Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E02
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Pioveranno venerdì S02E02

14-20 gennaio 2023: facciamo il Test di Turing alla musica
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il test di cosa?

Ciao Louder,

cosa pensi dell’intelligenza artificiale? Io penso che parlarne nel 2023 è un po’ come parlare di viaggi sulla Luna nel 1865: più fantascienza che altro. Specie in ambiti come la musica, dove si vuole dipinge un’apocalisse, per far fare click agli articoli, come se da domattina tutte le canzoni potessero essere composte da un robot. Un po’ di terrorismo, così, per rischiarare le nostre giornate… Anche perché la questione non è tanto creativa, ma sociale. Tu intanto metti su la playlist con le nuove uscite (su Spotify e AppleMusic) che io ti parlo un attimo di questa cosa.

Nella sua newsletter The Red Hand Files Nick Cave ha condiviso un messaggio nel quale spiega di aver ricevuto dozzine di testi scritti da un’AI “alla maniera di Nick Cave”. Il cantautore prosegue dicendo che non gli sembra che questo bot abbia fatto un gran lavoro, e la spiegazione è semplice: “un’intelligenza artificiale non vive, non soffre” e così via, insomma l’essenza dell’AI è diversa da quella di un cantautore e lo sarà sempre. Mi sembra che fermare il dibattito qui sia piuttosto banale, utile solo per poter condividere messaggi indignati nelle proprie bacheche: “I ROBOT NON AVRANNO MAI IL CUORE”, e cose così. Io semmai, preferirei cominciando con una domanda abbastanza spiccia, tipo “quanti lavori saranno persi nell’industria musicale per via dell’introduzione sempre più massiccia dell’AI?” e proseguirei pensando a cosa cerchiamo nella musica, come pubblico e quindi come società. 

La cosa più interessante, anche se inserita nella sua argomentazione filosofica, Nick Cave la dice quando spiega che un vero autore non cerca di imitare, ma di creare qualcosa di originale. Come argomento è spinosissimo, perché l’originalità, l’autenticità, la sincerità sono concetti nei quali riversiamo spesso molti dei nostri bias, i pregiudizi che non vediamo di avere. Però, di fatto, Nick ha ragione: un essere umano impara imitando, ma crea innovando.

Intanto, diciamo che l’originalità non è un assoluto dell’arte: come sa bene chi abbia studiato la poesia greca, la qualità di un’opera non sempre è stata valutata in base all’assoluta distanza dai modelli, anzi. D’altra parte, questo invito all’imitazione è risuonato forte e chiaro attraverso i millenni a un’industria musicale sempre più avida di hit tutte uguali. La novità, al momento, non mi sembra un valore così universale, almeno non a livello commerciale. E nel frattempo noi dovremmo credere alla “sincerità” di artisti che scrivono con la carta carbone.

Il che non significa che non si debba operare dentro una tradizione, a prescindere, purché la si comprenda o la si sfidi: l’originalità, più che una collocazione tassonomica e topografica (“quanto assomiglia/non assomiglia a cosa?”), dovrebbe essere concepita come un riconoscimento reciproco mentre si scopre qualcosa di inatteso; la capacità di fare un passo in avanti, ma insieme. Se oggi piangiamo la scomparsa di David Crosby, un artista che ha inventato molto meno di altri suoi colleghi (come Jeff Beck, scomparso la scorsa settimana), è per il contributo che ha dato a una conversazione musicale partita prima di lui e - vedremo - non ancora terminata. Non sono sicuro che una macchina sappia fare questa distinzione sottile: comprendere una tradizione, e fare un passo in avanti nell’ignoto.

Forse, per valutare l’umanità o meno di quello che stiamo ascoltando, dovremmo domandarci: quello che sto ascoltando mi dà l’impressione di conoscere qualcosa in più su di me e sull’artista? Sta creando una qualche connessione? Se è così, siamo a posto, i robot non vinceranno. Se, invece, l’adesione a una tradizione (ma pure il suo rifiuto aprioristico) è un modo per proteggersi e lasciare che le parole o i suoni di qualcun altro si esprimano al posto nostro, forse le macchine hanno già vinto. Ci ho pensato leggendo questo tweet di Telefon Tel Aviv a proposito dell’uso o meno della melodia:

Quindi, questa settimana proviamo a fare un Test di Turing sulle uscite discografiche, come se dovessimo capire se il disco che stiamo ascoltando è opera di un essere umano, o di ChatGPT. E magari non facciamolo solo questa settimana, e continuiamo a interrogarci su cosa significhi essere umani: sono solo 2500 anni che lo facciamo, prima o poi una mezza risposta la troveremo.

