Louder
Sanremo per chi non ha sbatti
Domenica 12 febbraio 2023: due cose sono infinite, l'universo e Sanremo
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Domenica 12 febbraio 2023: due cose sono infinite, l'universo e Sanremo

Considerazioni finali sul Festival dei maschi, i nostri "premi", la nuova musica della settimana
una notte in blanco – ecco cosa e' successo nelle ore successive alla  performance di blanco... - Media e Tv

Ciao Louder,

o dovrei dire buonanotte, vista l’ora? Beh, Sanremo è finito, e dopo lunga elaborazione della cosa, andiamo in pace. E andiamo a sentire la playlist con le nuove uscite, incredibilmente non solo festivaliere (la trovi come sempre su Spotify e su AppleMusic). Ma prima, un ultimo pensiero sul giusto (e prevedibile) vincitore del Festival 2023.

Una vittoria da grande

Più ci penso e più mi viene da paragonare Due vite di Marco Mengoni a Fai rumore di Diodato: mutatis mutandis, sono due ballate romantiche che condividono un’attenzione quasi invisibile nell’intreccio di elementi minimi ma geniali. L’arrangiamento così si eleva rispetto alla media delle ballad: nel caso di Mengoni grazie alle trame ritmiche; con Diodato è stata una questione più di eleganza timbrica e soluzioni armoniche. Un’altra somiglianza spirituale: sono due canzoni d’amore con testi (tutto sommato) maturi. Testi che parlano di perdite: temporanea per Mengoni; definitiva per Diodato. Testi che, se paragoniamo questo Mengoni al Mengoni eroicamente romantico di 10 anni fa, segnano una crescita biografica e non solo musicale. Testi che sono sempre più rari in un panorama discografico di amori ombelicali e raccolte di PENSIERINI del diario. Invece è naturale, è bello che un 34enne canti da 34enne, e pace se certe iperboli ed esagerazioni sono alle spalle. Ad esempio Brividi - migliore di Due vite a mio avviso - presentava un’ottica molto più immatura: c’era il panico di chi non sa come (re)agire davanti a sentimenti contrastanti di rabbia e amore, conforto e vergogna. Ma a cantarla erano due ventenni, chi più chi meno.

Due vite è una canzone (più) matura che vince tra molti under-30; una ballad che vince tra molti pezzi uptempo: sulla carta era un po’ un’eccezione, eppure la vittoria non è mai sembrata in dubbio. Perché il pubblico adora Marco Mengoni: l’Ariston era in piedi praticamente sempre, quando passava lui. E da parte sua Mengoni ha cantato come un vincitore annunciato: chiamando addirittura i cori nella prima performance della finale, e rivisitando la melodia a piacimento. Perché a volte bisogna sembrare dei campioni, per esserlo. E il pubblico italiano ama tutto ciò. Le profezie che si avverano. Tipo la profezia autoavverante che escluse la musica delle ragazze dai piani alti delle competizioni, o della discografia. E, per chiudere questo prologo, giù il cappello a Marco che ha riconosciuto questa disparità, che non ha fatto finta di niente: quando ormai il Festival era diventato una partita a cinque, lui ha preso la parola e ha omaggiato le colleghe, rimaste fuori a guardare. Non è poco. Ma non sarà neppure abbastanza.

#tuttimaschi

Sostenere che il digiuno femminile del Festival di Sanremo sia solo una pura coincidenza è come fingere che un problema non esista per risolverlo. E il problema è diffuso: lo vedi nelle classifiche di vendite, dove le donne sono un simpatico (e striminzito) contorno, mai l’attrazione principale. Ovviamente non nasce a Sanremo, né la direzione artistica del Festival può esserne considerata la causa tout court (per quanto 9 donne su 28 non sia proprio una presenza lusinghiera).

Le responsabilità di questa cancellazione della parte femminile della musica pop in Italia sono distribuite in modo vasto, perché sono responsabilità di tip culturale: non c’è dietro un complotto, per spiegarci. E sai come ti accorgi che qualcosa non va? Leggendo i comunicati stampa che, non appena possibile, strombazzano in modo esplicito i risultati (comunque tendenzialmente magri) dell’artista femminile di turno: perché quando un’artista è prima (o quando uno straniero è primo), quella sì che è una notizia! Del resto, stando a FIMI, negli ultimi 3 anni (157 settimane) solo per 5 settimane un album di una donna è stato primo in classifica, e in tre casi era una popstar straniera (Billie Eilish, Lady Gaga, Taylor Swift). Il 3,18% dei primi posti: non sembra una percentuale sana. Se andassimo a spulciare il resto delle chart, settimanali e annuali, la situazione non migliorerebbe. Ecco il terreno dove attecchisce l’idea che questa scarsa rappresentanza sia tutto sommato la norma.

Quest’anno al Festival Giorgia (6° posto) e Madame (7° posto) hanno registrato le migliori prestazioni, tra le donne. Seguono Elodie (9°), Ariete (14°), Paola e Chiara (17°), Mara Sattei (19°), Levante (23°), Anna Oxa (25°) e Shari (27°). Se consideriamo che già in partenza le donne avevano una presenza sfavorita, meno di un terzo (32,14%), avere tre donne tra le prime 10 (30%) sembra già un risultato. Peccato che le altre sei occupino la classifica dalla metà in giù.

Amadeus giustifica questo fatto con il solito adagio dello status quo: “La gente vota quello che preferisce, ed evidentemente hanno preferito le canzoni degli uomini”. Una scusa che Amadeus - legittimamente - rimbalza anche contro la stampa, la quale aveva sì in posizioni più alte Elodie e Madame (che stando ai voti delle prime due sere sarebbero finite nella top 5 finale) e Giorgia, ma aveva anche già condannato la gran parte delle donne alla metà bassa della graduatoria finale. In sostanza, il televoto non ha ribaltato la somma, ma solo l’ordine degli addendi.

Così, ci avviamo verso la 74esima edizione del Festival e a quel punto saranno 10 anni che un’artista solista non vince il primo premio. Il digiuno più lungo nella storia di Sanremo. Qualcosa non va. Non è certo una questione che possa essere risolta in una newsletter da un uomo etero. Magari bisognerà iniziare a parlarne di più, e smettere di fingere che tutto sia normale. Ma far sembrare tutto normale è un po’ il mestiere di Amadeus, e non sempre è un male.

Caos calmo

La cosa che apprezzo di Amadeus, come conduttore, è quel modo molto radiofonico di organizzare il caos che gli accade intorno. Mi ricorda certi programmi del pomeriggio di Radio Deejay di una volta (non ascolto più così tanta radio da poter fare un paragone odierno). Da quella scuola, effettivamente, Amadeus proviene: quindi anche quando le lungaggini abbondano e le ospitate Rai Fiction ci presentano decine di guardie e di suore, comunque la sensazione è che ci siano meno vuoti rispetto a un tempo. Ma te le ricordi quelle interviste imbarazzanti ai superospiti internazionali? Ecco, sono grato ad Amadeus di aver eliminato quei momenti strazianti, dove la ricerca di qualità a servizio dei tempi colossali di Sanremo generava mostri orrendi.

Le questioni politiche non le tocco: sicuramente la lettura della lettera del presidente ucraino Zelensky (già una soluzione di compromesso) alle 2 di notte non è stato un bel momento per la coscienza del nostro Paese. Ma del resto, siamo il Paese che siamo. Il bello è che per quanto la politica entri sempre dentro il Festival, a fare la storia non sono i personaggi che chiedono dimissioni o interrogazioni parlamentari. Semmai, restano nel ricordo i personaggi che quel putiferio l’hanno sollevato. Resta il caos: Blanco che prende a calci le rose (direi, *la* fotografia di questo Festival); il duetto di Grignani e Arisa. E poi, fortunatamente e sempre di più, restano le canzoni.

Quali canzoni

La mia opinione dopo una settimana di sequestro di persona è che in termini di qualità generale dei brani l’edizione 2023 sia al secondo posto nella gestione Amadeus, dopo il 2021 e prima del 2020. Il 2022 aveva avuto un vincitore migliore (se ti interessa l’ordine: Diodato > Mahmood e Blanco > Mengoni > Måneskin).

L’anno scorso non erano mancate le hit uscite già pronte dall’Ariston (Ciao ciao, Dove si balla e Chimica dal lato del bene; Farfalle dal lato del meh), e nemmeno un paio di perle pregiate (O forse sei tu e il pezzo di Truppi). Ma quest’anno la media è stata a mio avviso più alta: tanti brani si lasceranno riascoltare per mesi. Non vale più l’antico adagio per cui, una volta finito il Festival, erano finite anche le sue canzoni. E questo in parte anche per una ragione interessante: mi sembra che in gara siano arrivati brani che possono definire nuove fasi della carriera dei rispettivi artisti. Qualche esempio.

Giorgia potrebbe continuare con questa ricerca super-cool del suono di 30 anni fa e fare un lavoro nostalgico nel suono, maturo nel contenuto. Lazza ha messo le basi per un eventuale disco pop, ma alle sue condizioni, e con un’idea musicale veramente contemporanea. Ariete potrebbe (e dovrebbe) insistere su queste canzoni meno minimaliste, perché - anche se come performer deve crescere molto - c’è una credibilità di fondo, una leggera intensità che non si può imparare. Mara Sattei ha dimostrato che il mainstream nel quale era entrata con un tormentone scemetto è invece il suo posto, di diritto. Tananai si è ricollegato all’inizio della sua carriera pop (Giugno), ma facendo un passo in avanti, non più indie ombelicale, non più simpatica canaglia, ma persona dotata di tecnica e un pensiero alto: adesso potrà andare dove vuole. E potremmo continuare con almeno altri tre-quattro esempi, anche quando le cose sono andate non troppo bene. Tipo nel caso di Elodie, artista che speravo di veder sbocciare quest’anno a Sanremo (non con una vittoria, quella era impossibile, magari una top 5…). E invece lei ha giocato più di sponda con un brano di minore impatto rispetto alla stessa Andromeda: eppure ha dimostrato che Bagno a mezzanotte e Tribale non erano stati colpi di culo; che anche le tracce che faranno un po’ meno catalogo possono portare avanti il progetto. Insomma, ne è uscita affermando uno status da diva assoluta, che nessuno le può più strappare. E che onestamente la rende unica in Italia: abbiamo brave cantanti pop, ma abbiamo una sola Elodie.

In generale, quindi, se consideriamo i brani in gara, parliamo di un Festival a mio parere più incisivo. Non credo che raccoglierà la stessa cornucopia di certificazioni del 2022 che - come dicevo - ha avuto dei picchi più alti. Ma questa media alta mi lascia contento.

(Rimando a questo post per la mia valutazione complessiva dei brani in gara)

L’identitunz-unz

E poi c’è la questione dell’identità del cast. Lo ripeto: non ricordo di aver mai visto un festival così danzereccio. Tutti i generi di musica da ballare hanno influenzato le proposte, allineandosi alla parte più matura della canzone popolare odierna: “se non puoi battere l’hip-hop, falli ballare”, è l’adagio di tanta discografia e tante superstar, fuori dai nostri confini. E anche qui ha attecchito. Che si andasse di vintage (ColaDima, Cugini) o di classico rivisitato (Lazza, Madame), il danzereccio ha dominato la proposta. La classifica della gara però ha detto un’altra cosa, perché le ballad continuano a essere preferite (non solo dal pubblico generalista, anche da molti colleghi): quattro brani della top 5 erano lenti. Il che dimostra che Amadeus ha avuto a suo modo coraggio a portare certe cose - la discomusic nel 2023 può essere ancora considerata un azzardo in Italia, pensa un po’. Ciò potrebbe anche significare che l’anno prossimo questa quota verrà decisamente ridotta, eh. Intanto io mi godo un dato: in media le canzoni portate in gara avevano una velocità di 98,5 bpm. Vorrei azzardarmi a dire che sia stato il Sanremo più veloce di sempre (il più veloce: Sethu, Cause perse - 176 bpm. La più lenta: Shari, Egoista, 62 bpm). Ora 100 bpm non è esattamente un passo spedito, ma è pur sempre una media. E se poi osservi non solo il tempo, ma gli arrangiamenti di batterie e percussioni, noterai che anche chi non ha accelerato (come Mengoni o Ariete o Mara Sattei) ha saputo usare tempi raddoppiati per spingere all’occorrenza.

A proposito di giovani

Ne abbiamo parlato qui e là e lo ribadiamo in questo ultimo episodio: i giovani, accostati ai Big in un cast così grande, sono stati sprecati. Capisco il ragionamento dietro la scelta di unire le categorie: di fronte a un mercato che mette sul piedistallo artisti sempre più giovani, capaci di raggiungere una fama non proporzionata al dato anagrafico, come si fa a tirare una linea tra le Nuove proposte e i giovani Big? Non credo che sia un problema valicabile solo con la volontà o sperando che l’anno prossimo si candidino solo vecchi big e giovanissime nuove proposte: la direzione è intrapresa, e poi ormai quale artista di qualsiasi dimensione non vuole prendersi un briciolo di Festival?

Ma ora basta ragionamenti e chiudiamo con i premi.

Premio Louder, alla migliore canzone: Splash di Colapesce Dimartino

Un altro livello di complessità e ispirazione, una canzone che - proprio come Musica leggerissima - potrà essere ascoltata fino allo sfinimento prima di esaurire le cose che ha da dirci; il tutto nella solita forma elegante ed evergreen, messa a punto da due autori che sanno dove andare a pescare nel passato. Quando Madame ha vinto il Premio della critica per una canzone in cui si rivolgeva alla sua voce, intitolata Voce, giù gli scrosci di applausi. Colapesce e Dimartino hanno cantato di suicidio e hanno messo in scena il soliloquio di un depresso senza nessuna ovvietà: la musica leggerissima e il rumore delle metro affollate sono la stessa cosa, o comunque svolgono la stessa funzione, e noi siamo stati incantati dall’oscillare di quella mano a beccuccio, come se fosse stato tutto un gioco. Di nuovo. Il premio è alla canzone, ma si contino anche le interpretazioni mai sbavate, sempre incisive. Non credo potrò mai più fare il gesto “ma che cosa” senza cantarci sopra “ma che mare, ma che mare”. E così, sottilmente, i due cantautori siciliani si sono presi un altro frammento dei nostri cervelli.

Premio Campionissimo, alla canzone che non poteva perdere: Due vite di Marco Mengoni

Abbiamo detto sopra in che modo, pur nella sua natura a tratti piaciona, questa canzone sia piena di piccoli importanti particolari, che fanno la differenza quando sommi gli ascolti: un altro esempio, quel riff di piano che incornicia il tutto. Ma la ragione per cui Marco Mengoni non poteva non perdere è Marco Mengoni stesso: uno che quando canta dal vivo sembra il CD, come si dice in questi casi. Negli ultimi anni chi ha cantato meglio il maggior numero di sere ha vinto. Sanremo, nonostante l’audio puzzone della Rai, divide ancora chi sa cantare e chi no. Poi non basta solo quello, ma aiuta, eccome. Due vite era la canzone ideale per far brillare una voce così: usciranno mille cover stonate, va benissimo così, anzi è il gradino che divide un bel saggetto dai cori sugli spalti.

Premio Mahmood, alla canzone che più di tutte suona come il presente: Cenere di Lazza

La produzione house-revival di Cenere e il modo in cui il cantato ci si incastra sono la cosa più contemporanea passata dal Festival, dai tempi di Soldi. Mahmood, però, non doveva battere la concorrenza di un campionissimo: quello del 2019, con 14 tra esordienti ed ex Nuove proposte, può essere considerato un anno di reinvenzione? Diciamo di sì. Sicuramente Lazza si è trovato davanti tutt’altra concorrenza: di campionissimi da battere ne aveva almeno uno e mezzo, se non due. E infatti è finita come una gara stretta, a due, decisa dal potere del televoto - ti avevamo detto che il rapper di Calvairate l’avrebbe messo alla prova. D’altra parte, a differenza del Mahmood semisconosciuto di 4 anni fa, a Lazza vincere il Festival non serve. Di numeri 1 ha un cassetto pieno. Anzi, mi permetto di dire che un secondo posto all’Ariston (già ampiamente convertito in primo nello streaming) potrebbe essere una giusta lezione. Prendi Tananai: la sconfitta e il modo in cui gli ha dato uno spin hanno cambiato completamente la sua traiettoria. Perché è il racconto, oggi, che importa. Specie quando la musica e gli ascolti ci sono già. Insomma, bisogna saper perdere. Perfino quando - in altre condizioni - avresti stravinto. (Ehm.)

Premio repack, alla canzone che completa un discorso musicale (e un album): L’addio dei Coma_Cose

Dei pregi di questa canzone ho già parlato (il solito link), aggiungo solo che si tratta di un coronamento puntuale e toccante del loro Meraviglioso modo di salvarsi, un concept su come si fa a restare umani in una vita disordinata e spaventosa. Ed è lo story arc perfetto per i Coma_Cose: per alcuni osservatori sono ancora “quelli dei giochetti di parole”. Zio, è dal 2019 che sono andati avanti. Diciamo che in qualche modo L’addio è il brano che completa non solo l’ultimo album, ma tre dischi interi. Definitivi.

Premio Tananai, all’artista ingiustamente sottovalutato: Sethu

A questo proposito, voglio segnalare un’altra volta Sethu, ultimo classificato e anche lui abbonatosi all’idea di trarre il massimo dalla sconfitta (compreso l’invito al pre-serale di Amadeus). Eppure, nella sua canzone e soprattutto in quello che ha proposto venerdì sera con i bnkr44 ha inserito tanti spunti che fanno ben sperare per il suo futuro. Non sono certo che abbia il carattere adeguato per trasformarsi nel Tananai del 2023. Quel ruolo è riservato al prossimo premiato.

Premio tormentone, alla canzone che ribalta una carriera e mina la nostra salute mentale: Made in Italy di Rosa Chemical

Sinceramente, non mi appassionano le polemiche tra chi (entusiasticamente) lo vuole icona gay e chi (legittimamente) fa notare che almeno un atomo di queer-baiting è da considerare nelle sue intenzioni. Io la vedo in modo principalmente musicale, e Made in Italy lascerà il segno prima di tutto per il suo beat appiccicoso, e in secondo luogo per una valenza politica più profonda della sola istanza LGBTQ+. Perché questa canzone non è un “inno fluido” in prima istanza; semmai vuole essere un affronto a chi - culturalmente ma anche politicamente - ha unito in un solo fascio i concetti di italianità, tradizione, mascolinità (tossica), per usarli come manganello contro ogni diversità e aberrazione. Insomma, è prima di tutto una canzone sulla libertà. Il sesso è uno strumento, non il fine. La fluidità il nemico, ma non di Rosa Chemical, delle persone che soprattutto da fuori lo ritengono un simbolo di qualcosa che non necessariamente è. Se c’è qualcuno che ha abboccato all’amo, qui, non mi pare sia la comunità queer. Basta sentire l’indignazione per lo spettacolino che ha improvvisato con Fedez, il quale ormai è obbligato a invitarlo nel suo prossimo tormentone estivo. Win-win.

Premio svolta, per l’artista che meglio di tutti ha usato il Festival come luogo di crescita: Tananai

Tana può tutto, ormai. L’abbiamo detto sopra: Tango può essere un momento di apertura artistica enorme. L’ha cantata bene, tutte le sere, quello che veniva preso in giro appena un anno fa. E l’ha cantata di cuore (magari anche un po’ di paraculaggine, ma comunque senza un coro di bambini), mettendo in mezzo un tema non scontato, anzi quasi imbarazzante per l’organizzazione Rai: la guerra in Ucraina. Abbiamo parlato del video nei giorni scorsi. Quindi, Tananai, se vuoi essere Rosa

Premio Maccosa, alla canzone classificata in una posizione inspiegabile: Vivo di Levante

Seriamente? Ventitreesima? Dopo il dodicesimo posto del 2020 (su 24), Levante perde ancora posizioni a Sanremo: al migliorare della sua offerta, peggiora il risultato. Vivo per me ha un concept molto più chiaro e uno stile molto più figo di Tikibombom. Cosa gli manca di migliore? Un ritornello, e senza ritornello in Italia dove pensi di andare? Aggiungiamoci che Levante ha cantato non sempre al meglio, queste sere. Ma questo piazzamento mi sembra che riveli soprattutto una sorta di disconnessione tra l’artista e il pubblico del Festival: forse non è il suo, forse Levante sarà sempre una nel mainstream ci sta a modo proprio. Ma in Vivo c’era molto di più di quello che il numero finale potrebbe lasciar credere. Se non credi all’Ariston, credi allo studio di registrazione.

Premio Torna a trovarci, all’artista che con un pezzo migliore, magari: Mara Sattei

Duemilaminuti ha i difetti che le abbiamo trovato questa settimana (testo poco chiaro, ritornello che ammazza l’abbrivio dell’ottimo pre-ritornello), ma Mara si è comportata benissimo nel tenere il palco, cantarci con autorevolezza e portarci un’idea originale (nella serata-cover). Probabilmente un brano più simile a quelli del suo album non l’avrebbe collocata più in alto nella classifica finale, anzi: penso che Duemilaminuti sia in qualche modo una concessione al mainstream, per arrangiamenti, armonie e testi (non contenuti, l’amore tossico è stato già toccato da Mara). Al che dico: ci sta tutto, ma bada a non perderti troppo per strada.

Premio incompresi, a chi aveva una canzone migliore della sua reputazione: I Cugini di Campagna

Di Lettera 22 abbiamo parlato a profusione. Mi limito a ribadire un concetto al quale molti abbiamo pensato: se non l’avessero portata i Cugini, ma ad esempio La Rappresentante di Lista che l’ha scritta, la sua sorte sarebbe stata diversa. Se nessuno si lasciasse abbagliare dai lustrini, vedrebbe infatti un testo raffinatissimo e doloroso; un arrangiamento con un ritmo di pieni silenzi tutt’altro che banale; una melodia e un giro che sanno d’antico e non di vecchio. Spiace.

Premio giovani speranze, a un giovane che ha mostrato maturità: Gianmaria

Mostro si eleva dalla categoria malefica dei PENSIERINI che tanti coetanei di Gianmaria bazzicano spesso: anzi, parla proprio del bisogno di uscire dalla propria capoccia. In più riesce a inquadrare una condizione che può essere vissuta da una giovane celebrità come lui ma anche da una persona qualsiasi che per tante ragioni si ritrova in una bolla, separato da chi lo circonda. Non stiamo parlando di Luigi Tenco, ok. Ma considerato il contesto di un mercato musicale affamato di PENSIERINI, questo è un bel segnale.

Menzioni speciali

Il bene nel male di Madame: una traccia così sapientemente costruita sul ritmo, proprio da parte di un’artista che per mille altri versi vuole presentarsi come la reincarnazione di De André, beh è impressionante: la direzione artistica, anche al netto di certe sparate, resta solida perché non si perde di vista l’unione tra linguaggi ed epoche. Mai troppo trap/urban/whatever, mai troppo maglione a collo alto. In più con un gusto house, molto attuale: il pezzo più 2023 dopo Cenere.

Mare di guai di Ariete: a mio avviso, la canzone migliore della sua discografia, che è già di culto presso tutta una certa generazione. Arianna ha bisogno di affondare le radici, di porre fondamenta al suo successo: spero che questo sia l’inizio di questo percorso che potrebbe trasformarla in qualcosa di davvero inarrestabile.


Abbiamo finito, qui sotto ti lascio la playlist con le nuove uscite discografiche. Ci sono i dischi di Kelela, Paramore, Yo La Tengo e tante altre cose di cui non abbiamo il tempo di parlare. Ci sentiamo la prossima settimana.

Ciao Louder

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Louder
Sanremo per chi non ha sbatti
Per celebrare la "settimana santa" del Festival di Sanremo ti racconterò ogni giorno - da martedì a domenica - quello che sta accadendo, come ci sembrano le canzoni, e perfino qualche polemica.