Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E03
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Pioveranno venerdì S02E03

21 gennaio - 3 febbraio: tradimenti rap, canzoni rituali e il tempo che non basta mai
io, piegato da due settimane di ascolti ossessivi

Ciao Louder,

la terza puntata di pioveranno venerdì vale due settimane. Oggi ti parlerò della musica uscita la scorsa settimana, e di quella uscita questa settimana: fortunatamente abbiamo le playlist ARCHIVIO 2023 (su Spotify e su AppleMusic) nelle quali puoi recuperare le canzoni di venerdì scorso e di tutti i venerdì passati. Ma, cosa più importante, fortunatamente questo venerdì sono uscite parecchie schifezze e, dato che - come sai - a me non piace troppo parlare male delle cose brutte perché preferisco parlare bene di quelle belle, riusciamo a recuperare tutto. Tu metti su la playlist con le nuove uscite (su Spotify e su AppleMusic) e io ti comincio a parlare di dischi senza preamboli.

Lil Yachty, Let’s Start Here

Il primo disco di cui ti parlo è Let’s Start Here. di Lil Yachty: quando l’ho sentito per la prima volta mi è scoppiato il cervello. Se non hai idea di chi sia Lil Yachty, ecco un breve riassunto, per motivare la mia reazione: artista emergente del genere mumble rap, emerge tra 2015 e 2016, anno nel quale con la forza di mille mugugni e la benedizione del dio dell’autotune entra nel mainstream grazie alla partecipazione nei primi minuti di gioco di una hit altrui intitolata Broccoli (ma è lui l’attrazione principale); a questo punto diventa uno dei bersagli preferiti della vecchia guardia, specie dopo che l’incauto ragazzo dichiara di non aver mai sentito riverenza nei confronti di 2Pac e Biggie; lo spazio che abita da quel momento è definito da questa diatriba tra rapper-rapper e rapper con l’autotune, rima e melodia, tundra e taiga; nei sei anni a venire la sua traiettoria lo porta a ripetere qualche successo, mentre cerca anche - con alterni risultati e un sample di Piero Umiliani - di ingraziarsi la scena rap del Michigan; finché il suo massimo successo solista che lo riporta dalle parti dei meme arriva a fine 2022, e si intitola Poland. Questo album, uscito la scorsa settimana, invece, non c’entra quasi niente con tutto questo: è una collezione di rock psichedelico con un’anima parecchio soul. Ecco perché non ci ho capito più niente: immagina se DrefGold la prossima settimana se ne uscisse con un disco rock, che magari cita Battisti e Carella tra le sue influenze, e conta tra i collaboratori Fulminacci. Lil Yachty ha anche questo dalla sua: nel nuovo album ha convocato come produttori o autori gente del calibro di Mac DeMarco e Alex G, ha pescato dagli Unknown Mortal Orchestra e dai Chairlift. E proprio questa scelta ha creato una nuova diatriba - pare che il povero Yachty non riesca a starne fuori: da una parte chi ha gridato al miracolo, come Questlove (vd sotto); dall’altra chi ha gridato al tradimento del rap, e quindi della cultura afroamericana in generale, come un bel pezzo di critica (Pitchfork, su tutti). 

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Mi sembra che entrambe le posizioni abbiano lo stesso difetto: vedere l’opera di un artista come funzione delle proprie personali idee di musica e cultura popolare, e quindi usare l’adesione a queste idee come coefficiente di un giudizio critico. In pratica, usare la musica che si ascolta per confermare o negare un punto di vista sul mondo più in generale. Chi non vuole o non può mettersi in mezzo - come me, che non sono afroamericano né afrodiscendente, né mi sento di rappresentare la storia dell’hip-hop - si trova nella scomoda posizione di dover dare ragione e torto a entrambi: è effettivamente un disco che sa di reinvenzione totale, a beneficio di un’idea sicuramente bianca della musica; ma è anche un disco che a tratti suona in modo sorprendente, precisamente nella misura in cui Lil Yachty cerca di infilare alcuni suoi vezzi (il vibrato innaturale che esce dall’autotune) dentro una forma sonica più anziana, analogica quasi. Secondo me ci sono dei risultati eccellenti, e io non posso che consigliarti di ascoltarlo dall’inizio alla fine, con la consapevolezza dei problemi che si porta dietro.


Kimbra, A Reckoning

Kimbra te la ricorderai senza dubbio per quella volta in cui, 12 anni fa, si ritrovò catapultata in cima alle classifiche di 23 Paesi e con due Grammy per aver partecipato a una canzone con un altro emerito sconosciuto, Gotye. L’artista neozelandese venerdì ha pubblicato il suo quarto album, A Reckoning, una resa dei conti.

Kimbra soffre di sindrome di Cassandra: le cose che ha cercato di fare nella cornice rigida del pop da major sono state spesso ignorate, ma se uno pensa a un disco come Golden Echo che su certi pezzi aveva al basso Thundercat un anno prima che andasse a suonare con Kendrick e alla batteria JR, uno dei migliori batteristi sul mercato (te lo ritrovi in Off The Wall di Michael Jackson come in Random Access Memories dei Daft Punk), capisce che Kimbra vedeva qualcosa che noi non eravamo capaci di scorgere. Un singolo tipo Miracle, ingiustamente snobbato ma che ascoltato 9 anni dopo chiede giustizia.

Ora che per la prima volta da quando ha 17 anni è uscita dal giro delle grandi etichette, può continuare a fare quello che le pare. La traccia che apre l’album, save me, è tantissima roba e mi scuso per essermela fatta sfuggire, a ottobre. Fortunatamente c’è tanto altro da sentire (o eventualmente risentire): new habit, il pezzo che ho inserito in playlist, è un pezzo di Beyoncé se Beyoncé decidesse mai nella vita di scrivere qualcosa di profondamente autobiografico e sentito. A Reckoning è il tipico (ma non banale) esempio di come un disco possa riflettere un periodo storico piuttosto oscuro usando una lente sostanzialmente personale: ansie sociali e individuali; maree sovrastanti di informazioni, messaggi, contenuti che ci fanno sentire minuscoli e incapaci di agire. Anche quando parla d’amore (l’album ha molte vibe da breakup album, compresa la copertina all-in), ad esempio nella ballad foolish thinking con Ryan Lott dei Son Lux, ci leggi dentro non le situazioni immaginarie e convenzionali dei testi d’amore scritti da ragazzini imberbi, ma frasi che sembrano estratte da una qualsiasi conversazione di due persone reali, magari pescate da un litigio. Insomma A Reckoning ha quella qualità ineffabile dei dischi fatti bene: tutto (tipo le melodie, che si fanno sentire anche in pezzi eterei come il finale i don’t want to fight) è stato curato e meditato, arrangiato e prodotto da Kimbra con molto gusto. Non è cool parlare bene di una che ha fatto una hit un decennio fa, ma sticazzi. Giustizia per Kimbra!


Fucked Up, One Day

Viviamo in un’epoca che si è convinta di aver inventato tutto: ad esempio, la paura che il tempo non basti. Ci siamo convinti che il tempo sia una risorsa rara e preziosa oggi con tutte le distrazioni eccetera, come se prima invece ve ne fossero giacimenti immensi, di tempo. Ovviamente non è così, anzi, forse la brevità della vita è il tema letterario e filosofico per eccellenza, ma se vuoi leggere qualcosa che sembra scritto l’altroieri, ti consiglio Seneca. Se invece preferisci rifletterci con un disco, ti consiglio One Day dei Fucked Up. La band canadese (un po’ in presenza, un po’ a distanza) si è data 24 ore di tempo per scrivere e incidere questo album, e ne è uscito un lavoro fantastico e profondo. Si tratta del primo LP da 5 anni dopo tre lustri di musica a petto nudo, ma anche sperimentazioni, un musical, una serie infinita di EP tra cui l’anno scorso il quasi-metal Oberon. Sono dieci tracce al confine tra punk e power pop che ti strillano in faccia col sorriso. Sarà stata l’urgenza, sarà che il collettivo di Toronto qui suona e canta in quartetto, ma tutto suona asciutto ed essenziale, dritto come un pugno, e ciononostante pieno di melodie e attenzioni (gli overdub di chitarra creano delle muraglie abbastanza impressionanti): I Think I Might Be Weird, segnalata la scorsa settimana, è ufficialmente entrata in lizza per il miglior pezzo dell’anno; Nothing’s Immortal è una specie di suite senza alcuna presunzione di complessità, quasi beatlesiana nella sua naturale ricchezza.  Come abbiano fatto in 24 ore a fare uscire da zero questo piccolo capolavoro rock è un mistero, ma è anche una sfida all’ascoltatore e un messaggio: nel momento in cui sembra minuscolo, il tempo va fatto esplodere come un frattale, dedicandoci solo a quello che faremmo se ci restassero da vivere soltanto 24 ore. Un disco da far suonare nelle strade quando il pessimismo non ti si scrolla di dosso.


Parannoul, After The Magic

Il musicista coreano Parannoul ha pubblicato quello che è il suo terzo disco con questo nome, ma il diciottesimo nel complesso (diciotto album in cinque anni), coltivando sempre l’immagine del ragazzo che si fa viaggi con la chitarra nella sua cameretta. Io personalmente non mi sono ancora stancato di volare un po’ con lui, specie se tutto continua a suonare così compatto ed energico, con aperture melodiche davvero spaziali. Il tema conduttore, qui, per quel che son riuscito a cogliere dai testi un po’ in coreano e un po’ in inglese, è la descrizione di quanto capita di notte. Di per sé un tema abbastanza shoegaze, in particolare per Parannoul (il disco precedente era To See The Next Part Of The Dream), ma qui andiamo oltre l’ipnagogia e siamo più nel confidenziale alla In The Wee Small Hours, ma senza i cappelli di Sinatra: c’è l’insonnia, i pensieri ossessivi e le riflessioni esistenziali, visioni ed epifanie, solitudini e incontri. Le produzioni migliori del disco mettono insieme una limpida chiarezza hi-fi e pennellate dense di rumore e grana lo-fi, ma a volte l’obbedienza al caos rischia di nascondere momenti interessanti in cui ad esempio, un impeto quasi-dance e un grido emo spezzano il rigore rock (Sketchbook, la suite più interessante di sicuro), o di ammutolire la volontà “pop” di certi pezzi che popolano la seconda metà dell’album (Imagination, Sound Inside Me…). In più ci sono tracce con un mix davvero implacabile, quasi crudele: il basso onnipresente di Blossom mi ha messo un po’ a dura prova, devo ammettere. Ma poi momenti come la title-track o Arrival, dove appunto l’equilibrio segnale/rumore è perfetto, alzano decisamente il punteggio.


King Tuff, Smalltown Stardust

Smalltown Stardust di King Tuff è un disco sui ricordi della vita in provincia di un musicista e cantautore del Vermont che vive a Los Angeles. Per sua fortuna vive con Sasami, musicista di cui abbiamo già segnalato tracce, che gli ha prodotto il disco e grazie al suo background classico fa un po’ da George Martin di questo John Lennon dei boschi nordamericani. Cito questi nomi perché l’influenza dei Beatles (epoca Revolver) è abbastanza evidente, ma non pesante, grazie a una serie di cadenze bluegrass/folk che non possono che essere americane, e soprattutto grazie alle storie di personaggi bizzarri come il mezzo vagabondo Red Tooth e situazioni da middle class che ci portano lontano dalla Liverpool working class: quindi, se da una parte c’è quel tentativo freudiano-lennoniano di recuperare il significato di un passato remoto ma che si fa ancora sentire, dall’altra c’è una condizione tipicamente statunitense della nostalgia per la terra d’origine, regolarmente abbandonata per partire in cerca dell’oro. E poi - a segnare un’altra distanza - ci sono canzoni dall’architettura essenziale, come Always Find Me con il suo intreccio tra voce e sassofono che è troppo jazz per un McCartney. O pezzi più alla Brian Wilson, per mood, come la splendida prima traccia Love Letters To Plants. Ma in playlist ho incluso un passaggio davvero molto beatlesiano, con archi molto melodiosi, e una linea di basso suonata da Anna Butterss che voglio imparare subito. Così sei costretto ad andare a sentire anche gli altri che ho citato!


The Arcs, Electrophonic Chronic

Parlando di Electrophonic Chronic dei The Arcs devo premettere una cosa: parto sempre sospettoso dei side-project delle rockstar, nel senso che non mi basta una leggera deviazione dall’originale per apprezzare l’alternativa. Quindi, chiedo a Dan Auerbach dei Black Keys, perché dovrei ascoltare questo tuo progetto giunto ora al secondo album? Perché i tempi più lenti e le atmosfere più morbide, soul e psichedeliche tirano fuori la solidità della sua scrittura melodica (le canzoni ci sono, si sentiva anche in questo concerto). Ok, sono convinto. Quello degli Arcs è un gioco, chiaramente, lo senti anche dai testi che pescano ampiamente dal repertorio di cliché rhythm and blues da uomo in ginocchio-da-te; ma il fatto che il gruppo abbia dovuto fare i conti con la morte di un loro componente nel 2018 (Richard Swift) dona un velo di credibilità in più alla malinconia generalizzata del lavoro. Poi Leon Michels degli El Michels Affair ci mette delle profumatissime tastiere, e insomma a parte qualche leziosità lo-fi (Love Doesn’t Live Anymore) e qualche interludio e intermezzo, il disco si lascia ascoltare molto bene fino alla fine, dove arriva a sorpresa un pezzo strappalacrime che omaggia il David Berman di Maybe I’m The Only One For Me. Ti metto in playlist questa canzone, ma dai un ascolto almeno anche a Sunshine, Behind The Eyes e River.


Young Fathers, Heavy Heavy

Arriviamo a questa settimana con il nuovo album degli Young Fathers, Heavy Heavy. “Pesante pesante”, non nel senso di metal né nel senso di musica complessa: per certi versi, anzi, è il disco più immediato del trio scozzese. La “mano pesante” c’è nella densità dei legami, in particolare con la musica dell’Africa Occidentale: Alloysious Massaquoi è liberiano di nascita; Kayus Bankole ha le sue radici in Nigeria. E questo disco sembra fare i conti con l’idea che per riconnettersi all’origine africana (di sé o della musica) non bisogna aggiungere, ma togliere. Il tratto d’unione delle tracce mi sembra proprio questa ricerca di un’essenzialità sonora, da ottenere non spogliando la musica di arrangiamenti ma cercandone il codice primario, andando alla base di tutto: e quando si arriva alla base si (ri)scopre la funzione sociale, interpersonale, terapeutica del canto (quella per cui ancora oggi in inglese si usa il termine chant); e allora le canzoni non devono più “raccontare”, ma devono “fare”; ed ecco che pezzi come Geronimo o Rice o Sink or Swim hanno piuttosto l’incedere del rituale, anziché quello dello storytelling, e nella sfilza di descrizioni orwelliane di I Saw non c’è tanto la definizione di una protesta politica, ma una messa in scena, un’azione. Quando dal reame del mito si torna a quello del rito, i canti non offrono più esempi ma indicano modi di rivendicare e liberarsi dal senso del bisogno più ancestrale. Ovviamente siamo nel 2023, e non è fame di cibo, ma fame di salute mentale; non è liberazione dalle malattie, ma liberazione dall’oppressione. E come ogni rito contiene una parte di sacrificio, così gli Young Fathers sacrificano il loro sudore (il disco è stato tutto creato alla vecchia, tre amici in uno scantinato senza collaborazioni né aiutini vari, e forse anche per questo è asciutto e va poco oltre la mezz’ora); e sacrificano le loro emozioni, la moneta di ogni transazione musicale che si rispetti. Ma se il rito è la formalizzazione di un contratto di scambio tra un mortale e una divinità, qui le parti sono diverse: non c’è un dio al quale chiedere pietà e soddisfazione; esiste solo una coscienza collettiva, quella dell’artista e del pubblico e di tutti noi, alla quale appellarsi. E allora ecco che la funzione del canto non è più religiosa, ma politica. Ci sono momenti in cui è il racconto di una storia esemplare a ispirare un movimento: questo è l’ethos della musica folk. Heavy Heavy sceglie un altro metodo, più istintivo ed emotivo: non so se sia anche più efficace, di sicuro ti fa venire voglia di ancheggiare e ululare, e di questi tempi è sufficiente.


RAYE, My 21st Century Blues

Sono anni che l’industria musicale britannica cerca una nuova superstar femminile che possa raccogliere l’eredità di Adele nel campo del soul all’inglese. Ovviamente, replicare il successo commerciale della cantante più venduta degli ultimi 20 anni nel suo campo da gioco non può essere facile, e infatti le cose migliori sono uscite intorno ai margini di questa ricerca, andando a pescare in stagni che non fossero stati già desertificati dalla discografia intensiva. Così abbiamo avuto Jorja Smith, Arlo Parks, perfino Little Simz avventurandoci più nel rap, ma fortunatamente abbiamo dimenticato il resto. Venerdì è uscito il primo album di RAYE, al secolo Rachel Agatha Keen, e My 21st Century Blues mi sembra il segnale che finalmente questa ricerca è finita: non perché RAYE sia la nuova Adele (non la è), ma perché ci siamo resi conto che la ricerca in sé e per sé non ha senso. E infatti, ora che non è più sotto contratto con Polydor, RAYE ha messo insieme un disco pop sentito e sofferto, che parla di aggressioni sessuali e disturbo da dismorfismo corporeo senza sembrare cucito addosso ai 15 secondi di un TikTok (Body Dysmorphia è solo un tantinello didascalico come titolo, ma a ciascuno il suo). E soprattutto abbiamo un disco pop che restituisce una cosa che in quest’epoca di progettoni colossali si è persa: ossessionati dalle visioni coerenti e dalle produzioni esecutive, abbiamo dimenticato il piacere del coacervo, del mosaico di diversi gusti. Un buon album pop, per me, è più simile a una maionese sul punto di impazzire, o a una panna montata prossima alla burrificazione, che non una salsa bella liscia, composta al 25% di sapore e al 75% di amido di mais. Facciamo qualche esempio? Dopo la bella collaborazione dance-rap con 070 Shake sulla traccia Escapism, un inno alla voglia di spaccarsi ammerda quando sale il panico, arriva questa specie di tenerissimo elogio blues alla marijuana intitolato Mary Jane, che sostanzialmente contraddice quanto detto prima; segue un pezzo Daptone-Winehouse sulle passioni che svaniscono intitolato come uno standard di B.B. King, The Thrill Is Gone; infine arriva una ballad di quelle eroiche prodotta da BloodPop, Ice Cream Man, dove RAYE discute di abuso. Quattro mood, quattro stili, quattro contenuti molto diversi, tutti in fila. E tutto questo in un disco che comunque ha una produzione sostanzialmente in mano a due persone, Keen stessa e Mike Sabath: non si può insomma ascrivere alla catena di montaggio del pop. Insomma, My 21st Century Blues non è un album che ti aiuterà a ritrovare la tua anima, ma è pop fatto come si deve, che propone diverse visioni del mondo, e lo fa con suoni ottimi (questa settimana in particolare ci sono state tante canzoni mixate a casaccio) e con un canto che ha il piglio giusto. Ed è piaciuto anche ad Adele, quindi forse abbiamo davvero scollinato in un’altra epoca. Io in playlist ho inserito una canzone che pare Lauryn Hill prodotta dagli alt-j, Environmental Anxiety, ma in generale segnati questo nome per il futuro.

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Gli altri album, in breve

Gloria è il primo album da quando Sam Smith ha fatto coming out come persona non binaria, e mi sembra anche il primo nel quale l’artista inglese si rifà esplicitamente non solo alla propria autobiografia di persone appartenente alla comunità LGBTQ+, ma a questioni più generali di cultura e di stile, dalla percezione del proprio corpo al richiamo alla disco music. Il risultato è un disco a tratti divertente, come in I’m Not Here To Make Friends, ballabilissima, o No God che è cantata e suonata in modo divino. Purtroppo non possono mancare le ballad asfittiche, tra cui la collaborazione con Ed Sheeran che sfortunatamente chiude il disco. Peccato perché Unholy resta una delle mie tracce pop preferite del 2022.

Ava Max ha pubblicato il suo secondo album, e non l’ho particolarmente amato, perché mi pare un tentativo tamarroide di tenere insieme Dua Lipa di Future Nostalgia, Beyoncé di Renaissance e The Weeknd di After Hours, ma con poche idee. Un disco da ballare divertente è invece quello di SG Lewis, che con Dua Lipa ci ha lavorato davvero come autore. AudioLust & HigherLove è solo il suo secondo LP e sembra portare a casa molto di quello che ha imparato, perché è ballabilissimo. Le ispirazioni dichiarate sono Daft Punk da una parte (si sente chiaramente in Something About Your Love, un omaggio a Discovery al limite del plagio), Hall & Oates e Steely Dan dall’altra (Lifetime): facendo una somma il risultato è uno stadio maturo del pop danzereccio, secondo me ben rappresentato nella convergenza discomusic/yacht rock/indie/french touch di Oh Laura. Un disco per stare bene, se volete fare una serata tranquilla ma con sotto un beat.

Andando più sull’essenziale ci sono due dischi molto meno prodotti ma ugualmente curati. Il primo è Portrait of a Dog di Jonah Yano con la produzione dei BADBADNOTGOOD: jazz e canzone che si intrecciano in un maglione di lana morbido. Ci sono picchi di malinconia che mi hanno ricordato Elliott Smith, tipo nel brano che ho incluso in playlist, Always, ma anche quelli più da fenomeni come l’apertura leslianne valgono il metaforico biglietto. Il secondo album è Furling di Meg Baird, che mi permette di citare questo vecchio adagio per cui “se un pezzo funziona, funziona anche voce e chitarra”. La cosa sarebbe credibile se il 70% delle persone che te lo dice non fosse fanatica di robacce basic che non si salverebbero nemmeno se finissero in mano a Brian Wilson. Detto questo, c’è una noce di verità, e quella noce ce la porge quest’artista che a tratti ricorda Joni Mitchell (Cross Bay), e a tratti sembra la colonna sonora di un film che (non) guarderai su MUBI.

Mi prendo qualche secondo anche per parlare di Hands Across the Creek degli Hotel Lux (di Portsmouth ma residenti a Londra): è per metà un disco post-punk inglese anticapitalista per gente che lavora in un’agenzia di comunicazione, per l’altra metà un disco folk rock sull’inutilità dell’esistenza quando si lavora in un’agenzia di comunicazione. Ho inserito in playlist la canzone che chiude il disco tenendo insieme tutto quello che sta prima, compreso uno sguardo dall’alto sulla ridicolaggine del tutto, che mi ha ricordato certi versi di Jarvis Cocker e che sembra anche un atto di autocritica della succitata wave post-punk anticapitalista inglese: si intitola Solidarity Song.

Tra i dischi ascoltati queste settimane che mi sento di consigliarti per un giro anche War Poems, We Rested degli R.Ring (è un duo con Kelley Deal delle Breeders), che è indie rock stortignaccolo, fuori dal tempo, delizioso. Fuori tempo anche Dead Meat dei Tubs, che odora di Smiths lontano un miglio. Passando a qualcosa di più contemplativo è uscito Every Acre di H.C. McEntire, elettrico e morbido; Deep Is The Way di Gena Rose Bruce, che ha un bel duetto con Bill Callahan e quindi si posiziona giustamente tra il surreale e lo psicanalitico. Infine, partendo dal folk e arrivando alle secchionate che ci piacciono, c’è l’omonimo album di Complete Mountain Almanac, un progetto che coinvolge i gemelli Dessner (quelli dei National) e la loro sorella Jessica, che peraltro vive in Italia: te ne avevo già parlato, e il risultato è un almanacco che mette insieme canzone popolare inglese, classica contemporanea e indie rock, passando da madrigali alla Monteverdi (January) a cori alla Caroline Shaw (April), da progressioni arpeggiate alla “chiaro di luna” (December) a pezzi più dritti con tastiera e drum machine. Non troverai in nessuna playlist, invece, tracce dell’album di Eagle Eye Cherry (da quanto tempo non sentivi questo nome?), che ha sempre quella voce lì fatta di barrette Mars, ma con una scrittura e una produzione che sa di imbarazzo pop/rock e tardi anni ‘90.

Arrivando a questa settimana abbiamo il debutto del progetto The Waeve di Graham Coxon dei Blur, che è piacevolmente ondivago e suonato molto bene (il 2023 sarà l’anno dei Blur senza i Blur fino all’estate, e poi sarà l’anno dei Blur con i Blur in tour mondiale). Poi è uscita la quarta incarnazione del disco 2 Baddies (re-intitolato Ay-Yo) dei coreani NCT 127, che meritano una menzione per una delle tracce inedite, DJ, dotata di un basso pazzissimo e di accordi city pop/j-prog da fare invidia ai tuoi amici jazzisti con la barba.

Poi, se vuoi mantenere la calma ci sono le canzoni voce e chitarra di Robert Forster in The Candle and The Flame, e sono deliziose. Se vuoi perdere il controllo della mente, Pink Colour Surgery degli Psychotic Monks fa per te: a tratti ti chiederai perché lo stai ascoltando, poi arriva un pezzo sbriciolato come Gamble and Dangle e ti darà una risposta. Se invece vuoi perdere il controllo del tuo corpo The Go! Team hanno pubblicato il secondo volume della serie Get Up Sequences ed è un disco ballabilissimo. Ormai attivo da due decenni (grazie per averci fatto sentire anziani), il collettivo di Brighton continua ad aggiungere colori e gusti e nomi nella loro discografia: a questo giro hanno chiamato le rapper Nitty Scott e IndigoYaj, la band di ragazzine del Benin Star Feminine Band che fanno i cori, la cantante indiana Neha Hatwar e l’artista J-Pop Kokubo Chisato. Una festa (che secondo me è il contesto migliore per ascoltare queste tracce) che risulta in quella scioglimuscoli intitolata Whammy-O o nel bordello di steel drum afrocaraibiche di Gemini, per non parlare di quei momenti di impossibile fusione atlantica di dancehall e shoegaze che si sentono in tante tracce, come Baby. Io ho scelto una canzone che fa molto Jackson 5, ed è il cumino in questo curry che già contiene troppi ingredienti per funzionare, ma funziona.

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Ma italiani ne abbiamo?

Certo che sì, in queste due settimane è uscito a sorpresa un EP di Arssalendo (Ma tu ci tieni a me?), uno tra i pochi degni titolari dell’hyperpop in Italia, per quel che mi riguarda: mi piace come i suoi pezzi sembrino insieme distaccati ironicamente e prostrati dal dolore, un po’ psicopatici e un po’ patetici (ma comunque il pathos c’è, anche quando non lo vedi). Poi ci sono i veneti Denoise, che avevamo già inseriti in playlist a ottobre per il bel brano Io tu Noi Settembre con Rareş. Venerdì scorso è uscito il disco che contiene questa e altre nove canzoni. Musicalmente è un alt-pop immerso nel jazz, a tratti etereo a tratti soffocante (in senso buono! tipo nel brano Parigi). Liricamente ci sono tante spie di Vasco Brondi e Lucio Dalla (lo dico solo perché sono più o meno esplicitamente citati nella title-track? certo). Poi viene definito indie pop, per comodità, ma con tanti strati da sbucciare e tanti spunti da trovare un ascolto alla volta. Il disco si intitola E poi in un momento diverso dagli altri, ha una copertina che ricorda Matisse, e insomma abbiamo preso nota.

Parliamo anche di due dischi rap che sono comparsi nelle nostre playlist. Non per mettere le mani avanti ma per ragioni precise. Il primo è Piazza Noia di Rafilù, precedentemente noto come Barracano, un disco che cerca di toccare un po’ tutte le caselle del rap italiano e per questo stanca ben presto. La canzone sull’eroina Zoo di Caivano - che a un certo punto dopo il primo ritornello cita Silvia lo sai di Luca Carboni - mi sembra fregarsene di funzionare, e per questa ragione e la sua andatura da Nas di Caserta (Naserta?) mi fa molta simpatia e mi convince. In generale, la seconda metà del disco funziona meglio della prima: segnalo anche Fuori dai guai con Chicoria, che nel ritornello riprende il profilo melodico di Ready Or Not dei Fugees (se nessuno ha fatto un remix su TikTok, ti regalo questa idea).

Mostro (meglio noto come il fratello di quello che fa il podcast Cachemire) invece ha pubblicato il terzo volume della sua serie The Illest: nulla che non si fosse già sentito, ma con qualche highlight, come l’armonia di Aquiloni, il beat di Da paura confezionato dai 2nd Roof, alcuni cambi di flow, la strofa di Jake La Furia in Rappresento. E poi c’è un pezzo che ha due colpi di genio: si intitola Noodles, e la prima genialata è quando Mostro chiede come ricompensa del suo talento il doppio della soia nei noodles, che però fa male alla pressione, e forse è una forma di autodistruzione (sicuramente più interessante di quelle solite a base di droga); la seconda genialata è l’inizio della strofa di MadMan dove questo cantilena la parola “TROIA” (in riferimento alla vita: no sessismo qui) per un’intera battuta. Queste piccole schegge di non-sense dobbiamo lasciarle dentro il nostro cervello, finché non si infettano.

I singoli

Ecco, con un programma di due settimane condensate in una come possiamo parlare a lungo dei singoli? Non possiamo, quindi vado a razzo.

slowthai annunciato un album intitolato UGLY, e lo anticipa il singolo Selfish che è talmente post-punk nel cantato e nel beat che mi viene da chiedermi se definirlo rapper abbia ancora senso (e vedi che si ritorna alla questione iniziale di Lil Yachty). LLYLM (“lie like you love me”) è invece il primo singolo “in inglese” di Rosalia e funziona, anche se si posiziona dieci piani sotto Motomami in termini di intuizioni: stiamo per assistere all’era puramente pop di Rosalia?

Se parliamo di singoli che hanno fatto salire l’hype oltre il livello di lettura dell’applausometro, ci sono canzoni dei Gorillaz, di Fever Ray e di Caroline Polachek: quest’ultima ha svelato che nel suo album in arrivo a San Valentino ci sarà un featuring di Dido e Grimes, che è la Dido degli anni ‘10 (artista dotata di meriti oggettivi, nascosti dall’associazione equivoca con un maschio bianco più famoso), quindi tutto torna.

Un po’ di italiani? Ok, c’è Merchants di Sans Soucis (cantante modenese con mamma congolese e di base a Londra) che ha qualcosa dei Talking Heads e una voce morbidosissima. In quota cantautorato abbiamo La vita fino a qui di Dente con Post Nebbia e Piccola di Mobrici, due canzoni alla vecchia che sono fatte molto bene per ragioni diverse: eccellente produzione e vibes nel primo caso; ottimo giro armonico e melodia nel secondo. E ancora Trasloco di Alessandro Fiori, che è una canzone tutta storta ma graziosa, come sa fare solo lui. Poi c’è Cara Vita, un pezzone funky di Giuse The Lizia, grande escluso da Sanremo secondo me. E arrivando a questa settimana abbiamo Open Access di montag (ex GIALLORENZO) e Lusso dei Ricche Le Mura

Dicevamo Sanremo? Beh, è arrivato anche un nuovo singolo di Elodie, intitolato Purple in the Sky: una canzone di Daft-pop (è di Mahmood la voce robottizzata? Sembra) (peraltro ti ho detto che Thomas Bangalter sta per pubblicare un disco di classica? Non c’è tempo!); dicevamo, Daft-pop dove Elodie si esibisce in un recitativo alla Lady Gaga e fa salire l’attesa per il suo album Ok. Respira: esattamente come nel 2020 Elodie arriva al Festival con un hype-single (quella volta fu Mal di testa), perché ha capito che a Sanremo devi portare un progetto, non la canzone. Onestamente, lei è l’artista da cui mi aspetto di più, nel prossimo Festival: non nel senso che vincerà, ma nel senso che prevedo un’ulteriore crescita di status importante. Ma di Sanremo parleremo ancora. Adesso chiudo, ti ricordo che i pezzi elettronici e più ballabili (tipo quello di Pablo Suzuki con Myss Keta o le cose matte che sta facendo uscire Skrillex di recente) li trovi alla fine della playlist. A presto, Louder.

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Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché