Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E04
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Pioveranno venerdì S02E04

10/17 febbraio: tu vivi il sogno erotico o vivi il digitale? Proviamo a rispondere un attimo prima della fine
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la mia voglia di parlarti dei nuovi dischi vs l’influenza

Ciao Louder,

spero che questa newsletter ti trovi meglio di come mi sono sentito io per una settimana: l’influenza mi ha ricordato di esistere e che non è simpatica, il risultato è un podcast narrato con voce suadente, come Pheobe in quella puntata di Friends.

Questa settimana, quindi, si va con l’accetta sulle uscite discografiche di venerdì scorso, visto che il venerdì nuovo è già qui dietro l’angolo. Ma qualcosa andava pur detto, dato che è uscito un potenziale aspirante ai migliori album dell’anno. Il tema, come puoi desumere dall’occhiello, è il desiderio. Ora, metti su la playlist con le nuove uscite (solo su Spotify, a questo giro, perché Apple Music sta avendo dei problemi tecnici in giro). E ricorda che tutte le canzoni archiviate finiscono qua nella playlist creativamente intitolata Archivio Louder 2023.

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Caroline Polachek, Desire, I Want To Turn Into You

In anticipo sul venerdì, il giorno di San Valentino, Caroline Polachek ha pubblicato il suo secondo album solista (il quarto se si contano anche Ramona Lisa e CEP). Desire, I Want To Turn Into You segue l’eccezionale Pang con alcune premesse simili - la collaborazione con il produttore Danny L Harle - e altre radicalmente diverse.

La geografia e l’amore, in particolare, hanno cambiato le cose: quando doveva cominciare a promuovere Pang, uscito nel 2019, ha dovuto fermare tutto per le ragioni che sappiamo. A quel punto si è trovata per un anno e mezzo di stanza a Londra con il nuovo compagno, l’artista visuale Matt Copson, e qui ha potuto da una parte lavorare ancora più a stretto contatto con Harle e dall’altra farsi prendere dalle casualità di una vita trascorsa a diverse latitudini e longitudini. Come - ad esempio - sentire durante una festa a Roma Ti sento dei Matia Bazar e lasciarsi stregare dalla voce di Antonella Ruggiero (mettiti in fila, Carolina), così da aggiungere anche questo pezzo di elettropop supremo italiano nella reference-board del nuovo lavoro. O andare in giro per rave a Barcellona con Arca.

Il risultato è che mentre il disco prima stava tornando alla luce con le prime date live di Caroline, il primo singolo Bunny Is A Rider era già fuori. Ma invece di farsi tirare giù dal passato, l’artista ha dimostrato concentrazione e intenzione fuori dal comune continuando a scrivere, incidere, produrre il suo presente. E il presente, come ho detto, era fatto di amore e di luoghi inesplorati da raggiungere, amore e proiezione: in una parola, desiderio.

Desire, I Want To Turn Into You è un trattato sull’amore, discusso in molti aspetti e con molte voci drammatiche diverse: la mancanza, il bisogno di scoprirsi, di completarsi. Non dobbiamo necessariamente interpretare ogni traccia come una voce del diario di Caroline, ma possiamo sentire chiaramente la Spagna, l’Italia, l’Inghilterra, dove preferiamo. I singoli che sono usciti prima della pubblicazione (Billions, Sunset, Blood and Butter) basterebbero da soli a farne un lavoro di grande intensità e creatività. Fortunatamente Caroline e Danny continuano a esplorare le possibilità espressive ed estetiche del pop, negli anni ‘20, rispondendo a domande che nessuno si sta ponendo. (Ed è così che si progredisce, nella storia)

Ad esempio, una domanda è: cosa fai quando nasci con un registro vocale da soprano drammatico (cioè, una particolare estensione e una capacità di arrivare alle note udite solo dai delfini con chiarezza) ma vivi nell’epoca del digitale? Caroline è dell’idea che neppure una voce celestiale debba precludersi il divertimento di diventare altro, farsi manipolare come fosse l’oggetto di un desiderio. Anche perché basta sentirla nell’opera sugli ultimi giorni di Kurt Cobain, prodotta da Harle per la Royal Opera House di Londra, per capire che non c’è bisogno di aiutini.

E allora ti gusti anche di più il gioco techno-pop-futuristico con Grimes e Dido nella traccia Fly To You, dove questa lettera d’amore-odio pronunciata attraverso un software ha il suono di uno scambio di WhatsApp. Canzone che nella sua innocenza mi fa pensare che sono passati 20 anni (venti, signore e signori) da White Flag di Dido, e questo mi corrobora un’impressione che ho sul pop occidentale più avanzato di oggi, cioè che stia cercando una strada per tornare filosoficamente agli anni Zero senza sembrare completamente cretino. Vedremo se farà in tempo, prima che qua diventi tutto k-pop. Intanto, Caroline sarà in concerto in Italia a novembre per la prossima edizione di C2C che come sempre è imperdibile e - detto da uno che di elettronica ne capisce poco, come presto avrai modo di vedere da te - la direzione meno clubbing che ha preso (da cui anche il cambio ormai consolidato del nome) mi piace.


Screaming Females, Desire Pathway

L’unica cosa che ho da dire dell’ottavo ottimo album della band guidata da Marissa Paternoster è che chiunque sia convinto che nel rock non ci sia più nulla da inventare o da dire, solo infinite variazioni, non ha mai scritto una bella canzone o un bell’arrangiamento. Il trio del New Jersey, invece, lo ha fatto anche stavolta. Serve una sorta di ottimismo di fondo per fare un disco così, l’ottimismo nel fatto che quello che canti avrà un impatto personale su qualcuno. E allora melodie e armonie che girano alla grande come in Mourning Dove, o scelte come creare un accompagnamento chitarra elettrica e violoncello per la ballad So Low, sono assolutamente più che sufficienti, anche se non si reinventa la ruota da capo. Se il “desiderio” di Caroline Polachek era un oggetto filosofico che la musica cerca di incarnare in diverse situazioni, qui il “desiderio” di Marissa Paternoster è il sentiero (pathway) che separa il desiderante dal desiderato: insomma, è quella vecchia storia per cui il percorso è esso stesso il fine del viaggio, e non la meta. E di nuovo, ci vuole un ottimismo di fondo per vedere le cose così, quando - ed è chiaro da molti testi di questo album - le cose invece non vanno sempre bene.


Avey Tare, 7s

L’anno scorso l’album Reset, del collega Panda Bear con Sonic Boom, è stato uno dei miei preferiti. L’altro Animal Collective più attivo, Avey Tare, forse non arriva a quel punto con 7s, ma questo disco così acquatico non è tutto vibes e groove psichedelico morbidoso. Prendi ad esempio Sweeper’s Grin dove l’atmosfera si raggela decisamente, e se leggi bene il testo vedi che viene direttamente messa in dubbio l’idea che circondarsi di immagini e suoni gioiosi necessariamente causi gioia. Un interrogativo che ovviamente non riguarda solo l’artista ma anche l’ascoltatore, e che prosegue in Neurons, dando in generale alla seconda metà del disco una sorta di feeling di decostruzione. Secondo me è proprio questo dubbio di fondo che lo rende un disco profondo e interessante, nel suo genere.


dEUS, How To Replace It

Un altro nome che mancava dalla copertina di un album da un decennio, i belgi dEUS sono tornati in studio (con il produttore Adam Noble, che gli aveva prodotto l’ultimo disco nel 2012), per darci un album suonato in modo francamente eccellente. Non tutte le canzoni sono hit, come il singolo 1989 che ha molta rilevanza per dare forma al percorso tematico dell’album (il passare del tempo), ma che non è tra i brani meglio riusciti, un po’ monotono. Meglio i pezzi dove le dinamiche vanno su e giù, come l’altro singolo Must Have Been New, per esempio. Il bello è proprio che possono isolare gli strumenti o la voce, senza cedere all’idea che fare rock o pop equivalga a tirare su muraglie di suoni, Dream Is A Giver è un esempio chiaro di questa sorta di minimalismo che mi sembra circondare tutte le canzoni. Come se si volesse dire che, di fronte all’inesorabile corsa dei giorni, restano davvero solo le cose importanti. La canzone Love Breaks Down dice che quando l’amore si sgretola non si sente un suono: mi pare che i dEUS vogliano dirci che anche alle parti della vita che scompaiono bisogna dare un senso, una colonna sonora. E quindi, non resta tempo per il superfluo. Comunque, il disco si lascia ascoltare benissimo, se hai più di 30 anni ancora meglio: ci sono tre quattro canzoni piacevolissime, il funk mitteleuropeo Simple Pleasures, la chitarrosa e grassa Man Of The House, e Why Think It Over che scalcia qui e là - sinceramente potrebbero finire tutte e tre in playlist, quindi vatti a risentire l’album, se ti va, perché poi si finisce con una canzone in francese e facciamo fruttare queste lezioni di francese delle scuole medie, no?


Skrillex, Quest For Fire e Don’t Get Too Close

Per farci un favore, vista tutta la roba da ascoltare, Skrillex ha deciso di tornare dopo una pausa piuttosto lunga con non uno ma due album. L’unico altro LP della carriera del producer e dj americano era di addirittura nove anni fa, ma tra EP, singoli e un po’ di collaborazioni in realtà Skrillex non si è mai fermato. Ascoltare questo Skrillex, nel 2023, non è come ascoltare Skrillex nel 2013: anche a un inesperto di elettronica e dance come me questo disco pare subito un lavoro incredibilmente eclettico, dove diversi modi di colorare le melodie e stendere il sound design prende da diverse incarnazioni house e 2-step, con alcune minime concessioni a stili che sono un po’ figli di Skrillex, come l’hyperpop. Io del primo disco, Quest For Fire, ho selezionato la traccia creata con Four Tet e la rapper Starrah, ma ci trovi tantissima gente che porta i suoi istinti musicali dentro il mix: Jamie XX e Fred Again con i rispettivi punti di vista della dance, Swae Lee con un po’ di trap melodica, Flowdan con un po’ di grime e la cantante e flautista palestinese Nai Barghouti che contribuisce a portare il disco in una direzione ancora diversa. Oppure Missy Elliott e Mr. Oizo in una traccia che conta anche Paul Simon tra gli autori. A questo proposito, il sampling è sicuramente vastissimo ma anche autoreferenziale: nella bella Good Space sempre con Starrah ci sono ad esempio diversi elementi (in particolare la melodia strumentale) di una produzione che Skrillex aveva realizzato nel 2019 per la cantante j-pop Utada Hikaru. E nello stesso disco la prima traccia Leave Me Like This viene campionata nell’ultima traccia Still Here, uno dei momenti più alti del disco a mio avviso.

Poi arriva il secondo album, Don’t Get Too Close che in qualche modo vuole essere il riflesso opposto e speculare di Quest For Fire, iniziando con Don’t Leave Me Like This. Sabato sera, al Madison Square Garden, Skrillex insieme con Four Tet e Fred Again ha pubblicato a sorpresa questo disco, che contiene in realtà brani che erano usciti come singoli nei mesi scorsi (addirittura Don’t Go con Justin Bieber è del 2021), e che non erano inclusi nel disco uscito il giorno prima: ad esempio Way Back con PinkPantheress e Trippie Redd che avevo inserito nel New Music Louder quando uscì, ma pure la title-track che era stata pubblicata appena pochi giorni fa. Ma del resto il musicista aveva annunciato che sarebbero arrivati due dischi, semplicemente non ci si aspettava che il secondo uscisse un giorno dopo il primo. Comunque sia, la sensazione è che il primo album sia più attivo e il secondo più passivo, il primo più eroico/tragico e il secondo più lirico/elegiaco, e che Don’t Get Too Close sia fatto più di canzoni, per così dire, e con ispirazioni adiacenti al linguaggio del mainstream attuale, o almeno delle sue punte avanzate, tra trap melodica e hyperpop (Real Spring con Bladee per fare un esempio, o Summertime dove Kid Cudi sembra un cloud rapper). Chiaramente i due lavori contengono idee e spunti raccolti per anni e adesso riuniti a seconda della coerenza di tono e di tema, e per questo contengono molte voci simili. Su tutte Bibi Bourelly, presente in molte tracce di entrambi gli LP, con la sua voce che ha questo timbro che la fa sembrare una signora o una bambina (ah, è anche una grande autrice: a lei dobbiamo Bitch Better Have My Money di Rihanna). E questo, insieme con gli autocampionamenti, serve a dirci che Skrillex ha messo un pezzo di sé in questa doppia release. In ogni caso, la legge di Louder dice che i pezzi da ballare stanno alla fine della playlist, quindi troverai un pezzo su e un pezzo giù, ma non pensare che siano giudizi di gusto.

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Gli altri album, in breve

Come hai potuto vedere, non ho parlato approfonditamente degli album degli artisti italiani, quelli in sostanza che erano andati al Festival di Sanremo. Queste tre parole che ho appena messo in fila dovrebbero spiegare da sole perché non ho ritenuto necessario approfondire.

In brevissimo dirò che: l’album di Ultimo, Alba, è faticosissimo da ascoltare fino in fondo, ma se riesci a portarti dietro un popolo di ascoltatori anche ballata al piano dopo ballata al piano, “more power to you”; Opera Futura di Levante è enigmatico come il suo brano sanremese, pieno di promessa che non sempre si avvera, ma ha alcuni pezzi con l’emozione a mille tipo Invincibile che saranno belli da urlare ai concerti; Blu di Giorgia è il migliore dei tre, sia nei pezzi più dichiaratamente 90s sia nei pezzi più gggiovani, come Atacama, e ti viene pure da sorridere a pensare che Giorgia Todrani canti di canne, ma poi capisci che stai peccando di ageismo, ti metti ad ascoltare meglio, e alla fine proprio quelle ti sembrano le tracce migliori.

Venerdì scorso è uscito anche un bell’album un po’ rap un po’ no, Morning Due di Nappy Nina, un disco che - come lo descrive la stessa MC californiana ma di base a Broooklyn - prende in considerazione il lutto e cosa dobbiamo a chi. Mi piacerebbe sentirla scambiarsi rime con Little Simz.

Un altro disco in quella terra di mezzo lì è Glow di Wesley Joseph, artista britannico, è R&B contemplativo che a tratti sembra una versione londinese di Frank Ocean, e poi diventa interessante quando si abbandona agli influssi sonori e ritmici dell’elettronica e del rap locali. In questo senso I JUST KNOW HIGHS è uno dei pezzi più interessanti, ma per non fartelo skippare ho messo in playlist la title track, che è più posata e larga e con meno autotune, che poi so che ti pigli male.

Fermi un attimo, e dove sono le chitarre? Ce le hanno tutte i Pile, che hanno pubblicato l’album All Fiction. Al riguardo ti chiedo: quand’è stata l’ultima volta che hai sentito un disco dove si parla di sputare dentro l’abisso? Ecco, questo disco è come la parte finale del salto con l’asta: fa paura, ma in fondo c’è un materasso.

A proposito di chitarre, anche i Pigs Pigs Pigs Pigs etc ne hanno parecchie. Land Of Sleeper non cambierà la storia, ma a me fa sempre piacere sentire lo stoner con l’accento del nord dell’Inghilterra, mi sembra la parlata giusta per il tono greve di di quella musica, mica le vocali strascicate dei californiani, dai. E a proposito di chitarre grevi, ma anche con un bel po’ di presa male sulla vita, è uscito Carne ossa dei Marrano di cui ti avevamo già consigliato una traccia in passato, Ecomostro.

Sono usciti anche due EP: uno della fenomena social di casa Maciste Dischi chiamata FAIAH, Nemmeno per sogno, che di fatto sono due nuove tracce in aggiunta ai singoli già pubblicati nell’ultimo paio d’anni, simpatica; l’altro è No Shake, No Feels di Starving Pets, ovvero Andrea Fassano già dei Farmer Sea, che è minimale, ruvido e spaccacuore - in playlist ho messo la più stringata We Can Sleep ma qui ti lascio la traccia di apertura.

