad esempio è cantante, produttrice, rapper e ti piacerà se cerchi una versione meno spigolosa di Little Simz.

Nell’ambito “grandi vecchi”, è uscito l’EP Lost dei Pet Shop Boys, che contiene quattro tracce inedite dell’album Super del 2016 e una nuova canzone, Living In The Past, dove sembra che si siano dimenticati di arrangiare - meglio i synth bastardi di I will fall, inserita in playlist. C’è anche un album dei Metallica ma è stato faticoso arrivare alla fine. E poi vorremo dire due parole in croce sui singoli? 

I singoli

La scorsa settimana sono usciti due nuovi singoli del progetto di Lucio Corsi, che ora ha un titolo (La gente che sogna) e arriva domani. In questo nuovo doppio singolo c’è Orme: credo sia una delle sue migliori canzoni.

A proposito di assoluti, la versione che Alanis Morissette ha inciso della sigla della (ottima) serie Yellowjackets, intitolata No Return, è la sua cosa migliore da non so quanto tempo. Poi è tornato King Krule con una canzone spettrale intitolata Seaforth che sarà contenuta nell’album Space Heavy in arrivo il 9 giugno: sembra scritta, incisa, ma pure ascoltata sotto trance.

Champ dei Portugal. The Man con il sassofonista Edgar Winter ti prende alla gola, mentre un pezzo che ti prede ai fianchi e vorrai sentire tutta l’estate è Hold Tight delle londinesi Girl Ray, indie rock fruscioso e danzereccio (l’album Prestige uscirà ad agosto).

Tra gli altri singoli internazionali ti cito: to me dei Pinkshift; Enjoy Your Life di Romy, sempre più stella del dancefloor; Weak In Your Light dei Nation Of Language; FaceTime del rapper underground Billy Woods e del producer Kenny Segal con la partecipazione di Samuel T. Herring dei Future Islands.

Abbiamo altri italiani tra i singoli degni di menzione: Non esiste altro di Paolo Benvegnù con Malika Ayane, ballad scritta con inchiostro d’oro (il refrain è fresco come una mattina al mare) e cantata da-dio; Proiettili di Iako, che ha un drop abissale e una malinconia struggente; e ancora Musica per aeroporti di Federico Dragogna; DNA degli ISIDE; Ascensore di Sbazzee.

Ciao Louder.

0 Comments
Louder
Pioveranno venerdì
Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché