Louder
Sanremo per chi non ha sbatti
Giovedì 9 febbraio 2023: pènsati Sanremo
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Giovedì 9 febbraio 2023: pènsati Sanremo

Perché funzionano (o non funzionano) le canzoni del Festival
Tananai - TANGO (Sanremo 2023) - YouTube
ora piango

Ciao Louder,

Siamo arrivati viv* al 9 febbraio - non ottobre, come ho scritto ieri nel titolo, ma prova a comprendere un uomo che non sta dormendo abbastanza… Allora, la seconda serata è andata e adesso abbiamo sentito tutte e 28 le canzoni. Se ti va, oggi approfondiamo un po’ i brani a seguito degli ascolti sul palco e nelle versioni in studio. Vorrei farli tutti, ma non ci riuscirò: qualcuno sarà saltato e spero che mi perdonerà. Mi perdonerete anche dei refusi, abbondanti, ma avete visto l’ora che si è fatta.

Come scusa?

Volevi parlare di gossip, scandali, polemiche? No, dai, per le pagelle e le gogne ci sono già tipo tutti gli altri siti e giornali e social network del mondo (a meno che Twitter non decida di schiantarsi anche stanotte). E poi di cosa dovremmo parlare? Delle barre antigovernative di Fedez con annesso disclaimer per non coinvolgere troppo la Rai? O di quella roba fatta da Angelo Duro? Al riguardo mi limito a citare solo un pezzetto di James Acaster. Peraltro Acaster è un musicista, abbiamo inserito il suo progetto Terms nella playlist di venerdì scorso, vai a sentirlo (su Spotify o su AppleMusic).

A proposito della cover band dei Black Eyed Peas, poi, non sono proprio autorizzato a esprimermi nella settimana che celebra la musica più bellissima del mondo mondiale.

A meno che

A meno che non si tenga conto di un cambiamento radicale che le canzoni in gara quest’anno segnalano in modo incontrovertibile: almeno 13 canzoni su 28 discendono in modo diretto o indiretto da un genere di musica da ballare, che sia dance elettronica, house nelle sue varie incarnazioni, techno, discomusic, funk, bigbeat, europop, e così via. Si tratta di una mutazione davvero importante: Sanremo non è più la patria del lento, ma un luogo dove si batte il piedino e si agitano le anche. Probabilmente si tratta solo di un indirizzo impresso da Amadeus in qualità di direttore artistico: vista la sua passione per la dance, potrebbe darsi che la maggior parte degli artisti in gara si candidi al Festival con brani - appunto - ballabili. O forse è un cambiamento più generale. Magari ne parleremo ancora nei prossimi giorni.

Quindi cosa ci tocca?

Ci tocca una sfilza di 28 canzoni la cui qualità è probabilmente inferiore rispetto alle tre/quattro edizioni scorse, ma comunque piuttosto alta. Ne parlerò sinteticamente, per quanto possibile. E, dal momento che mi è stato comunicato che qualcuno ha usato i precedenti messaggi come guida all’ascolto durante le scorse serate (grazie!), procederò seguendo l’ordine di ingresso degli artisti in questa terza serata.

Ho preparato anche una playlist, per orientarsi nelle cose che dirò. Fai un po’ tu.

Paola & Chiara, Furore

Tanta nostalgia degli anni ‘90… ce l’ho io, perché mi mancano le sorelle Iezzi in versione irlandese, quelle appunto di quei tempi, quelle di Per te e Non puoi dire di no. Questa canzone è stata invece costruita per arruffianarsi quelli che hanno nostalgia dei capolavori anni Zero (Vamos a bailar; Festival) che oggi passano l’intero anno aspettando l’Eurovision (come me, peraltro). Merk & Kremont, che hanno scritto e prodotto, utilizzano tutte le tecniche per tenere insieme dance di fine millennio e ABBA, discomusic e Dua Lipa: stacchi netti; archi drammatici che precipitano negli spazi vuoti; cassa dritta ma grassa; tanti staccati; e soprattutto la benedettissima modulazione nell’ultimo ritornello, marchio di fabbrica del pop da balera (o di Celine Dion). A questo si aggiunge un testo che parla della canzone stessa, cioè suggerisce istruzioni di ascolto: il che è ciò di cui sono fatti i tormentoni, a detta di Peter Szendy. Stranamente meglio live, forse perché le voci risultano un po’ piallate dalla correzione. Mi mancano i tempi in cui, senza autotune, Paola e Chiara modulavano un pezzo come Per te: dopo due strofe e due ritornelli nei quali alternavano armonia e unisono, il key change (davvero ‘90s visto che era il ‘98) era l’ultimo turacciolo da stappare, per portarti a casa, mentre qui è un po’ gratuito. 


Mara Sattei, Duemilaminuti

L’ascolto della versione in studio risolleva la canzone, che sul palco aveva troppa impostazione da ballad eroica sanremese, troppo afflato, specie per via del fatto che - per mancanza di fiato, probabilmente dovuta a emozione - la prima strofa risultava inintellegibile. In più in studio si colgono meglio alcune finezze, tipo la costante presenza dei coretti irreali del fratello thasup che danno un bello strato a una canzone che - nonostante la semplicità - suona bene. Il pre-ritornello, dove Mara attacca il suo tipico flow anapestico (ta-ta-TA ta-ta-TA), è la parte davvero memorabile di un pezzo che la cantante fa di tutto per sollevare dalla mediocrità: la strofa è la principale indiziata, per lo shuffle di batteria (tum-cià tu-tum tum-cià) che si sente in mille tracce; ma anche il ritmo del ritornello non va bene, secondo me, perché ruba l’abbrivio che Mara costruisce con quel pre-ritornello bello tirato. Forse sta cercando una strada per passare dal suo passato, quello dove la melodia veniva trattata ritmicamente alla maniera di una barra rap (in pezzi come Ciò che non dici arriva addirittura a cantare in peoni quarti: ta-ta-ta-TA), verso una destinazione più convenzionale, ma non sono sicuro che ci sia tanto spazio, dove sta andando.


Rosa Chemical, Made in Italy

Musicalmente non c’è molto da dire, è una canzone che ricorda (e in realtà cita esplicitamente) Pa Pa Americano, titolo non ufficiale ma comunque corretto di We No Speak Americano. E lo fa proprio per prendersi in gioco dell’ossessione per l’italianità, la mascolinità, l’ansia da prestazione, e in generale quel di cui la gente si vanta. Per questo, perché ha una prospettiva più lunga oltre l’orizzonte della provocazione, è un pezzo più intelligente di quel che vuole lasciar intendere (la citazione “io voglio morire da italiano” è un cortocircuito particolarmente brillante). Ma a parte questo, sarà un maledettissimo tormentone, quindi ha già vinto.


Gianluca Grignani, Quando ti manca il fiato

Un esempio tipico di canzone che ti devi sentire in versione in studio per capirla bene: sarà stata l’emozione, sarà stato il cantato un po’ troppo parlato e alla Califano, Grignani non si è fatto capire bene. La canzone ha un DNA sicuramente anziano e uncool: ma attenzione a elogiare i battistismi di Colapesce Dimartino (e lo faremo) e scrollare le spalle davanti a quelli di questa canzone. Penso al rallentamento sui versi “tu verrai al mio funerale, tu verrai?”, che fa tremare abbastanza le gambe di per sé figuriamoci così. Certo, pezzi come Mi ritorni in mente o La collina dei ciliegi aprivano poi praterie di senso ulteriori, mentre qui non vedo tanti spunti altri, la canzone rallenta per poi riprendere come se niente fosse successo. E tuttavia sembra costruita con parti diverse, non perfettamente aderenti l’una all’altra. Insomma, grande stima per il coraggio di raccontare questo percorso di redenzione di un sentimento, ma la canzone poteva comunicarlo meglio.


Levante, Vivo

Come nel caso di Mara Sattei, l’ottimo lavoro di una parte della canzone di Levante viene annullato nel ritornello. Qui è ancora più un peccato, perché sia la strofa sia il pre-ritornello fanno crescere la tensione; e questo è un bel modo per interpretare l’idea che dentro ciascun essere umano la parte erotica (ma in generale una parte pulsante e viva) viene razionalmente individuata e scoperta, quindi istintivamente abbracciata e questa, da parte sua, finisce per sovrastare mente e corpo. Purtroppo, il ritornello praticamente strillato su una sola nota - per me - non è una buona risoluzione di questa tensione. La traccia è prodotta benissimo, a tratti ricorda un pezzo alla Clean Bandit, pop danzereccio costruito un blocchetto alla volta e con grande attenzione alla voce. Spesso quelle canzoni, quando non stanno in piedi, rianimate da queste voci stratosferiche o da drop esagerati: grossi drop qui non ne abbiamo, e Claudia Lagona ha tanti pregi, ma tra questi non c’è una voce stratosferica. Spiace molto, perché concettualmente è un pezzo superiore a Tikibombom.


Tananai, Tango

Quella che sembrava solo una canzone su un amore a distanza acquista tutto un altro significato grazie al videoclip. Può sembrare un trucchetto, ma i video sono e devono essere strumenti che completano il testo (nel senso semiotico) della canzone. Parole come “palazzine a fuoco”, “non siamo come loro”, “meglio che non rimani qui” e scelte di sound design come le sirene abbastanza evidenti nella prima parte del brano allora rimandano a tutt’altro contesto, una volta che si vedono i frammenti di vita di questa famiglia separata dalla guerra in Ucraina. Ovviamente questo è un colpo bassissimo, e non perdonerò mai Tananai perché ormai non riuscirò più a sentire Tango senza commuovermi. Specie perché - ha spiegato il cantautore - la storia di questa famiglia gli è stata riportata mentre stava mettendo a punto il brano, quindi è impossibile non vedere un’intenzione chiara in quello che si canta e non solo in quello che si vede. E poi, quando alle parole d’amore o ai PENSIERINI riesci ad associare qualcosa di vivo e di vero, anche solo per un attimo, le cose si fanno improvvisamente più serie, non si scherza più. Certo, possiamo calarci nella mente di una prostituta, o trastullarci con una metafora atmosferica, o crogiolarci in qualche ricordo del liceo, ma quando riesci a creare collegamenti nel mondo presente, allora hai trovato la proverbiale pignatta d’oro. Peraltro ieri Tananai ha cantato molto bene (ragazzi che fate musica: investite la Siae in lezioni di canto, che poi vi tornano utili), mettendo in risalto l’arrangiamento quasi soltanto orchestrale e le melodie che l’artista sa scrivere da sempre: quindi, insomma, le chance di un eccellente piazzamento sono tutt’altro che basse.


Lazza, Cenere

Senza dubbio la canzone che mi ha stupito di più ieri: era dai tempi di Soldi che a Sanremo non atterrava una canzone così profondamente immersa nei suoni del suo tempo. Suoni non necessariamente rap, e questa era la sorpresa-non-sorpresa che tutti sapevano, cioè che Lazza non si sarebbe esibito in quello che finora è stato il suo campo ideale. E tuttavia suoni contemporanei, con elementi house classica che si sentono nel sample che accompagna l’intero brano (mi dicono che è un’incisione originale creata da Dardust) con quegli acuti soul tipicissimi del genere. Sono poi gli stessi ingredienti di metà dell’album Renaissance di Beyoncé, ma anche di pezzi come Fade di Kanye West, cioè di Mr. Fingers - senti quel movimento di basso prima del ritornello? E anche se Lazza non ha lo stile di Mahmood, né la canna della signora Knowles, bisogna dire che ha cantato con voce stentorea e autorevole: sembra veramente un pezzo *suo*, cioè concepito e creato gelosamente dal suo autore. Il testo ha diverse ingenuità e convoluzioni di cui abbiamo parlato ieri, ma non credo che questo passerà. Credo che passerà il fatto che è - passatemi il termine - un boppone.


LDA, Se poi domani

Battute sul nepotismo a parte, sembra davvero una canzone di Gigi D’Alessio se Gigi fosse nato nel 2001 e avesse avuto Ed Sheeran come idolo (ce n’è di peggio, immagino). Ma a parte questo, non capisco perché un artista della generazione Z dovrebbe fare una canzone che lui stesso non ascolterebbe, o che comunque un suo coetaneo stenterebbe a riconoscere. Senti quello zum-pa-pa che fa la batteria sotto? Ecco, è il tipico 12/8 delle ballad rock’n’roll di fine anni ‘50, musica che è stata adorata dai ragazzini, sì, ma quando erano ragazzini i Beatles (che infatti le riprenderanno in Oh Darling). Boh, ok. 


Madame, Il bene nel male

Confermata l’impressione iniziale dell’insalata di parole, Madame ha portato una canzone dove il significato delle parole è assolutamente secondario, se non terziario. Per confermare la sensazione generale sulle canzoni in gara, anche questo è un pezzo da ballare: la voce è parte di un disegno ritmico spinto dal beat, e che nel beat ha il suo centro gravitazionale. Io ritengo stancanti, dopo un po’ di ascolti, le canzoni con melodie monotone e mononòte come quella di Il bene nel male, ma il concetto del brano è solidissimo, proprio per il ruolo che si prende il canto. E nonostante sia stata un po’ impacciata sui tacchi (meglio tornare scalza?), credo che dal vivo la sua prova sia stata abbastanza ineccepibile. Bellissima anche la copertina del singolo, che sembra riprendere Freetown Sound di Blood Orange. Anche qui, come per Lazza, la produzione rimanda alla house, in particolare i bassi che scoppiano come palloncini sanno di deep house, ma forse più Disclosure che non Frankie Knuckles.


Ultimo, Alba

La canzone di Ultimo è una pasta al burro semplice, e tu ti senti al vertice - tanto per citare un altro vero eroe degli ultimi di Sanremo. La versione in studio è molto più efficace di quella sentita sul palco, e forse c’entra il fatto che quando canta in crescendo, l’artista romano non riesce a non strillare un po’ (dopo il microfono finito in acqua con Salmo, il suo è il più maltrattato di questa edizione). E in realtà un po’ dispiace, perché ci sono dei punti abbastanza interessanti, diciamo che in questa metaforica pasta al burro sono come una grattugiata di bottarga di muggine: mi riferisco a quelle dissonanze (o quelle che al mio orecchio ineducato suonano come tali) nelle ultime due note del secondo e nel quinto verso del ritornello: “Se stessimo di fianco alle abitudini” e “E avremmo dentro noi perenni brividi”. Tutt’altro che facili da azzeccare dal vivo, mi rimandano a Claudio Baglioni, e hanno una raffinatezza che il testo non merita. Comunque sta spaccando nello streaming, quindi chissà come andrà.


Elodie, Due

Elodie continua la sua trasformazione nella Dua Lipa italiana: Due è una Bagno a mezzanotte, ma per questo bagno sono stati indossati dei braccioli. La descriverei come una slow disco (di nuovo le radici danzerecce), con degli spunti geniali, tipo tutti quegli staccati nel canto, ripresi dagli archi, prima del ritornello (“Tu vuoi una donna che non c’è [pausa] E se ci pensi il nostro amo-Re è na-To appena…”). A margine, la melodia della prima parte del ritornello (“E se a quest’ora mi cerchi, perdonami”) è molto simile a quella della strofa di Lose Yourself To Dance dei Daft Punk, probabile ispirazione generale per il mood dell’arrangiamento, ma con un profilo ritmico un po’ più sincopato. E sia chiaro che non stiamo parlando di plagi: la parola con la P deve essere vietata durante la settimana del Festival. Bellissimo pezzo.


Giorgia, Parole dette male

Un’altra artista che ha guadagnato dall’ascolto su disco è Giorgia: la Gestalt del brano, cioè diciamo la sua “forma”, mi era risultata un po’ nascosta da una prova non perfetta, apparentemente affaticata. Ovviamente si sentivano e si sentono ancora fortissimi i suoni incredibilmente anni ‘90 della tastiera: credo di poter dire con buona certezza che si tratti del suono di una Roland J-800, preset Crystal Rhodes (usava moltissimo nelle ballad del tempo, basta sentire un pezzo di Celine Dion), ed è talmente nostalgico che mi sono sentito di nuovo alle scuole medie. E soprattutto è venuto fuori un basso che ha una pasta molto bella, che mi ha ricordato diversi brani di Ultimamente di Alex Baroni, persona alla quale la canzone sarebbe dedicata. Come immaginavo, i versi che, soltanto letti, mi sembravano pesanti e retorici hanno assunto tutta un’altra anima nell’interpretazione, e questo è bello, perché la canzone è tutt’altro che banalotta: tra le righe c’è tutto un ragionamento sul valore del ricordo, e “non è tutto finto nei film” ne è una bella sintesi. Non so se arriverà sul podio come dicevano le quotazioni, ma sicuramente sul lungo periodo farà una bella figura con un pezzo fin troppo ricercato per il Festival.


Marco Mengoni, Due vite

Il vincitore annunciato di questa edizione ha portato una canzone a suo modo davvero perfetta, piena di piccole cose importanti. Quel riff di pianoforte (Re - Do# - La - Re) che insiste con la sua andatura zoppicante all’inizio sembra un vezzo, e poi invece costruisce un intreccio ritmico sopra il quale la melodia della strofa si muove quasi in controtempo (meno male che c’è il click in cuffia, in-ear permettendo), e lo fa - con un ritmo ancora diverso - prima del ritornello. E la seconda strofa, dove arriva il beat, mette un ulteriore ritmo in questo arazzo che, davvero, pare ovvio solo perché i bravi cantanti pop fanno sembrare facili cose difficili. Poi, certo, ci sono dei trucchi piacioni nel ritornello: tipo quella pausa così tipicamente mengoniana prima di iniziare gli acuti; e appunti degli acuti costruiti perfettamente sulla sua tonalità. E però anche il ritornello si risolleva, quando in modo abbastanza effortless si spegne e fa ripartire il riff di piano, che ritorna sul finale. Il testo ha qualche altra chicca: ad esempio “la mia maglia Metallica” (secondo AppleMusic la M è maiuscola) che da una parte è una metonimia, cioè “la maglietta dei Metallica”, quel dettaglio da pop post-Mahmood che piace tanto; dall’altra è un doppio senso che ricorda altre maglie metalliche, cioè la cotta dei cavalieri (forse una specie di auto-citazione di Guerriero? peraltro brano con una bella pausona prima del ritornello). L’attenzione ai dettagli è estrema: anche nel modo in cui si è presentato sul palco martedì, con un vestito che mi ha ricordato terribilmente la tenuta in pelle di Elvis per il suo Comeback Special del 1968, e in fondo non è un “comeback” dopo 10 anni dalla vittoria anche quello di Mengoni? Per questa cura nelle parole e nei suoni anche minimo ho pensato subito a Fai rumore di Diodato, canzone che ha un’apertura perfino superiore a quella di Due vite, ma insomma, il campionato è quello. E con Diodato sappiamo com’è andata. 


Colapesce Dimartino, Splash

A proposito di campionati, Colapesce Dimartino giocano in una lega a parte. Splash ha un potenziale di appiccicosità paragonabile a Musica leggerissima, ma aggiungendo altri livelli. Intanto è una canzone che dietro la forma del dialogo apparentemente tra due persone cela chiaramente un soliloquio: è una persona che parla a sé stessa, da una parte cercando di convincersi che dovrebbe riposarsi, dall’altra nascondendosi nel lavoro, occupando le giornate come fa chi non vuole sopportare i propri pensieri. Una canzone sul suicidio? Probabilmente sì, e non solo per come il discorso viene interrotto dallo “splash” finale: è proprio il ritornello a troncarsi sul più bello, con quel “travolti dall’immensità del blu” che vieta la ripetizione. In questo senso è più difficile di Musica leggerissima, ma perché nella sua apparente facilità non concede proprio un cazzo. Vedi anche il bridge, che mentre in Musica leggerissima spiegava il senso della canzone, qui invece offre un affresco non-sense, sicuramente disseminato di citazioni che non sono ancora riuscito a cogliere per intero, ma ci arriverò. A proposito di citazioni (ma sarebbe meglio parlare di eredità) in tante cose senti dei riferimenti musicali precisi: io, personalmente, ho avvertito nella prima strofa di Colapesce, specie in “tu vivresti qui per sempre”, un ricordo delle melodie che si accartocciano su sé stesse di Enzo Carella in pezzi come Parigi, e nella seconda strofa di Dimartino un accompagnamento con il 4/4 sincopato alla Sì, viaggiare di Battisti (anche quella, una canzone che parla di ignorare i propri problemi partendo, probabilmente verso l’aldilà). Se non vince il Premio della critica e non finisce nella finalissima a 5 sarà un furto.


Coma_Cose, L’addio

Intanto per cominciare il testo di L’addio sembra uno dei pochi in questo Festival a parlare d’amore ed essere contemporaneamente scritto da due adulti. Come dicevo, nel modo di esprimersi di Fausto e Francesca senti vite vere, conversazioni vere. E metafore non banali. Curiosità a caso: per due brani di fila sarà usata la parola “ringhiera”, gli statistici in sala mi dicano se è mai capitato nella storia di Sanremo. Musicalmente, la traccia ha gudagnato moltissimo dalla versione in studio: intanto perché - lo sappiamo - i Coma_Cose non sono i migliori vocalist in circolazione; ma anche il suono di batteria un po’ da fustino Dixan del live scompare nel disco. Altra curiosità a caso: il giro di accordi della strofa di L’addio è lo stesso di Stars Are Blind di Paris Hilton, e non a caso L’addio piace alle persone dotate di buon gusto. Altra chicca: la melodia che discende nel secondo verso del ritornello atterra sulla tonica (“Potrò sempre ritornare da te”), come a dire che quella promessa è già mantenuta fin da principio; e peraltro quella melodia è la stessa del secondo verso di Crocodile Rock, evviva le pentatoniche! Temo che il televoto farà scendere di molto questo brano dalla classifica attuale, ma non importa: Fausto e Francesca - l’hanno annunciato oggi in conferenza stampa - si sposano! Auguri.


Leo Gassman, Terzo cuore

Come prevedevo, l’intensità e serietà di Leo Gassman depotenzia la cifra di Riccardo Zanotti: laddove lui inserisce autoironia, citazioni, colloquialismi per allentare la tensione del sentimento e strizzarci l’occhiolino, invece Gassman va giù fino in fondo. Le ossa del pezzo ci sono, ma è il suo carattere che mi lascia perplesso. Altra somiglianza del tutto casuale: la melodia di “maledetto terzo cuore!”, con cui si chiude il ritornello, è la stessa di “e va bene guida tu” in Acqua e sale di Mina e Celentano. Queste scale: non sai mai dove ti porteranno!


I Cugini di Campagna, Lettera 22

Ho già intessuto lodi del testo, ma anche la musica di questa canzone è eccellente. Devo ammettere che dal vivo il ritornello “Non lasciarmi solo, non lasciarmi qui” è meno forte e tirato, rispetto alla versione in studio. Su disco Lettera 22 diventa un pezzo dei Bee Gees, e così si chiude un cerchio con i veri padrini del falsetto e delle zeppe. Che però non hanno mai cantato un testo così desolato e triste, questa preghiera disperata, scritta da La Rappresentante di Lista. Forse resterà soltanto una nota a pié di pagina di questo Festival, ma spero di no.


Olly, Polvere

Il pezzo di Olly tira fuori un guizzo techno che, sommato a tutte la altre influenze danzerecce, descrive davvero un festival mai così da ballare. Nelle melodie e negli arrangiamenti di Polvere qualcuno ha sentito Senza pagare e altri Crisi di stato, quindi dovremmo dire che Olly è il nuovo Fedez. Sicuramente sta pagando, come tutti i giovani, l’affollamento di questo cast: ma è abbastanza chiaro che il futuro è di artisti come lui, che stanno già costruendo (chi più chi meno) il pop del 2024-25 e così via.


Articolo 31, Un bel viaggio

Al netto della commozione di Ax e Jad (e di chi si è commosso vedendoli commossi, come me), la loro canzone è un po’ amarognola, come prevedevo. Potremmo dire che è l’equivalente musicale della letterina che Chiara Ferragni ha scritto a sé stessa. Ma si sa, il culto della personalità è il prodotto più esportato della nostra industria. Poi c’è il fatto che tutto sommato è una canzone degli 883 con il rap, nel male più che nel bene. Tipo, prendi la melodia del ritornello che è molto simile a quelle di Occhi rossi di Coez: solo che Coez ci rimbalza sopra, appoggiandosi sempre un attimo prima e creando una sensazione sincopata molto hip-hop; invece J-Ax canta dritto per dritto, come se fosse l’inno di Mameli. Come Pezzali, appunto, che tra tutte le sue qualità non ha certo il groove. E insomma, si poteva fare di più, ma bella zii.


Ariete, Mare di guai

Ariete invece ha fatto tantissimo. Nei commenti post-puntata si è parlato della tensione che l’avrebbe portata a sbavare quella che - stando alle recensioni del primo ascolto - veniva descritta come una canzone “semplice”. Io tutta questa semplicità non la sento: alla prima prova di fronte a una platea di questo tipo Ariete deve cantare su almeno tre ritmi diversi, con un tempo raddoppiato nel pre-chorus e nel bridge, e intonando un ritornello che parte di botto con la nota più alta. Ho visto cose molto più facili, e nonostante tutto questo Mare di guai risulta assolutamente cantabile. Sicuramente nell’ambiente controllato dello studio, con la possibilità di rifare take e correggere il correggibile, è molto più pulita: ma - e lo dico da ascoltatore di Ariete fin dall’inizio - questo mi sembra uno dei suoi pezzi migliori. Anche per certe raffinatezze, tipo gli accordi che si distorcono nella strofa; o la frasetta di pianoforte che incornicia il tutto. Più che semplice, insomma, lo definirei "evergreen" (cit).


Sethu, Cause perse

Chiudo con Sethu, perché è tardissimo e gli altri artisti mi perdoneranno. Lo cito perché la stampa lo ha piazzato all’ultimo posto, ma in modo un po’ ingiusto. Sicuramente lo spirito punkeggiante nella versione live ha fatto emergere la parte più Machine Gun Kelly del brano. Dalla versione in studio si capisce bene che il punto di riferimento è più il punk elettronico, ma non il neon pop alla dARI, semmai qualcosa di affine al bigbeat britannico. Sicuramente c’è tanta strada da Cause perse a un pezzo dei Prodigy. Ma è una strada che in qualche modo Sethu ha imboccato, mentre altri sono fermi in piazzola a fumarsi una sigaretta.


Basta così, andiamo a cena. Ci vediamo su Twitter e su Telegram, se internet continuerà a esistere.

Ciao Louder

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Louder
Sanremo per chi non ha sbatti
Per celebrare la "settimana santa" del Festival di Sanremo ti racconterò ogni giorno - da martedì a domenica - quello che sta accadendo, come ci sembrano le canzoni, e perfino qualche polemica.