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I singoli

La scorsa settimana abbiamo avuto il ritorno di Feist, che ha pubblicato tre brani dall’album Multitudes che uscirà ad aprile: a quanto si è appreso, sarà un album post-crisi, scritto dopo la maternità e la morte del padre, e che fa i conti con la scoperta del vero valore dei rapporti. Anche Multitude di Stromae l’avevamo definito un disco post-crisi, e parlava di questo. Che caso… forse la musica pop sta arrivando alla comprensione che siamo tanti, ciascuno con le sue storie e le sue emozioni… Come dei cani sciolti, che è poi il titolo dell’album di Francesca Michielin che uscirà domani. A quanto ho colto, anch’esso è un disco post-crisi, e ci sta tutto. Comunque Francesca ha pubblicato una canzone che ha scritto, prodotto e interpretato con un grande gusto, intitolata un bosco: ha un ritornello sad rock molto bello e mi fa venir voglia di prevedere un discone.

Segnalo qualche altro singolo prima che finisca il tempo. Il ritorno di Janelle Monáe, con un brano scivolosissimo con Seun Kuti e Egypt 80, che è anche la prima musica originale e non legata a colonne sonore che pubblica da anni, anni che ha speso lavorando sulla sua invidiabile carriera da attrice: c’è un verso in cui dice “è difficile guardare al mio curriculum e non trovare una ragione per brindare”, ma se l’avesse detto uno dei nostri rapper milanesi ci sarebbe sembrato di cattivo gusto. Perché Janelle è effortless, e lo è come non lo è mai stata, forse: allora i soldi fanno la felicità!

Oppure no, perché alla fine per quanto tu possa avere successo a un certo punto la gente ti farà a pezzi, ti dirà “Ma come sei vestita!”, ti darà della puttana, finché non vivrai nelle fantasie degli altri, non più quelle sessuali ma quelle mortali: questo è un po’ il senso di A&W di Lana Del Rey, che è forse uno dei suoi pezzi più intensi e interessanti di sempre, anche per come suona pugnace con quei bassi 808 immersi nello scheletro di una ballad psichedelica. Maledetto Jack Antonoff, ci hai fregato un’altra volta.

A proposito, ti segnalo e ti consiglio di leggere l’intervista che Billie Eilish ha fatto a Lana Del Rey, anche se sarebbe meglio definirlo un monologo dal momento che fra le cose anche interessanti che dice Lana puoi leggere ficcanti osservazioni di Billie del calibro di “wow”, “dude”, “yeah”. (Forse il genere letterario artisti-intervistano-artisti merita una pausa di riflessione? Forse)

Prima di andare via, una menzione d’onore alla bella ballad triste di Leo Pari, Giorni no (mi ci sono immedesimato questa settimana di tossi e catarri); il doppio singolo dei Dry Cleaning, di cui ho scelto Swampy; il primo singolo da un po’ di beabadoobee, Glue Song; e ancora Kae Tempest, il sempre magico serpentwithfeet; e insomma tutto quello che trovate nella playlist. Non è che la compilo con tutto quello che esce, e spero si senta.

E già che stiamo chiudendo con una lettura, eccone un’altra: l’incredibile, pazzesca, assurda storia di come i Live (una band nu metal di media-alta fama) si sono disintegrati per beghe interne, truffe, processi di molestie. Ne ha scritto Rolling Stone in America, ed è un affresco di come le relazioni umane di una vita si sgretolano e lasciano spazio a odi ancora più profondi, e quindi una piccola spiegazione del perché non esistono più band, o quasi. E non c’entra solo lo streaming.

Quindi, alla fine, vivi il sogno erotico o vivi il digitale? Forse non bisogna per forza scegliere tra i due, e la playlist di questa settimana non ci dona una risposta definitiva. Io ci penso su un altro po’ mentre vado a riposarmi per 20 minuti, faccio un aerosol e poi ricomincio ad ascoltare nuova musica, che è già piovuto un nuovo venerdì. Ci sentiamo sabato (o domenica) con le uscite di domani.

Ciao Louder

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Louder
Pioveranno venerdì
Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché