Pioveranno venerdì S02E15: anime buone, brutte persone
29 aprile - 5 maggio: puntata di coppie con Fred Again e Brian Eno, billy woods e Kenny Segal, Zef e Marz, i gemelli Cloth, i fratelli Lemon Twigs, e un sacco di regaz
Ciao Louder,
Questa settimana speravo di essere più rapido nel tirare fuori Pioveranno venerdì, e soprattutto di tornare a recitarlo per voi nel podcast: dimenticavo Eurovision Song Contest. Il che vuol dire che non solo questo episodio è di nuovo soltanto scritto e non letto, ma è più corto del solito - so che non ti dispiacerà, ma parliamo di righe non paragrafi. Quindi facciamo così: metti su la playlist che con una certa fatica sono riuscito ad assemblare nonostante nella mia testa risuoni solo Cha cha cha da dieci giorni, metti like a questo post in modo preventivo e poi leggilo.
Ricordati che la trovi su Spotify e su Apple Music, dove potresti incappare anche negli archivi dentro i quali - come un folle - conservo TUTTO quello che ti ho consigliato di ascoltare dall’inizio dell’anno (anche Archivio Louder 2023 sta su Spotify e su Apple Music). Andiamo, ché ci sono altre 16 canzoni di Eurovision da commentare per stasera.
Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 35 album, 7 EP e 74 singoli
Fred Again e Brian Eno, Secret Life
Brian Eno conosce Frederick Gibson (cioè Fred Again) da quando questo ha 15 anni: nel 2014 un giovanissimo Fred entrava in un coro che faceva base nel suo studio. Da quel momento è iniziato un rapporto mentore-allievo: Gibson ha imparato la musica da Eno (mica male) che lo ha introdotto in particolare al contemporaneo; Eno ha fatto scrivere al giovane alcune tracce dei suoi progetti Someday World e High Life.
Come passarsi tra le dita questo aneddoto, così spulciare i crediti di scrittura e produzione di Secret Life apre mondi e storie: intravedi quella “vita vera” che Gibson ha preso in esame in tutti i suoi lavori solisti. Ma questa volta devi leggerci dentro di sbieco, carpirne segreti che non sono rivelati. Allora vedrai che Cmon è scritta e prodotta tra gli altri dal solito Aaron Dessner, ma tra le firme troviamo anche una compositrice italiana di base a Londra, Teresa Origone (“c’è un po’ di Italia”). La ragione è che auto-campiona Lydia (Please Make It Better) dal primo disco Actual Life, che a sua volta campionava la canzone Hjem (Please Make It Better) del duo Bad Honey - peraltro molto bella. E ti si aprono scene di South London, gente bella, creativa, ma presa male come te.
Non c’è solo quello, naturalmente, ci sono anche le conoscenze fatte in giro per il mondo, altre sintonie artistiche non meno sincere solo perché globali. E allora ecco la firma e la produzione di Buddy Ross nella spettrale e lancinante Enough, con l’eco onirica di tastiera arpeggiata lynchiana non casualmente alla Blonde di Frank Ocean. Ma questo non è un disco di lustro: è un disco opaco, nel quale siamo invitati a indagare non l’origine ma la qualità del dolore che, a detta di Fred, è alla base del disco. Io il dolore lo sento nel conflitto tra due stili che non sono proprio coerenti fra loro: le pennellate impressionistiche di Eno, gli arazzi iperrealisti di Gibson talvolta faticano a convivere. Questa tensione si sente, anche in un disco così etereo. Ma qualche volta la sintesi c’è: come in Trying; o in quella specie di soul-folk con parole prese in prestito da Leonard Cohen e da Sharon Robinson (In My Secret Life) che è la quasi-title-track Secret. Lì sta il nucleo emotivo del disco, la storia di un trauma che ci teniamo dentro, ma dal quale finalmente ci sentiamo pronti ad allontanarci.
Gli altri album, in breve
Vediamo di non sforare il limite di lunghezza delle mail questa volta, ok?
Nel loro capolavoro del 2007 con gli Eterea Post Bong Band, La chiave del 20, gli Uochi Toki professano la seguente dichiarazione d’intenti pronunciata dalla voce stridula di Napo: “Faccio rap che viene dalle strade, soprattutto da quelle per andare nei posti e per tornare nelle case”. Ci ho ripensato leggendo la presentazione che billy woods e Kenny Segal hanno affidato al mondo del loro secondo album in tandem, Maps, dichiarazione geografica fin dal titolo: “una storia delle strade prese e non prese; di vivere un sogno e sognare un’altra vita; un album sulla ricerca di una strada verso casa, ovunque essa sia”. Dopo lo strepitoso Hiding Places del 2019, queste due figure leggendarie del rap underground americano avevano espresso l’intenzione di non ripetersi. E ci riescono prima di tutto nello storytelling, che per quanto mantenga il surrealismo di woods, ne accentua anche il carattere politico e rivoluzionario: nei flow roventi del rapper di base a Brooklyn marciano le folle di chi trova ingiusto questo mondo, un popolo che può accontentarsi al massimo di vittorie di Pirro, come quelle menzionate nell’amaro ritornello di Soundcheck. Ma forse i beat di Kenny Segal sono ancora più decisi a non ripetersi: in Hiding Places il produttore di Los Angeles costruiva castelli cadenti e scenari impossibili, mentre in Maps si misura in special modo (ma non esclusivamente) con il crate-digging di jazz, funk e R&B, dandoci almeno sulla carta un boom bap più familiare. Poi, se vai a vedere bene, trovi bebop impazzito dappertutto, come la batteria di Blue Smoke, il sax melmoso di Bad Dreams, il pianoforte sdentato di The Layover. Segal non riesce a non aprire portali interdimensionali: senti come vola Year Zero con Danny Brown, o come le chitarre balbuzienti di Houdini fluttuano in microgravità. Maps è un disco sempre in movimento, talvolta in fuga come il succitato maestro escapista, ma più spesso alla ricerca di qualcosa. Una casa, come dicevamo: tutto converge in un pezzo cinematografico, NYC Tapwater, una descrizione della New York di woods, minacciata dalla gentrificazione, dalla sorveglianza, dalla polizia, ma che non si può smettere di amare. In playlist troverai Year Zero, perché raffigura meglio l’incazzatura del billy ribelle, quello che in Babylon Bus - tanto per fare un dispetto - fa rimare “undici settembre” (9/11) con “V.I. Lenin”. Maestro.
Il secondo album degli scozzesi Cloth, Secret Measure, è il primo (dopo un EP dell’anno scorso) a uscire per l'etichetta dei Mogwai, Rock Action, il che dovrebbe bastare come garanzia di qualità. Dal momento che chi pubblica cosa non lo guarda più nessuno, te lo dico io che l’ho ascoltato per te: è un eccellente disco. Suona freddo, ventoso, solitario e levigato come il cemento delle strade di Glasgow - se ti è capitato di andarci, sai cosa intendo: e questi spazi deserti e postmoderni sono infestati da uno spettro che ha la voce di Rachael Swinton e le ossa di Paul Swinton. E però non è un disco da - metaforicamente parlando - cagarsi addosso: specie in tracce come Ladder e Ambulance, puoi sentire le pulsazioni di un cuore vivo. E sapere che questo tipo di rock elegiaco, questa parsimonia di informazioni non implicano povertà di idee o di emozioni è una gran cosa. Approfitto di questo elogio dei gemelli Swinton per parlare rapidamente di una coppia di fratelli, cioè i D’Addario che rispondono al nome The Lemon Twigs: il loro quarto LP si intitola Everything Harmony ed è retrò come ci si può aspettare da loro, ma con qualche ingrediente in più (tipo il jangle pop del già consigliato singolo In My Head) e soprattutto con un messaggio emozionale che si allinea perfettamente alla loro nostalgia: la disperazione totale, la convinzione che la propria vita faccia schifo e che, ammesso sia esistita un’età dell’oro, non possiamo farvi ritorno mai. Non un disco strepitoso, ma un perfetto esempio per dimostrare a qualcuno che il barocco non è pura superficie. Il che è abbastanza straordinario dato che Everything Harmony riesce a essere contemporaneamente barocco e beige (beigeocco?).
Se cerchi un disco di groove ma sottilmente disperato, Fase Luna fa per te. LA Priest era stato ampiamente paragonato a David Byrne già in molte recensioni del suo disco 2020, GENE: questo album fa pochissimo per smentire quel confronto. Anche se nella musica dell’ex Late of the Pier c’è sempre una vena psichedelica e chill (Misty) e un approccio compositivo in progress quasi da jam session (nota quanti pezzi cominciano con l’accordo che dà la tonalità, appena strimpellato, come a dare letteralmente il La alla band), e tutto ciò compensa l’ansia urbana di un Byrne, anche se poi porta in direzioni molto simili: funk psicanalitico; post-modernismo; fuga dall’occidente, che qui si manifesta fortissima nell’afrobeat liquido di Neon. Il pezzo migliore l’ho già inserito in playlist, è It’s You, ma tutto il disco è consigliatissimo, specie per stendersi su un prato.
Un disco che aveva un discreto hype prima dell’uscita è THE RAT ROAD di SBTRKT, che riporta sul mercato il produttore e musicista inglese Aaron Jerome dopo sette anni di assenza e al termine di un processo di svelamento della propria identità cominciato appena prima dell’arrivo del secondo album e che in questo terzo LP è diventato esplicito: senza più la maschera, SBTRKT vuole mostrarsi per quello che è, una persona di origine sud-asiatica che vive e lavora in un Paese dove la retorica contro gli immigrati sta toccando il parossismo. Perfino un artista non politico, tutto vibe come SBTRKT capisce che la musica può segnalare qualcosa in più che non un semplice passatempo. THE RAT ROAD è una celebrazione dell’unicità e delle differenze: ti sfido a trovare un suono di synth o di batteria che si ripeta esattamente nelle 22 canzoni del disco. La ricerca maniacale è parte della ragione per cui l’album arriva dopo tanto tempo - l’artista ha detto che avrebbe scritto 1500 tracce e che ne ha mandate 400 all’etichetta, ma ha optato sulle definitive solo dopo averle allevate a lungo affinché crescessero e si manifestassero nella loro freschezza. Ovviamente, ci sono anche suoni familiari: come la voce di Sampha, immancabile collaboratore di SBTRKT. Ma buona parte delle tracce cerca invece il non-familiare, le svolte improvvise, i segmenti non perfettamente allineati tra loro: in una parola, la sorpresa. Questo può rendere l’ascolto anche faticoso, a volte, quasi come se SBTRKT parlasse più la lingua dei produttori che non degli ascoltatori. Fortunatamente, incappa un paio di pezzoni sospesi di R&B elettronico con voci nuove, come l’emergente LEILAH, che fa dono del suo bel timbro caldo in alcune delle tracce migliori: tipo LIMITLESS e NO INTENTION. Tra le voci c’è anche Anna of the North, che cito perché la scorsa settimana non ho avuto modo di parlare dell’edizione deluxe del suo disco, sul quale potresti fare un giro non appena hai finito con SBTRKT e gli altri consigli di questa settimana.
Cambiando totalmente genere, e restando tra i dischi ai quali vale la pena prestare orecchio, c’è l’omonimo album di Greg Mendez cantautore di Philadelphia che ti piacerà se hai frequentato spesso le ballad desolate eppur geniali di Elliott Smith e Alex G. Trattandosi di un disco fondamentalmente inciso con una voce e una chitarra elettrica gentile o un’acustica, saltuariamente accompagnata da una batteria spazzolata, non c’è moltissimo da dire sul suono e l’arrangiamento. La fugace Sweetie, che invece si trascina in avanti con un organetto, è il brano che spicca tra gli altri, in questo senso, ma se ascolti un disco di questo genere per provare matte esperienze uditive, sei nel posto sbagliato. Si può dire però che le progressioni armoniche, le sezioni dei pezzi e le melodie sono di ottima qualità: cioè, non farai troppo caso ai quattro accordi che girano in loop. A questo, se sei familiare con l’inglese, si aggiunge il fatto che lo storytelling autobiografico è preciso e succinto, chiaramente frutto di un lavoro di editing che questa newsletter non può permettersi; e che le storie di alienazione ti prendono a calci il fegato, specie quando vedi chiaramente il ritratto di un percorso di redenzione dalla tossicodipendenza. Clearer (Picture Of You) e le già consigliate Maria e Best Behavior sono forse le canzoni che ti lasceranno di più in ginocchio, se sei come me. In playlist a questo giro ti ritrovi allora Cop Caller, che descrive in sette versi una scena notturna che potrebbe parlare di gente che si ama o che si buca, e non saresti in grado di dirlo, e non importa. E visto che parliamo di dischi piccolini e poco popolari, ti segnalo anche Anything Can Be Left Behind di Michael Cormier-O’Leary, che è una delizia di indie rock spesso poppettoso e molto DIY. Ti avevo già consigliato un paio di tracce (nella solita playlist Archivio), tra cui la caotica e rumorosa Obtain, ma se ascolti la prima traccia Here Comes Spring ti farai più l’idea di come sia il disco.
Un disco altrettanto intimo, ma più rilevante per la nostra epoca, è An Inbuilt Fault di Westerman. William Westerman (inglese che da qualche tempo vive ad Atene) ha scritto le canzoni in piena pandemia, e questo mi offre l’occasione di fare caso a quanti dischi stiano uscendo - finalmente belli e non instant cioè pacco - che sono frutto dei lockdown, dell’isolamento, del terrore: lo avrai notato anche con Fuse degli EBTG. In particolare, è come se questo disco rispondesse all’affermazione “ne usciremo migliori”, che ci siamo ripetuti come un mantra finché non ha acquisito un’inquietante cadenza interrogativa: non possiamo uscirne migliori, perché siamo pieni di falle che ci rendono quello che siamo. Anzi, l’ossessione per l’efficienza e la perfezione e la performatività sta inquinando le conversazioni digitali e la sfera sociale ma anche gli spazi creativi. Anche per questo, nella produzione e nel suono (merito almeno in parte, peraltro, della solita bravissima Marta Salogni, che ha mixato e non solo l’album) si sente il bisogno di prendere il folk cubista di Westerman e renderlo tattile, concreto, dargli ossigeno: senti ad esempio le percussioni di CSI: Petralona, ambientata nell’omonimo quartiere di Atene, che - perdona il paradosso - fanno di tutto per stare fuori tempo a tempo, cioè anticipano di millisecondi il metronomo, dando l’impressione che si ha quando si va a fare un giro fuori casa senza troppe pretese. Oppure ascolta il basso di Take, di cui puoi sentire le dita, le corde stoppate. O ancora, la title track, che nella sua cascata disordinata di strumenti ha qualcosa della vulnerabilità di Bon Iver. Un lavoro simile c’è in A Lens Turning, ma con batterie programmate, il che produce un groove byrniano irresistibile, per cui te la inserisco in playlist. Già l’anno scorso (vedi su Spotify l'Archivio Louder 2022 se non ci credi) ti avevo consigliato la bellissima, tragica, barcollante Idol; RE-run, la cosa più vicina a quello che Nick Drake potrebbe suonare nel 21esimo secolo: ma questo era già quel che si diceva di Westerman prima del 2020. Il resto del disco è andato oltre, e ci abbiamo guadagnato tutti.
Non parlerò del disco - (Subtract) di Ed Sheeran perché, nonostante sia felice che la causa ridicola contro di lui sia andata a buon fine, non dimentico cosa ha detto della critica musicale: che non serve più a nulla. Ok, grazie eh. La prossima volta che mi chiedi una powerbank non te la presterò (sì, mi è successa questa cosa, vabbè). Comunque Curtains non è malissimo, forse è l’unico pezzo in cui si sente davvero ‘sta famigerata mano di Aaron Dessner. Ciao eh.
Passiamo a un paio di dischi rap, aumentiamo il passo altrimenti non finiamo più. Il primo è F65 di IDK, che sinceramente mi sembra tutto quello che si possa cercare in un album hip-hop in linea con le estetiche contemporanee, ma prodotto principalmente dallo stesso IDK con desiderio di sorprendere, omaggiando il jazz in ogni singola traccia, ma facendo da ponte con la trap nelle metriche, nei sample, nei drum beat. Ci sono pezzi che sono praticamente ballate jazz pure e semplici, come la già segnalata Mr Police, ma preferisco quando i linguaggi si mescolano: tipo l’ultimissimo singolo Up The Score con un’ottima strofa di Benny The Butcher, o la canzone che ti segnalo in playlist, Télé Coleur. Un altro disco rap consigliatissimo è Many Other Realities Exist Simultaneously degli Atmosphere, aperto da una traccia (Okay, già segnalata nelle scorse settimane, ovviamente) che ti farà venire un sorriso largo così ogni volta che ne avrai bisogno. Il gruppo di Minneapolis è tutt’altro che in erba (sono in giro dalla metà degli anni ‘90), e questo si sente, anche nei riferimenti indie rock contenuti in un pezzo come Dotted Lines, o in alcuni boom bap e flow semplicistici: però poi arriva It Happened Last Morning che suona come quello di cui parla, un attacco di panico, e capisci che un’ora da dedicare a questo disco puoi trovarla. Non potrei chiudere questo paragrafo senza citare Won’t He Do It di Conway The Machine, il suo primo disco dopo l’uscita da Griselda Records, considerata “the shit” da chi si intende di rap più di me e usa espressioni tipo “the shit” (cioè una cosa figa). Ho trovato irresistibili pezzi come Brucifix con il fratellastro Westside Gunn o Brooklyn Chop House con il cugino Benny The Butcher, anche per questi beat che non partono mai, scelta che non possono non considerare una forma di critica obliqua al rap che non è più rap, per via della sua ossessione con la forma canzone. Dall’altra parte c’è un pezzo che è un vero enigma, Kanye, che da una parte fa la parodia dei beat e dell’ermetismo dell’ultimo Kanye, e dall’altra è cantato da un artista che ha partecipato a Donda: non so, mi sembra un modo per prendere e non prendere contemporaneamente una posizione. Il disco comunque ha dei momenti esilaranti e delle rime geniali, come nella mezza parodia di Jay-Z Monogram con questo verso “I wanna sell cocaine foreveeeer” che per qualche ragione mi piega in due, e per questo ho messo in playlist.
Passiamo a qualche segnalazione di elettronica. Spalarkle di felicita è un album da perderci il lume della ragione, come quasi tutta la roba del giro PC Music, dopotutto: per intenderci, uno dei singoli di lancio era una canzone con i Kero Kero Bonito incentrato su una gallina che fa coccodè. Tra atti sessuali (consensuali) con un anemone, campane che suonano sott’acqua, canti operistici e alcune vigorose inversioni di senso di marcia, come quando in mezzo alla stupidera parte la lamentosa Resistance, più che un disco pare un buffet post-post-moderno. Abbastanza fuori dall'ordinario anche Germ in a Population of Buildings dell'olandese upsammy - che peraltro suonerà al prossimo festival Terraforma: è un disco giocoso ma meditativo, pieno dei rumori di una natura popolata da strane macchine aliene, e quindi è indirettamente una riflessione sullo spazio che popoliamo, naturale o innaturale a seconda dei punti di vista. Ti consiglio una traccia che si intitola Patterning e sono piuttosto sicuro campioni il meme-audio “wow” (che, se provi ad ascoltare qui, ti accorgerai di conoscere bene). Chiudo con una segnalazione italiana, ovvero Anal House di Pop_X che è un disco capace di essere incredibilmente in linea con l’umorismo e il nonsense di Davide Panizza, ma anche a essere un esperimento: si tratta infatti di (cito dal comunicato) “una raccolta di session di improvvisazione sul software MAX/DSP, modulo di progettazione grafico/musicale basato sulla creazione di pattern”. Al nostro orecchio arrivano da una parte strumentali perfettamente house (cassa in quarti, tastiere vaporose, bassi larghi), totalmente in linea con le aspettative perché appunto create in modo artificiale; dall’altra sentiamo queste liriche cretine e viscerali, che ruotano continuamente intorno al culo. Il che - a parte far ridere uno scemo come me - è in realtà un bel clash intellettuale: ok, le macchine possono fare tutto, ma l’inconscio umano è un rompicapo freudiano che spezza ogni ambizione futuristica di questa prospettiva, e lo fa con la proverbiale delicatezza di un bambino molesto che spacca un giocattolo. Difficile da ascoltare, a suo modo insopportabile, ma geniale.
Anche tu non ce la stai più facendo, in generale, e non ti senti troppo ottimista? Allora Stupido Sexy Futuro de Lo Stato Sociale è il disco per te. Al primo ascolto del nuovo disco dei regaz ho pensato due cose: suona benissimo, nel senso proprio che ha dei bei suoni e un bel mix (complimenti a Sollo dei Gazebo Penguins che ha lavorato su tante tracce); la band non ha più cazzi di tenersi dentro le cose, quindi mette tutto sul tavolo, il personale e il politico. La musica degli sfigati, che dichiara (con l’aiuto dei Management) quel che sono e quel che non sono, è l’introduzione ideale di un lavoro che ci ha messo tanti anni per uscire, ma che come una lunga terapia ha visto sbucare dall’altra parte cinque uomini più consapevoli di quello che sanno fare e quel che no. Se c’è una lezione da apprendere da questo disco è che solcare delle linee per terra, essere brutali, lottare e protestare non sono sinonimi di una vita infelice, al contrario: sono i segnali di chi vuole ancora lottare. Di chi crede che il futuro migliore te lo costruisci. Accettando le imperfezioni, non come eroi: “anime buone, brutte persone” dice Senza di noi, canzone che secondo me racchiude in un pugno e stringe forte le arterie intimiste e sociali di questo album. Aggiungiamo che alcune strumentali sono tra le migliori da anni, almeno per i miei gusti: tipo i synth e le drum machine di Pompa il debito, che ti schiaffeggiano. Per queste ragioni Stupido Sexy Futuro mi sembra uno dei dischi più onesti usciti questa settimana: mi ricorda quel che aiutò la band ad affermarsi in un'epoca di poser che non è ancora finita: la genuinità, la voglia di ascoltare e farsi ascoltare, la voglia di stare insieme. Mica le vecchie che ballano.
Altro giro, altro stupido. Stupido amore si potrebbe definire come il primo album pop di Mecna, che ha in effetti lanciato il progetto con un singolo aperto e cantabile come Mille voci feat. Drast. Io ho un debole per la sua voce da nato stanco e nato triste, ma a mio avviso nel suo percorso mancava proprio quello che ha provato ad aggiungere in questo giro: misurarsi con il suono di una band, in un album. La melodia e l’intimismo fanno parte della musica dell’artista pugliese da un decennio, e l’accelerazione verso l’R&B è aumentata con Mentre nessuno guarda. Ma Stupido amore ha due cose in più: è conciso ed è organico, meno Drake e più Tyler. E il risultato è eccellente: le strumentali sono più piene e sfumate, con il vantaggio di esaltare le malinconie del timbro di Corrado (qui direi sempre al naturale) e la ricchezza della sua scrittura. Ci vuole talento, cultura e intelligenza per stilare decine e decine di liriche sull’amore senza ripetersi e annoiare, e il rapper ci riesce facendo quello che molti suoi colleghi evitano: indagare la quotidianità senza considerare inutile nessun dettaglio; riflettere sul peso specifico delle immagini, senza lanciarle a caso; confrontarsi con temi tabù, come la paura della morte. Per questo Mecna piace anche a chi ascolta il cantautorato indie italiano, di norma, nonostante le sue fonti siano ben altre: se non pensi alla citazione di Neffa e al groove soul, Ciò che splende sarebbe un’ottima base di partenza per una canzone di un Dente o un Galeffi. Non a caso questa canzone te l’avevo già consigliata, e la trovi nell’Archivio. Nella playlist nuova invece trovi L’odio, altro esempio perfetto di quel che dicevo sulla scrittura di Mecna: trattare di amore, parlando del contrario. Un disco prezioso, con eccellenti accompagnamenti (Oceano Adriatico) e per chi non ne può più di “rap performanti”.
Devo citare anche l’EP N130A di Nava, l'artista persiana cresciuta a Milano che ti consigliamo da anni: sono cinque tracce industrial, tribali, terrificanti che sembrano provenire da feste segrete che non sono abbastanza cool per frequentare. Il punto è che ti ho consigliato talmente tanto spesso le sue canzoni, che nell’Archivio Louder trovi già metà di questo disco. In pratica mi restava da mettere in playlist solo Night Sun, che incidentalmente è un pezzone con questo ethos post-punk che aggiunge un ulteriore colore (nero) nella tavolozza di questo EP oscuro, pericoloso, vibrante.
Il 5 maggio è uscito anche il primo album solista di Federico Dragogna, intitolato Dove nascere: non aspettarti un disco dei Ministri, ma la voglia di mettersi di traverso rispetto al flusso mainstream (non tanto sonoro tout court, quanto culturale in generale) è la stessa. La canzone che dà il titolo all’album parla di migrazione, Lavorare è il mio secondo lavoro forse è quello di cui potresti riconoscere il profilo se solo alzassi il gain e pestassi la batteria. Ma è giusto che non sia un disco dei Ministri-però-pop, ma tutt’altra roba. E secondo me l’altra roba viene bene quando sta lontano dai cliché della canzone itpop, che qui e là (Spugna) fanno capolino: un esempio ottimo, ed è la canzone che metto in playlist, è Cascate, così anni ‘80 in una maniera che non è per nulla di moda, e quindi adorabile.
Chiudendo con l’Italia, se cerchi un disco indie-pop con tutte le cose giuste, i bassi bouncy, gli accordi di settima, le voci nasali, c'è ENI di La musica di FORTE che ha un paio di pezzi che spingono e strappano in modo inaspettato per questo genere. Tipo Tastiera. Se invece cerchi qualcosa che suoni come l’entropia dell’universo, c’è Gentile di Angelo Kras, uscita marchiata thru collected che naturalmente suona come il pop di un futuro prossimo venturo. Se l’autotune non fa per te, salta pure, ma in questo bisogno di dialogo che esprimono questi brani quasi sempre rivolti a un tu, in questa disintegrazione del suono e del significato, c’è un messaggio profondo sulla nostra difficoltà a comprendere non il futuro, ma il presente, al quale dobbiamo per forza opporre “come facevamo le cose noi”.
Finiamo con il k-pop e in partiolare con LE SSERAFIM e UNFORGIVEN, il primo LP del quintetto fondato da Source, sottolabel di HYBE (già Big Hit), cioè l’agenzia-corazzata che ha fatto ufficialmente sfondare il k-pop in occidente con i BTS. Attualmente viene gestita da Source e YG Plus, compagnia che vede insieme la solita HYBE e YG Entertainment, storica agenzia fondata nel 1996 ai primordi della wave coreana e attuale casa delle Blackpink. Ma la forza di questo progetto non è tanto nei nomi alle spalle, quanto nella versatilità delle cinque ragazze e del team di produttori e autori con cui lavorano: la loro musica ha contorni ruvidi e industriali, spesso di ispirazione house e techno; i loro testi attingono da un immaginario fiabesco perverso (nel disco attuale c’è una canzone sull’empowerment femminile che fa riferimento ai miti di Eva, Amore e Psiche e Barbablu). L’album è aperto da una selezione di brani dai due EP Fearless (il nome della band è un anagramma della frase “I’m fearless”) e Antifragile usciti nel 2022: in questo modo potrai fare l’esperienza straniante di entrare nel mondo di questa band ascoltando quella specie di incubo paranoico sintetico che è The World Is My Oyster, peraltro titolo della docu-serie in cui raccontano la loro genesi (madonna come integrano bene i coreani). Ma le ultime tracce, quelle inedite, contengono tutto e il loro contrario. La title-track UNFORGIVEN ha un featuring di Nile Rodgers e un sample di Morricone, ma a malapena si percepiscono: idiozia o flexata finale? Burn The Bridge è uno spoken word balearico e inquietante. No-Return è un electropop frizzantino con tanto di sassofono, che sa di anni Dieci. Eve, Psyche & The Bluebeard’s Wife è house-pop tonante, ma lanciato a mille come se dovesse arrivare di corsa a Eurovision. E se pensi che quanto appena descritto sia un minestrone disperato, forse non ricordi com’erano fatti gli album pop negli anni ‘90: i debutti delle band k-pop hanno più curve e tornanti di una strada di montagna. La mia speranza è che a prevalere sarà la parte più scura, angosciante, eccentrica del gruppo. Ma comunque andrà, ho l’impressione che risentiremo parlare di loro. Sakura, Kim Chae-won (che è la leader), Huh Yun-jin, Kazuha e Hong Eun-chae. NdA - se vuoi approfondire sul k-pop ti consiglio questo articolo scritto da un giornalista affidabile che casualmente ha il mio stesso nome - su Quants Magazine.
I singoli
Il tempo scarseggia: però ho l’obbligo morale di avvertirti (nel caso ti fosse sfuggito) che è arrivato il momento in cui i pezzi estivi escono fuori con la frequenza e l’agilità di lumache dopo la pioggia. Sto parlando di quei pezzi un po’ latini un po’ dance, quelli dove si parla di “mare mare mare” senza imbarazzo. Ed è giusto così, non mi torna niente in tasca né dormirò meglio la notte se dico l’ovvio, cioè che molte di queste canzoni sono banali ma talvolta divertenti. “Fai come ti pare”, nessuno mi giudicherà se mi faccio prendere da un “pezzo alla radio che odio perché non ammetto che è forte”. Anzi, “vuoi o non vuoi”, avrai capito che pure io ci sono cascato un pochino pure io. Però, non offenderti se non le metto in playlist, nulla di personale. E ora due parole sugli altri singoli.
Il singolo italiano migliore della settimana, ma forse dell’anno, è Tilt di Zef e Marz con le voci di Elisa e di Veronica della Rappresentante di Lista: la vibe è totalmente Born Slippy, come hanno notato in tanti, a riprova di quello che si diceva la scorsa settimana sulla musica da ballare, ma l’angoscia della melodia è tutta merito di due delle voci migliori nel pop italiano di sempre - e che era destino che duettassero. Nulla mi toglie dalla testa l’idea che LRDL ed Elisa debbano fare un tour e un disco insieme, ma questo è un altro discorso.
Un altro singolo italiano molto bello è Cagne Vere delle Queen of Saba con BigMama, che sopra un beat che trasforma Baby One More Time in pop-punk parla di corpi politici nel modo in cui è giusto farlo: sputando in faccia alla decenza, e non stringendo la mano ai brand.
Infine segnalo di nuovo Grian Chatten dei Fontaines DC, che ha pubblicato il secondo singolo interessante in due settimane, Fairlies: sta preparando qualcosa di grosso? Il suo album, Chaos For The Fly, esce il 30 giugno: ne parleremo.
E ora andiamo a commentare Eurovision, di nuovo.
Ciao Louder.