Louder
Pioveranno venerdì
Pioveranno venerdì S02E10: tre genie e mezza
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Pioveranno venerdì S02E10: tre genie e mezza

25-31 marzo: il "disco personale" fallo solo se hai qualcosa di nuovo da dire
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Ciao Louder,

Questa settimana volevo iniziare citando due interviste che mi hanno fatto pensare al marketing della musica. Da quando faccio questo lavoro (circa 15 anni) l’uscita dei dischi mi è stata presentata quasi sempre secondo uno dei seguenti archetipi narrativi:

  • il disco del ritorno/riscatto

  • il disco dell’addio (o “canto del cigno”)

  • il disco figlio dei nostri tempi (o “necessario”)

  • il disco personale

Specialmente su “il disco personale” è stata costruita un’industria parallela, fatta di cicli di promozione nei quali inevitabilmente l’artista si sottopone a uno o più dei seguenti supplizi comunicativi: l’intervista a cuore aperto, la confessione, lo sfogo sui social, la docu-serie su Prime Video. La puzza di narcisismo è forte, e se tutti hanno il diritto di concedersi un “disco personale” (talvolta, addirittura “veramente personale”), l’affollarsi di proposte sul mercato discografico rende tutto il teatrino leggermente sterile. E per questo chiunque dica “no, guarda, questo è un disco che ho fatto per divertirmi, avevo già detto tutto nel disco prima” mi suscita una simpatia infinita. L’ha detto di recente a Rolling Stone USA Ellie Goulding, popstar inglese che certo non conto fra le mie preferite ma che talvolta sfoggia grande onestà, parlando del suo ultimo progetto Higher Than Heaven: “È il mio album meno personale, ma penso sia il migliore perché ho avuto occasione di esplorare altre cose, oltre me stessa”. Nel mezzo della pandemia ce l’aveva detto anche Jessie Ware, un’altra pop-meno-star inglese, che invece ho in grande stima, parlando di What’s Your Pleasure: “Non mi sembrava necessario essere una parte importante del racconto. Mi ha dato un senso di forza e di libertà, come autrice. Avevo detto tutto quello che avevo da dire in Glasshouse: i miei demoni, il senso di inadeguatezza. Nulla è cambiato da allora: ho avuto un altro figlio - di cosa dovevo scrivere, pannolini? Avevo bisogno di raccontare le storie degli altri”. E in cambio noi abbiamo avuto un capolavoro disco-pop scintillante. Ecco, questa settimana mi concentrerò in particolare su due dischi che raggiungono risultati opposti alle loro premesse (o al loro “marketing”): uno è incredibilmente intimo, ma grazie a un lavoro corale finisce per parlare di tutti; l’altro ha la pretesa di assumere i punti di vista di personaggi diversi, ma alla fine si sente solo una voce. Ci arriviamo.

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Tu intanto metti su la playlist (su Spotify e su AppleMusic) e noi cominciamo.

Per scrivere questo episodio sono stati ascoltati 40 album, 16 EP e 111 singoli

boygenius, the record

Un giorno Phoebe Bridgers ha scritto Emily I’m Sorry e invece di mettersela in tasca l’ha girata a Julien Baker e Lucy Dacus chiedendo alle due colleghe: “Vi fa se facciamo un disco?”. Le tre cantautrici avevano lavorato insieme con il nome boygenius nel 2018, pubblicando con Matador un EP di sei canzoni fantastiche che sembravano un contenuto bonus per le persone abbastanza fortunate da essere fan di tutte e tre contemporaneamente. Il 2018 sembra un’era geologica fa, se pensiamo che a questo punto Phoebe è quasi una figura del mainstream (ha parlato recentemente di come le stia sul cazzo il modo in cui è trattata da certi fan esagitati), che tutte e tre sono talmente affermate e circondate dall’hype da convincere Interscope (cioè Universal) a prendere gentilmente il posto della label indie. E così, ci ritroviamo oggi con the record, che prima ancora di uscire era già uno degli album dell’anno.

Non mi lascerò andare alla gelosia che si ha verso gli artisti che diventano famosi. Anzi, tutto il lancio di the record è stato giusto. C’era bisogno di un film diretto da Kristen Stewart per accompagnarne l’uscita? Forse no, ma è difficile (o da stronzi) essere scontenti per tre amiche che si divertono a fare casino e limonare a spese di una major. 

Ma alla fine il disco com’è? Un timballo di sentimenti. C’è la disperazione che fa rima con esasperazione nella devastante Letter To An Old Poet, quasi certamente dedicata da Phoebe Bridgers a Ryan Adams come la sua canzone sorella maggiore Me & My Dog. Ed ecco che apriamo il timballo: la traccia è una pietra sullo stomaco di depressione, ma è anche vendicativa e liberatoria, specie in quel “I want to be happy”. Ee Baker-Bridgers-Dacus sono riconosciute come maestre della sad song non è certo perché la loro scrittura fa il bagno fino alle caviglie nella tristezza, e basta. Al contrario, le loro canzoni nuotano fino a dove non si tocca - ogni riferimento all’aneddoto che Baker racconta in Anti-Curse è voluto.

Le tre voci e le tre firme si compenetrano al meglio in quei brani che sembrano partire da un aneddoto o un’osservazione di una, e che vengono completati dai punti di vista delle altre due: come Cool About It che descrive la malinconia che si prova quando si ha empatia verso una persona che ha problemi come i tuoi, e che finge di stare bene ma sai che non è così. O Satanist, che da un punto di partenza sulla vita in una comunità religiosa prende il largo per parlare in generale della pace che provi quando smetti di preoccuparti del senso delle cose.

Alcune canzoni nascono da momenti di vera amicizia, come Leonard Cohen nella quale Dacus racconta di quando durante un viaggio in macchina Bridgers, alla guida, per far ascoltare alle amiche una canzone alla quale teneva molto (The Trapeze Swinger di Iron & Wine) si è distratta e ha perso l’uscita. La canzone contiene una citazione di Cohen, per l’appunto - “There's a crack in everything, that's how the light gets in” - e qui Dacus fa una battuta su Cohen (“poesia eccitata scritta in un tempio buddhista”) che a qualcuno non è piaciuta. A me sì.

In più, suona benissimo, e non è solo merito del fatto che sia stato registrato agli studi Shangri La di Rick Rubin (anche Oh, Vita! viene da lì): le loro armonie a tre sembrano qualcosa che esiste da sempre. E poi c’è la scrittura, affilata come il coltello di un bravo cuoco: sintetica ma narrativa; punteggiata da frasi che sembrano pensate per diari/tatuaggi/TikTok (“if this isn’t love, then what the fuck is it?”) ma che in realtà hanno l’efficacia di una punch-line. Certo, le tre sanno che il loro pubblico è pazzo; che ogni cosa (anche il filmettino) sarebbe stata sovra analizzata, condivisa, sviscerata e reimpacchettata; ogni aneddoto annotato su Genius. Ma hanno anche la leggerezza di non farsi tirare troppo in mezzo nelle narrazioni altrui. Anzi, il tema del disco è esattamente questo. E anche per questa ragione - se non bastasse aver confezionato 42 minuti quasi perfetti - hanno vinto tutto.


Madame, L’amore

Madame è un’artista di grande talento, suo malgrado. Non mi riferisco ai passi falsi pubblici, per quanto imbarazzanti. Mi riferisco al fatto che per ogni invenzione geniale della sua musica, c’è qualcosa che ti fa cascare le braccia. Era il caso del suo primo album, un esordio ottimo pieno di pecche che si potevano imputare alla sua età e perdonare. Purtroppo però è anche il caso di L’AMORE, il progetto uscito venerdì. Certo, lei non ha proprio scelto la strada più semplice: se avesse tirato fuori dieci insalate di PENSIERINI, il suo pubblico se le sarebbe scofanate senza problemi. Invece si è posta l’obiettivo di descrivere l’amore in tutti i modi che le venivano in mente, cercando di afferrare quell’oggetto che nonostante sia stato descritto in un milione di modi, resta sostanzialmente ineffabile: per un’autrice che voglia mettere alla prova le sue capacità, non c’è sfida migliore. Eppure, anche in questo progetto ben concepito e sostanzialmente ben realizzato ci sono scivoloni abbastanza gravi.

Il primo esempio è TEKNO POKÈ: sicuramente “track”, ma certamente non “bonus” (che vuol dire “buono” in latino). Il motivo? Le battutacce degne di Martufello messe una in fila all’altra (“Che albero è? Salice. E io ce so’ salita”… VAA BENE). D’accordo, è un divertissement, ma senza divertimento: l’equivalente musicale dello schiaffo del soldato. Il secondo esempio è PENSAVO A…, lo skit che alza l’asticella del “volevo solo provocare una reazione” con immagini scandalose di desiderio sessuale; in particolare, ci sono quattro versi che possono essere considerati offensivi da una persona transgender, e sono oggettivamente imbarazzanti (non li riporto). Ora, non voglio istruire nessun processo alle intenzioni, specie perché - l’ho detto - l’io di L’AMORE non è necessariamente Madame. E d’altra parte, se fai un album così, esplicito e scorretto in tanti modi (normalmente più intelligenti di questa quartina incriminata), ti aspetti che arrivino delle critiche: altrimenti, perché stai provocando se desideri solo applausi? Tuttavia, sono versi brutti e gratuiti, e se skippi quella traccia non ti perdi niente. E questi sono solo i due casi più eclatanti delle diverse leggerezze e discontinuità. 

L’AMORE è un album che richiede pazienza. Ascolti IL MIO NUOVO MAESTRO, uno sguardo intenso e obliquo all’erotismo e al senso di colpa, un rimpallo di punti di vista riflesso nel ribollire del beat. E poi arriva DONNA VEDI, un testo che tocca sfere semantiche enormi con la profondità di un sussidiario (la “donna angelo”, lo Yin e lo Yang) ma soprattutto con una sintassi lirica faticosissima: ad esempio, “a volte l’empatia fa la parte nella giungla della serpe che la preda, la incanta” (qual è il complemento oggetto?!), o “in questa vita son della tua razza perché devo imparare ad ammirarti davvero, chissà quanto ho scopato nella scorsa vacanza, che era la scorsa vita da uomo che avevo” (MMM). In molti casi l’italiano di Madame diventa lezioso, vanitoso, e così inciampa sulle figure retoriche, scambia l’ermetico con l’indecifrabile, il denso con il confuso.

Anche la musica ha i suoi problemi. Alcuni beat come LA FESTA DELLA CRUDA VERITÀ sono brutti in modo offensivo, ma il difetto più grande sta nella produzione della voce: raramente l’autotune suo marchio di fabbrica è usato in modo creativo; al contrario, la voce di Madame è sempre chiaramente riconoscibile. Il risultato è contraddire l’intento iniziale del disco, cioè farci sentire personaggi e personalità differenti. Semmai, sentiamo sempre il punto di vista di Madame, che fa l’esegesi musicale delle sue fonti: Battiato, De André, Anne Sexton, Gaspar Noé, Luca Guadagnino.

Ed è un peccato, perché le parti migliori di L’AMORE sono illuminanti, e il progetto ha una sua solidità confermata dal fatto che la traccia di apertura e chiusura (bonus track esclusa) completano il cerchio in modo magistrale: COME VOGLIO L’AMORE e AVATAR, per me le tracce più forti, sono due visioni complementari e opposte, la definizione dell’eros e la resa al suo caos, dal “come voglio” al “tu non esisti ma io ti sento”. Insomma, L’AMORE è un album da 8.7 intrappolato dentro un 6.2; un disco che aveva bisogno di un editor che tagliasse qualcosa. Per alcuni Madame è l’erede di De André, per me al momento è soprattutto erede di FABER (FRABER?): cioè, un’artista giudicata per quello che ci vogliamo vedere dentro, più che per quello che propone. Arriverà il suo momento De André, in cui spiazzerà la stampa attualmente in giubilo, ma quel momento non è oggi.

Gli altri album, in breve

I Deerhoof sono la migliore band rock esistente. Certo, per rock devi intendere non quella cosa che si mette nelle pubblicità dei profumi, ma quella corrente di musica popolare che ha come obiettivo elettrizzarti, scuoterti, divertirti. Nel loro diciannovesimo disco, Miracle-Level, la band di San Francisco fa tutto questo, e in un paio di maniere nuove: andando per la prima volta a incidere in uno studio vero e proprio tutte le tracce (pur nelle sue idiosincrasie Miracle-Level “suona bene”); lasciando a Satomi Matsuzaki l’incombenza e l’onore di cantare tutto in giapponese. Nonostante la barriera linguistica, ho capito che il filo conduttore è il “miracolo” celato nella vita di tutti i giorni, che ti permette di immaginare molto più di quanto vedi, in una sorta di animismo laico. Puoi fantasticare su cosa passa nella testa di un gatto (la già segnalata My Lovely Cat! è dedicata a Lil Bub, che certamente conosci ed era il gatto del loro produttore, Mike Bridavsky) o cosa ti sussurra all’orecchio un’ape durante un matrimonio (Wedding, March, Flower). Un miracolo è anche quanta roba a livello di ritmi e timbri si possa mettere dentro canzoni tutto sommato “normali”, con arrangiamenti mai esagerati e direzioni melodiche ben precise. Chiudiamo ripetendo in coro “C’è un po’ di Italia”: l’ultimo singolo è accompagnato da un video creato dall’illustratore messicano di base in Italia Nespy 5euro con la direzione artistica di Debora Panaccione, che già avevano fatto un bel video per i Serpenti featuring Malika Ayane.

A proposito di Italia e vite segrete delle cose, è uscito l’album di Colombre, Realismo magico in Adriatico. Qui gli spiriti emergono dai panorami familiari, che suggerendo connessioni irrazionali tra fatti e pensieri, oggetti e sentimenti, allargano la realtà: Colombre ci chiede di accompagnarlo mentre mette a fuoco queste emanazioni spirituali, e scopre che non sempre sono benefiche. La ricerca di chiarezza nel trionfo twee di Maledizione, le silhouette scure nell’ottimo singolo tameimpalesco Durerebbe un’ora, il sottile dolore di Allucinazioni (dedicata a Mirko dei Camillas) dimostrano il pericolo che può incontrare chi non si ferma all’epidermide delle cose. L’Adriatico è l’orizzonte ideale per questa indagine: sotto la superficie liscia come l’olio, il mare orientale d’Italia nasconde vita e morte, quiete e tempesta. Allo stesso modo questo album, così dolce dalla prima delizia Midollo alla fine, custodisce alcune ferite non rimarginate. Ma anche uno spunto quasi di riscatto: l’accettazione che “non puoi avere tutto sotto controllo”, e che in certe situazioni - come abbiamo visto parlando delle boygenius - ciò è un sollievo.

Restando in tema di visioni, James Holden ha pubblicato il suo album migliore di sempre (almeno a suo avviso, a noi The Animal Spirits piace ancora moltissimo): si intitola Imagine This Is a High Dimensional Space of All Possibilities (praticamente “everything everywhere all at once”), ed è effettivamente un ascolto geniale. Il producer inglese ha detto di averlo composto come fosse un dialogo con la versione adolescenziale di sé stesso: contiene, di conseguenza, il club e il non club; la psichedelia imprevedibile dei synth modulari e quella sciamanica di un tamburo o di un violino strimpellati da Holden stesso. Ogni traccia sembra sfidarci a capire dove finisce il determinismo e dove inizia il libero arbitrio: lo senti nelle percussioni di You Are In A Clearing o dell’eccelso primo singolo Contains Multitudes; nel basso di Worlds Collide Mountains Form; nelle tastiere di The Answer Is Yes. Ma lo scopo non è tanto parlare del rapporto uomo/macchina, semmai - appunto - abbracciare le infinite versioni di sé stessi, a diverse stadi della vita e dell’anima. Questo percorso di umanizzazione dell’elettronica Holden l’ha intrapreso da un decennio, usando sempre meno software, convivendo con macchine mezze rotte: in questo caso l’esito è allucinatorio, ma non per questo privo di senso.

Mobrici ha pubblicato il suo secondo album solista, Gli anni di cristo, a riprova del fatto che di tutta la generazione it-pop la sua è la penna più in forma, perché non continua a scrivere le stesse cose ma non ha tradito la sua cifra, e - se osserviamo la traiettoria dai Canova al primo album a oggi - sarà sempre più così. Abbiamo parlato già benissimo di Figli del futuro e della sua disperata euforia: questo ossimoro descrive appropriatamente il mood delle tracce, vulnerabili sì ma senza sbrodolate ombelicali. In questo senso i duetti (quello magico con Fulminacci su Stavo pensando a te di Fibra; Amore mio dove sei con Vasco Brondi) stanno qui non tanto per fare cassa, ma per stiracchiare la voce autorale di Mob fuori dalla sua comfort zone. E così, il limite temporale alluso dal titolo dell’album (le canzoni sono state tutte scritte nel 34esimo anno di vita dell’artista) non sembra una casualità diaristica, ma quasi un ostacolo con il quale mettersi alla prova, affinando la scrittura, misurandosi con chi si era e chi si può diventare. Mobrici è sempre stato piuttosto cinematografico nel modo di descrivere le scene, ma in particolare qui sento risuonare il dogma “non raccontare, mostra”, come a verificare che esiste un baricentro tra scrivere dei cazzi propri e risultare autoreferenziali: nella sua leggerezza e mancanza di pretese, questo album sta lì.

Due parole su un EP italiano e poi un po’ di musica in una lingua che non piace al governo. Mondo Rosso di Generic Animal è l’ennesima prova che Luca Galizia è un talento sopraffino nel manifestare il disagio in oggetti e parole semplici: in questo caso la frustrazione della parola che, detta o non detta che sia, non riesce mai a cambiare davvero le cose. La canzone che metto in playlist, Mondo, ha un’interpolazione di Zum zum zum di Sylvie Vartan che “vale il biglietto”, ma anche Venerdì è una botta. Insomma, oh, son quattro tracce in tutto, valle ad ascoltare.

Andando a Brooklyn passando da Barcellona, è uscito Gisela di NOIA. Disco che sa di lockdown e per questo è molto statico: tutto si gioca sulle tessiture, quasi come fosse più un’opera tattile che non sonora. Il latin pop d’avanguardia dell’artista spagnola fa slalom tra soluzioni armoniche e ritmiche complicate e le scioglie come Alessandro con il nodo gordiano: senti partire bassi frastornanti, batterie stratificate, tastiere glaciali, eclissi di salsa, ed ecco che un gorgheggio alieno ci soffia sopra una storia d’abbandono e recide il garbuglio. Lacrime intelligenti.

Sempre dalle parti del pop elettronico d’avanguardia, Fawn/Brute di Katie Gately è un disco angosciante e vulnerabile, talvolta caloroso e talvolta feroce: mi immagino che sia così vivere dal di dentro la maternità, che è poi la condizione in cui l’artista si è trovata mentre scriveva. Dato che la formazione di Gately è quella della sound designer e compositrice, il beneficio è che nonostante i molti spigoli vivi, l’esperienza d’ascolto è tridimensionale: tra panning, dinamiche e sovraincisioni ci si sente sempre circondati, ora da una voce inquieta, ora da uno dei molti ottoni che balzellano. Molto teatrale, mai noioso, consigliatissimo se ti piace Fever Ray, ma vuoi giusto una sfumatura in meno di nero.

Tra i dischi con un po’ di hype, è arrivato Portals di Melanie Martinez, un album sulla rinascita che però suona leggermente funereo, con i suoi mid-tempo stralunati, quasi fosse a metà fra Billie Eilish, Cure e i Garbage. Martinez ha prodotto o coprodotto tutte le tracce, corteggiando alcuni cliché del pop “da ragazza arrabbiata”, ma senza sposarne nessuno. Il messaggio generale è che dentro di noi esistono moltitudini, e quando ci sentiamo fragili, anziché crogiolarci nel dolore, possiamo approfittare delle crepe per evocare una versione alternativa di noi stessi. Che sono poi temi presenti sia nel disco delle boygenius, sia nell’album di James Holden: un discorso sulla potenza, più che sull’atto, se vogliamo dirlo in modo aristotelico, ma comunque piuttosto pop.

Poco hype invece per Continue as a Guest dei canadesi New Pornographers, che invece è un disco solidissimo, anticipato e aperto da un singolo molto forte, Really Really Light. Ho un debole per Neko Case, voce della band insieme con l’autore principale e produttore A.C. Newman, e in questo disco l’artista fa uso di tutte le sfumature del suo timbro, specie quelle più aspre: nelle ottime Cat and Mouse With the Light e Marie and the Undersea questi toni sono ammorbiditi dagli ottoni, a dimostrazione di una grande cura del suono, forse dovuta al lavoro a distanza fatto nel pieno della pandemia. Restando sul “rock che non cambierà il mondo ma ti cambierà la giornata”, c’è un album degli Hold Steady dal Minnesota via Brooklyn: The Price Of Progress è un’antologia di parabole sulle persone lasciate indietro dalla vita: falliti che ritrovano un briciolo di speranza in gesti inaspettati di solidarietà e nella convinzione che anche chi ce l’ha fatta, in realtà, non ce la sta facendo veramente. Questa settimana meno roba post-punk e variamente shoegaze: segnalo Create Myself di NOVA ONE e Crispy Crunchy Nothing di PACKS. E poi gli A Certain Ratio hanno pubblicato 1982: funk oscuro che ricorda post-punk e dance da parte di chi non solo ha inventato questa contaminazione di generi 40 e passa anni fa, ma non ha mai smesso di affinarla e renderla inconfondibile e moderna, senza nostalgie da due lire (album dai suoni stupendi, peraltro, puoi provarci lo stereo).

Passiamo al rap dove la scena è dominata dai sette inediti che Tyler, The Creator ha incluso nella versione deluxe di Call Me If You Get Lost: arrangiamenti sontuosi, flow tirati, sassolini lanciati fuori dalle scarpe (in particolare segnalo una tirata contro i fan che si convincono di conoscere gli artisti in SORRY NOT SORRY).

Consigliatissimi anche Clusterfunk di Ric Wilson, Chromeo e A-Trak, The Great Escape di Larry June e del beatmaker The Alchemist; e Leather Blvd. di B. Cool-Aid, Pink Siifu e Ahwlee: è una grande settimana per i dischi a più mani, insomma. Sono tre dischi diversi ma accomunati da un amore per il boom-bap sexy e fumoso, per i suoni d’epoca e per il contenuto: il primo parla di sesso e politica; il secondo è ipnotico, chill, acido come un “drunk drumming” di Questlove (tra gli ospiti Action Bronson, Ty Dolla $ign, Joey Bada$$ e Wiz Khalifa); il terzo è jazz e sciallato, con una dedica a Brandy e Aaliyah alla quale non ho saputo resistere.

Segnalo al volo il nuovo album degli Altin Gun, la band turca di base ad Amsterdam che suona come se i Nu Genea fossero di Beşiktaş, e due dischi con titoli che mi voglio scrivere in fronte: Let The Moon Be A Planet, ambient folk di Steve Gunn e David Moore che ti manda in orbita; Sometimes You Hurt The Ones You Hate di Damien Jurado (solo su Apple Music), antologia di storie di sequestri di persona, per lo più metaforici.

E ora il consueto riassuntone dei dischi italiani che valgono un giro: 

  • Brilla dei SO BEAST: disco italiano poliglotta (inglese, croato, tedesco) che fa corto circuito tra elettronica, hyperpop, post-punk con risultati visionari, assurdi, divertenti, toccanti;

  • Nelle teste degli altri di ceneri: il doppio EP (o LP pubblicato in due parti) dell’artista friulana (già segnalata all’inizio dell’anno scorso) presenta una scrittura impressionistica, adatta alla voce brumosa di Irene Ciol e per la produzione vibrante dei B-CROMA che creano mid-tempo gelatinosi, delicati e notturni;

  • Stegosauro degli Stegosauro: sei tracce emo math, piene di strazio emotivo e di tecnica, un esordio fulminante di una band con un nome splendido;

  • Apnea di FOGG: l’elegia delle occasioni mancate, un disco che cambia registri in modo brusco, alternando pop saltellante a un quasi-post-rock, marimba agrodolce (Stiva) e sassofono patetico (Buco Nero), ma sempre con urgenza;

  • Fai le cose tue di Clemente Di Giovanni: un EP di cantautorato indie pop quasi silvestriano;

  • Fede di Erio: EP di un cantante sempre con le emozioni in bella vista, che si sentono anche ora che si esprime in italiano (ma sempre sembrando alieno rispetto a molti suoi colleghi);

  • Per ridere dei Funky Lemonade: mezz’ora di groove, tempi dispari, e un sample del prof. Barbero (MESOPOTAMIO, che titolo!) che non è solo per il LOL ma dice qualcosa sul nostro tempo;

  • Arrogantissimo di Giovanni Toscano: un altro esordio, questa volta di un artista che venera Fossati e Dalla ma canta come chi ha studiato recitazione (cosa effettivamente successa); discontinuo ma convincente quando fa il “francese” (Quello che gira, molto alla Tellier; Bianca, un po’ M83) e quando prova a suonare come Vasco ma finisce per sembrare folk-punk (Che vita è).

Segnalo inoltre La vita nel frattempo di Giuliano Dottori, che ha scelto di pubblicare l’album solo su Bandcamp e in vinile.

In playlist troverai anche del rap italiano, che non proponiamo spesso: una traccia da Terre magre di Rumo, che parla di apocalisse (climatica, sociale, personale) con l’umorismo malato di un Gipi e l’autotune nella fondina mescolando i generi; Tutto tuta di Silent Bob e Sick Budd, perché gira benissimo; e una traccia da Kombat Rap di Kento, Pietre, in cui elenca canzoni, libri, dischi che lo hanno ispirato, un po’ alla maniera dei Soulwax. Peccato che non fosse proprio fantastica la sua cover di De André che ha cantato con Lucy Lawless (proprio lei: Diane, Numero Tre, Xena) altrimenti te l’avrei consigliata.

Nel privé al termine della playlist - lo sai - ci sono le cose da ballare e l’elettronica: tipo un inedito dalla riedizione di The Upper Cuts di Alan Braxe, che peraltro contiene Music Sounds Better With You degli Stardust (di cui era componente), la cui storia è raccontata dalle voci dei protagonisti in questa “oral history” del Guardian; ma anche un singolo PC Music con Caroline Polachek; il remix di Four Tet di un singolo degli Everything But The Girl (c’è tutto un EP, in realtà); James Holden, ovviamente; e una traccia del duo Two Shell che ti farà controllare se ti sta vibrando il telefono.

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I singoli

Come sempre, c’è pochissimo tempo per i singoli. Segnalo il ritorno dei Calibro 35, Extraordinaire di nome e di fatto; il duetto di Maria Antonietta con Laila Al Habash, Per le ragazze come me. E pescando dal resto del mondo: Watching The Credits delle Beths (già adorate a settembre) e Don’t Leave Me Now dell’ottima Jessy Lanza, che fa compagnia nel privé ai pezzi dance.

Ci sarebbero anche due canzoni nuove di King Krule, ma si sentono solo su un flexi-disc in vendita nel suo tour: una si intitola it’s all soup now, mi ha ricordato il verso di Logos “we were soup together” (Krule patito di zuppa), e si ascolta qui. A proposito, dovrei ricominciare a parlare solo dei concerti? Fammi sapere, del resto ci metto solo 50 ore di ascolto e scrittura per questo podcast, cosa vuoi che sia.

Ciao Louder.

2 Comments
Louder
Pioveranno venerdì
Ogni settimana parliamo delle nuove uscite e ti dico cosa ascoltare e perché