Måneskin, Rush!

Con un amico qualche tempo fa si provava a stilare una lista di canzoni e dischi il cui titolo funziona come recensione del disco stesso: come WOW dei Verdena; o Hey What dei Low. Rush! dei Måneskin mi sembra un disco pensato e fatto di fretta, e quindi merita un posto in questa lista. Per riprendere il discorso del prologo, spesso l’album suona come se fosse stato scritto e prodotto da un’intelligenza artificiale istruita a imitare i Måneskin. Quando passi in rassegna traccia dopo traccia un disco come Rush! non dico che dovresti interrogarti sul perché un certo riff di basso o di chitarra suoni in un certo modo, ma almeno su cosa abbia spinto la band a scrivere 8 canzoni su 17 con un’intro virtualmente identica (cassa in quarti e giro di basso/chitarra isolato), questo forse sì. L’esperienza di ascolto è meccanica, appunto. Il che non significa che non possa risultare divertente: anche montare sopra un toro meccanico è divertente, per alcune persone. Ma almeno il toro meccanico tende a ribaltarti, a un certo punto: Rush! non mi ha mai ribaltato. Tranne quando, assolutamente a caso, in Kool Kids (mammamia, cit.) Damiano decide di imitare Joe Talbot degli Idles, quel suo accento carico, mezzo gallese: mi è sembrato un momento di genuino divertimento. Tramite imitazione, certo, ma forse in grado di passare il test di Turing. Mentre mi recapitate un premio per non aver ceduto a polemicuzze buone solo per l’engagement scemo, passo a dischi più interessanti.


John Cale, MERCY

Parliamo di un altro gallese, John Cale, che ha pubblicato ieri il suo primo album di canzoni originali da 11 anni a questa parte. Cale è conosciuto come un quarto dei Velvet Underground, una storia che in parte viene toccata quantomeno da Moonstruck (Nico’s Song), come lascia intuire il titolo che menziona la cantante del primo album dei VU (quello della banana). 

In MERCY Cale lavora con tanti nomi “contemporanei” della canzone alternativa: Weyes Blood; Animal Collective; Laurel Halo; anche Dev Hynes (cioè Blood Orange) che suona la chitarra nell’ipnotica e dolcissima I Know You’re Happy, un pezzo che si distingue nettamente in una tracklist abbastanza languida e notturna.

Tornando al tema di partenza, MERCY è un disco che non solo non sembra scritto da un robot che cerchi di imitare John Cale: anzi, è un disco che ha tutte le caratteristiche dell’umanità, perché è impossibile non empatizzarci. Il suono denso dei bordoni di tastiere e archi sopra ritmiche scheletriche ci dice qualcosa: che anche sopra le ossa esili di una vita lunga, a tratti estenuante, ci sono muscoli e tessuti ricchi di significato ed emozione. Un’altra caratteristica essenzialmente umana? MERCY si pone molte domande, e se esprime un dubbio nel primo verso di una canzone non pretende di trovare una risposta alla fine del ritornello (Noise of You): secondo me non c’è nulla di più umano della curiosità. Una parola che definisce perfettamente John Cale, da sempre: in questo senso l’album ha qualcosa del testamento, senz’altro, anche se auguriamo a Cale di vivere molti altri anni felici e darci qualche altro album così, se volesse. Io, intanto, se non l’avessi visto ti consiglio di recuperare su AppleTV+ il documentario The Velvet Underground di Todd Haynes (il regista di Velvet Goldmine) che non solo racconta la storia della band, ma coglie benissimo il carattere di Lou Reed e John Cale, tra cui, appunto, la sua curiosità.


Fran, Leaving

Un album molto carino, profondo ma non lagnoso, uscito questa settimana è Leaving della band Fran, di cui abbiamo già segnalato alcune tracce tra cui la bellissima God la scorsa settimana. In questo album la frontwoman Maria Jacobson si interroga su come il senso del sacro e della fede siano ancora presenti nel nostro modo di vivere, anche quando non ci consideriamo religiosi. Dal pensiero magico con il quale colleghiamo fatti distinti e non consequenziali al fatto che ancora abbracciamo concetti di qualcosa più grande di noi (la società, la famiglia, lo Stato), passando per il significato che cerchiamo nei sogni o nella morte, tutto ciò che ci circonda è a suo modo religioso. Anche il racconto della fine di una relazione occasionale (la title-track) può essere un’indagine sul significato del legame (religio) che unisce due persone, altrimenti destinate a vivere ignare l’una dell’altra. L’ispirazione per questo secondo album del gruppo di Chicago viene dai corsi online di teologia che Jacobson ha seguito durante la pandemia: così, in una tracklist fitta di domande (come nei brani consecutivi How Did We e How Did I) più che di risposte, anche in questo caso, si sente un percorso totalmente umano. Tanto che Jacobson l’ha detto anche in un’intervista, rispondendo alla domanda “come vuole che tra 30 anni si pensi alla musica dei Fran”: “che mi ricorda cosa significhi essere umani”, ha risposto.

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Gli altri album, in breve

Stavolta cominciamo con gli italiani, a partire da Radio Gotham di Rose Villain, del quale (Rari esclusa) abbiamo già sentito le migliori tracce fra i singoli che l’hanno anticipato. La traccia di apertura, Dalle ombre, però, ha un verso nella seconda strofa che nella sua assoluta semplicità, e nella libertà di dire una cosa che non sembra un cliché in voga, suona molto umano: “Non so perché, ma qualcosa del buio mi calma”, dice Rose. Ogni tanto bisogna accontentarsi.

Sempre in italia, ATARDE ha pubblicato cinque nuove tracce nel suo EP difetti di forma pubblicato l’anno scorso: insieme con YuzU - un nome che abbiamo già fatto se ti ricordi - mi pare si possa considerare un bell’accidente della musica nostrana contemporanea. Le nuove tracce sono tutte molto buone, Il posto delle tegole oltre ad avere un bel titolo che richiama Bergman (come Persona di Marracash: sarà mica una wave bergmanpop?) è quella che gira meglio.

Italiana è anche la violoncellista di base a Berlino Martina Bertoni, che ha pubblicato Hypnagogia un disco di elettronica che - come il titolo suggerisce - dipinge senza parole quello stadio di passaggio dalla veglia al sonno. Nello specifico, essendosi ispirata al romanzo fantascientifico Solaris, Bertoni mette in musica le capacità creative e distruttrici del subconscio: ci sono idee melodiche che si annullano, violoncelli che si distorcono, cori che perdono gradualmente il timbro umano e in generale un senso di disintegrazione. Your Sun forse è il brano che meglio rappresenta questo cammino di passaggio, ma ho scelto un brano più breve per non appesantirti l’ascolto della playlist. Da sentire con le cuffie e a occhi chiusi, o dopo aver visto uno degli adattamenti cinematografici di Solaris.

Infine, c’è un po’ di Italia in Cyclamen della cantautrice mezza catalana mezza irlandese Nuria Graham: il disco si apre e si chiude a Procida e in mezzo c’è un disastro a Napoli, ma senza dubbio la canzone più interessante è quella in cui cerca di convincerci di essere un pesce rosso. Una collezione di tracce insieme conturbanti e brillanti, perché non puoi dire sensuale senza dire anche non-sense. (In realtà sì, ma stai al gioco!)

Ieri sono anche usciti due dischi di pop elettronico non esattamente attuale: Time’s Arrow della band inglese Ladytron, che potrebbe sembrare uscito dal 2008; e Player Non Player dei francesi Agar Agar, che risale ancora indietro fino agli anni ‘80. Hanno i loro momenti - nel primo caso quando la forma canzone non viene troppo nascosta dai loop; nel secondo caso quando gli spigoli frigidi dei synth si ammorbidiscono - ma specialmente al disco degli Agar Agar un ascolto si può dare per immaginarsi come gli unici umani in un mondo di sole intelligenze artificiali.

Un po’ ambient e un po’ pop anche il disco Radio Songs di Dave Rowntree dei Blur. Molto ambient e poco pop 12 di Ryuichi Sakamoto. Consiglio di ascoltare prima questo, che è molto bello, e poi quello di Rowntree - medio - per fare decompressione.

Sono usciti anche alcuni dischi di promesse pop non sempre mantenute fino in fondo: tipo Lukas Graham, che però non è granché; o Låpsley, che 6-7 anni fa sembrava che avrebbe spaccato il mondo, e mi sembra che il suo disco Cautionary Tales of Youth parli un po’ di questo. L’altra faccia del glåm è che finire giù dal carrozzone è facile, e le rivoluzioni si concludono spesso in un nulla di fatto. E così la cantante inglese si ritrova a fare i conti con sé stessa, e ci parla di come ci si sente quando, guardandoti allo specchio, vedi quello che non sei, più che quello che sei. Se cerchi qualcosa di melodico, vulnerabile al limite della tenerezza, sicuramente con un lato un po’ oscuro (la seconda metà dell’album), questo disco fa per te.

In linea con questo tema, Mac DeMarco ha pubblicato un disco di strumentali, intitolato Five Easy Hot Dogs, come Cinque pezzi facili, film spaccacuore con Jack Nicholson: e proprio come quel film è in parte una storia on-the-road (DeMarco ha scritto e inciso le tracce in un viaggio dallo Utah a Los Angeles), e in parte considerazione agrodolce sul fallimento dell’immagine di sé che il viaggio vorrebbe costruire. Il risultato è non voler ripercorrere quei passi, non voler riguardare quel film, ma soprattutto non voler riascoltare questo disco. 

Abbiamo citato Crosby, prima, e mi chiedo se gli sarebbe piaciuto un disco come Tumble in Shade di Danny Arakaki, che tanto deve al folk rock psichedelico dei primi anni ‘70 di cui If I Could Only Remember My Name di Croz fu una pietra miliare. Infine, per citare un altro disco che probabilmente accumulerà quattro ascolti totali in Italia, c’è The Predator Nominate EP dei Brainiac, una band considerata una promessa del rock alternativo nei primi anni Novanta, poi scioltasi dopo la morte del cantante Timmy Taylor, e riformatasi nell’ultimo paio d’anni per qualche tour. Il disco contiene nove demo dalle sessioni per un album mai realizzato, che offrono un ritratto molto particolare del post-hardcore dell’epoca, specie per l’amore per i synth modulari e l’elettronica - assolutamente impopolare in quella fetta del rock negli anni ‘90. 

Anche Trippie Redd ha pubblicato un album, si intitola Mansion Musik, contiene appena 25 canzoni con featuring di Future, Lil Baby, Juice WRLD, Chief Keef, Travis Scott e così via, quindi uno rimane un po’ a bocca asciutta quando finisce dopo soli 76 minuti. Io te lo segnalo, ma non ho avuto la pazienza di includere qualcosa in playlist. Mi perdonerai, non sono un robot. Ho preferito mettere una traccia di Ice Spice, artista del Bronx che ha un modo di approcciare la drill che mi diverte e che ha dimostrato nell’EP Like..? uscito ieri.

Singoli

Questa settimana sono usciti moltissimi singoli interessanti, ma bisogna partire dalle boygenius (la superband di Phoebe Bridgers, Julien Baker e Lucy Dacus), che hanno accompagnato l’annuncio del loro primo album, the record, con un servizio fotografico di Rolling Stone (USA) che imita un celebre servizio dei Nirvana, e tre bei singoli: $20 è il mio preferito, ma ascoltali tutti e preparati all’hype in attesa del 31 marzo, quando uscirà il disco.

Phoebe Bridgers sarà anche in due tracce del disco dei National, che si intitolerà First Two Pages of Frankenstein e uscirà il 28 aprile. Nel primo singolo però canta solo Matt Berninger, dove confessa di stare peggio di quanto non abbia voluto lasciar intendere, ma lo fa sempre con quel tipo di descrizione circolare e riflessiva (“I caught myself talking myself off the ceiling”) che veste di ironia anche quella che sembra un’ammissione di pensieri suicidi. Il pezzo ha un andamento spedito e un’apertura nel ritornello che mi ha ricordato più Alligator e in parte Boxer che non i dischi più recenti. Sono molto curioso, e dovresti esserlo anche tu. A proposito di Phoebe Bridgers, sarà anche nel disco di Arlo Parks My Soft Machine annunciato con il lancio del singolo Weightless, molto muscolare per la produzione di Parks. Insomma, non ci libereremo mai di Phoebe.

Un progetto particolare lanciato questa settimana da un singolo è quello della band London Brew, assemblata apposta per creare una versione londinese del 21esimo secolo di Bitches Brew, album caposaldo di Miles Davis, considerato il punto di partenza della fusion. Il progetto doveva inizialmente consistere solo di un concerto, eseguito da un gruppo di musicisti dalle band Sons of Kemet e The Invisible, messi insieme dal chitarrista Martin Terefe: tra i musicisti coinvolti Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, Tom Skinner. Il concerto, previsto per il 2020 in onore del 50esimo anniversario dell’album, non si è mai fatto. Così, invece, il 31 marzo di quest’anno uscirà un’incisione in studio. E a giudicare dalla prima traccia, una rivisitazione di Miles Runs the Voodoo Down (brano ispirato a Jimi Hendrix), c’è da aspettare con trepidazione.

Tra i pezzi che ho messo in alto, così non li perdi, anche il ritorno di Kali Uchis, I Wish You Roses, e soprattutto Same Problems? di A$AP Rocky: quest’ultimo è proprio il tipo di pezzi per i quali ci vogliono gli esseri umani, perché collaborando con Tyler, the Creator, Thundercat, Miguel e Lil Yachty, Rocky crea un pezzo assolutamente sospeso, che spinge malinconicamente in avanti con un basso che sa di horror. Il brano è un omaggio ad A$AP Yams, morto 8 anni fa, e si sente tutto il dolore di un lutto non risolto. Tanta roba.

Molto interessante anche brrr di Kim Petras che dopo aver collaborato a uno dei singoli di maggior successo dell’anno scorso (Unholy, noi te l’avevamo detto che era una hit) tira fuori questa produzione alla SOPHIE, che trovo irresistibile. Tra parentesi, 1,2,3 dayz up featuring - appunto - SOPHIE resta uno dei pezzi migliori di Kim Petras, senza dubbio. Da tenersi a mente anche Miami di Caroline Rose; Evolution dei Braids; e il beat pazzesco che DJ Premier ha realizzato per Macklemore in Heroes. E poi questa settimana abbiamo avuto anche il singolo eponimo del nuovo album degli Sleaford Mods, UK GRIM, che loro ogni volta che li sento mi chiedo se non stia per arrivare Damon Albarn a urlare “PARKLIFE!”, ma forse sono solo io. E infine c’è un bellissimo singolo della band Wednesday, che non c’entra con la cosa di Netflix, ma hanno fatto benissimo a tirare fuori una traccia ora che c’è sto cavolo di trend di TikTok (e se lo dico io, probabilmente è finito un mese fa).

Per finire, un po’ di segnalazioni italiane. Intanto, è tornata dopo 5 anni Maria Antonietta, che ha pubblicato il singolo Arrivederci (strano modo per tornare!) e un minitour di quattro concerti ad aprile. Poi consiglio Vuoto bestiale di Bais, probabilmente uno dei migliori pezzi della settimana: si regge su una batteria ridotta all’osso, un ritornello irresistibile che si arrotola su sé stesso e un pianofortino sdentato che a momenti ricorda Paolo Conte. Molto bravo lui, davvero. Ricorda ancora di più Paolo Conte, e intendo proprio Sparring partner in questo caso, la canzone Rimani di Simone Panetti. E poi dicevano a Calcutta!

Ultime citazioni per la sufjanesca alieni di Valentina Polidori, per Adele di BLUEM e per un nuovo singolo di Speranza che - come potete vedere - è un artista che prendiamo molto sul serio, anche quando intitola una canzone come una pagina social discutibile.

Come sempre, alla fine della playlist si balla, e stavolta è fitta di nomi già citati, tante cose che tendono al pop, e anche - le cito ora - Yaeji e Kelela, sempre più lanciata. Noi ci sentiamo la prossima settimana, io vi lascio a Rick Rubin che confessa di non sapere nulla di musica: forse è questo il modo per fregare le macchine, non sapere nulla. Tutto molto socratico… Ciao Louder.

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